di Niccolò Biondi
Dopo la caduta del governo Conte – che, con tutti i limiti e le contraddizioni del caso, ha rappresentato una parziale tregua rispetto alle politiche di macelleria sociale e smantellamento della Costituzione degli ultimi trenta anni – si sta profilando all’orizzonte un governo tecnico guidato da Mario Draghi, nel giubilo dell’establishment politico e mediatico che incensa di lodi il “salvatore della patria”. I governi tecnici sono, da sempre, la migliore prospettiva per i liberali e per le categorie sociali (soprattutto imprenditori e industriali) che rappresentano, nonché il punto in cui il liberalismo economico sfocia nell’autoritarismo. In questa ottica si può affermare che il governo tecnico guidato da Draghi si configuri come una nuova marcia su Roma, che inaugura una nuova stagione politica reazionaria, con logiche politiche neocorporativa all’interno di un governo diretto del capitalismo italiano. Ma andiamo per ordine. Come mai il governo “tecnico” rappresenta l’ideale politico liberale, ed è un punto di congiunzione con l’autoritarismo e il fascismo? Per tre motivi principali: 1. guardando alla superficie della realtà della società capitalistica, il primo motivo è ideologico e cioè l’idea che ci sia il mercato che si autoregola: esiste una realtà economica che possiede leggi di funzionamento proprie, che non devono essere alterate dalla politica se non si vuol combinare disastri. Lo Stato deve conoscere come funziona l’economia e rispettarne le logiche interne: un pensiero che accomuna tutta la tradizione di pensiero liberale, dai fisiocratici francesi del XVIII secolo ai neoliberali odierni. Che lo Stato debba “lasciar fare, lasciar passare” come nel liberalismo classico, o intervenire costantemente e capillarmente per realizzare situazioni di concorrenza e oliare i meccanismi del mercato come nel neoliberalismo, il succo politico del discorso non cambia: il governo deve conoscere la “tecnica” economica, deve essere governo tecnico che non interferisce con i meccanismi dell’economia. 2. Andando un po’ più a fondo, si comprende che il mercato che si autoregola altro non è che un insieme di produttori e consumatori che prendono rispettivamente decisioni di investimento e consumo (con le conoscenze e le risorse limitate di cui dispongono) in vista di un interesse individuale che, sommandosi a quello degli altri, in teoria dovrebbe produrre spontaneamente il benessere collettivo. Da Adam Smith a Friedrich August von Hayek, la logica della mano invisibile è questa. È questo il livello di analisi che ci permette di comprendere la logica politica profonda della realtà capitalistica, al di là dell’ideologia del libero mercato: “lasciar fare” al mercato che si regola, e quindi governare tecnicamente, significa lasciare che la direzione della società e dell’economia (cosa produrre, in che quantità, con quali modalità di produzione, et cetera) sia lasciata alle decisioni degli imprenditori e degli industriali, e cioè dei soggetti sociali che hanno il potere economico – che in teoria, in una situazione di mercato perfettamente concorrenziale, sarebbero in balia dei gusti e delle preferenze dei consumatori “sovrani”: nella realtà dell’economia di mercato, tuttavia, quello del “consumatore sovrano” è un puro mito, dato che la struttura dei gusti e delle preferenze è dovuta al potere d’acquisto (che dipende dalle decisioni di investimento degli stessi capitalisti) e dalle strategie di marketing; in poche parole, quella dei consumatori è un’autonomia costantemente manipolata e controllata, soprattutto se i poteri economici possiedono anche il controllo dei principali organi mediatici e hanno a disposizione dei social network da inondare di pubblicità mirate.
“Governo tecnico”, in questo senso, significa governo non politico e cioè governo che lascia al capitale il potere politico di indirizzare lo sforzo economico della società: significa governo che non interviene nei rapporti di forza in seno alla società, non scalfisce l’autonomia dell’economia, non tenta di imporre un punto di vista diverso e finalità che emergono nella dimensione della politica. A maggior ragione se esistono istituzioni democratiche: il governo tecnico non è altro che un governo che protegge il potere economico e sociale dei soggetti del capitalismo dal potere politico delle forze sociali del lavoro salariato, dei dipendenti pubblici, dei disoccupati, et cetera. 3. Come si capisce bene, dunque, i governi tecnici non esistono: tutti i governi sono “politici”, e i governi tecnici sono quindi proprio i più politici di tutti proprio perché incarnano la logica dell’assenza della politica democratica. “Economia libera in uno Stato (tecnico) forte”: parafrasando Carl Schmitt, è questo il punto in cui la differenza tra liberalismo e autoritarismo fascista sfuma fino a scomparire e si riduce all’ideologia che giustifica il sistema capitalistico: nella sostanza, oltre l’ideologia e la retorica, la questione è far sì che lo Stato sia un’istituzione forte capace di proteggere l’assetto capitalistico e le logiche di mercato dalle influenze politiche delle parti sociali che nell’economia e nella società si trovano ad ubbidire ai datori di lavoro, agli imprenditori e agli industriali. Non a caso il fascismo, prima della crisi del 1929, non applicò realmente il corporativismo e fu poco più che la tutela dell’economia liberale con altri mezzi (non a caso uno dei punti di riferimento di Mussolini fu la Lira a “quota 90”, e cioè proprio la parità aurea che era stata per decenni il pallino degli economisti liberali). Come scrive Karl Polanyi, il fascismo è il virus endemico del sistema capitalistico ed è l’essenza profonda del liberalismo economico: è il capitalismo che si fa Stato, che riesce a instaurare il governo diretto del potere economico. Nulla di meglio, per gli imprenditori e gli industriali, che un governo forte e antidemocratico che faccia rispettare i diritti di proprietà, che impedisca l’influenza politica delle classi popolari, che sia in grado di mediare tra datori di lavoro e sindacati riducendo le pretese dei lavoratori, che alla bisogna utilizzi la spesa pubblica per sostenere le falle del sistema capitalistico nei suoi momenti di crisi. Il Cile di Pinochet è, in questa ottica, l’esempio di un liberalismo economico che scivola nel fascismo: un governo autoritario e dittatoriale che sospende le libertà politiche in funzione di quelle economiche. Il capitalismo affronta periodicamente crisi di sistema e di consenso, e necessita la sospensione (formale o sostanziale, a seconda del particolare contesto) delle libertà politiche e della democrazia in funzione della salvezza delle libertà economiche e della salvaguardia dell’assetto della proprietà e delle logiche dell’economia liberale.
L’Italia sta affrontando una gravissima crisi economica e politica, ed è proprio in questo senso che si può affermare che il governo tecnico di Draghi sia una nuova marcia su Roma: è una svolta reazionaria dell’Italia che svolge la stessa funzione che svolse il fascismo nel secolo scorso, e cioè realizzare il governo diretto dei poteri economici (su tutti Confindustria) al riparo dalle potenziali influenze politiche delle classi popolari attraverso le istituzioni democratiche. Non a caso il cuore politico di questa operazione è l’esclusione del Movimento 5 Stelle dalla maggioranza, o quantomeno un forte ridimensionamento della sua influenza sul governo, così come l’abolizione del reddito di cittadinanza chiesto da più parti, da Renzi a Salvini: l’obiettivo è quello di utilizzare i fondi europei nelle modalità e con le finalità richieste da imprenditori e industriali, ripristinare il regolare funzionamento del mercato del lavoro (che necessita di persone senza reddito di cittadinanza, costrette ad accettare qualsiasi salario e qualsiasi forma contrattuale per sopravvivere), allontanare dalla stanza dei bottoni quei politici che (con tutte le contraddizioni e i limiti del caso) rappresentano la parte più debole e povera della popolazione (lavoratori salariati, dipendenti pubblici, disoccupati). Una marcia su Roma che ripristina il governo diretto di Confindustria e del potere economico, in una situazione di sospensione sostanziale della democrazia, in poche parole.
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