Va riconosciuto un merito al Presidente Mattarella: il suo invito a superare le ‘formule’ che hanno ingessato la dialettica politica al tempo del Conte 2 rappresenta un’operazione di igiene e di chiarezza politica.
Negli ultimi due anni il sistema politico sembrava essersi riequilibrato intorno alle coordinate abituali: intorno ad un bipolarismo tradizionale, privo di una contesa reale e mancante di senso, che non polarizza il campo su specifici contenuti ma su parole vuote e astratte che possiedono contemporaneamente un significato ma anche il suo opposto.
Con l’investitura di Draghi si torna invece allo scenario post elezioni del 2018, quando era emerso che il cleavage fondamentale del sistema politico era tra le forze filo-establishment e le forze antisistema (che avrebbero formato il governo giallo-verde).
Il quadro politico può oggi finalmente ricomporsi attorno alle linee di frattura più vere e profonde: da una parte il polo della subalternità al vincolo esterno, dall’altra un’opzione a favore dell’interesse nazionale da declinare guardando alle fasce di popolo legate alla domanda interna; da una parta il principio di fedeltà ai Trattati europei posti a tutela della concorrenza e della stabilità dei prezzi, dall’altra il primato della nostra Costituzione, fondata sul lavoro e la piena occupazione. Da una parte la logica dell’emergenza, dall’altra chi vede nel richiamo ipocrita al senso di responsabilità l’estremo tentativo di difendere gli assetti di potere consolidati ma in crisi.
In ogni caso l’operazione Draghi è la rappresentazione plastica delle ragioni per cui non possiamo considerare chiusa, nonostante la sconfitta di Trump, la cosiddetta stagione populista. Attorno alla sua investitura troviamo scolpite le contraddizioni drammatiche ancora oggi irrisolte, aggravatesi negli anni dell’euforia neoliberale e di subalternità al vincolo esterno, che sono all’origine dell’insorgenza populista. Come si è altre volte scritto, il populismo, per come si è presentato in Italia e in altri Paesi europei, ha rappresentato sostanzialmente una reazione – sacrosanta – ai processi di svuotamento della sovranità democratica dall’alto e di sradicamento sociale in basso ai quali abbiamo assistito negli ultimi decenni. Una reazione che, in questo nuovo scenario, può ritrovare nuova linfa.
Il nome di Draghi, come era prevedibile, è stato accolto con grande favore dalla grande stampa e, salvo qualche distinguo, da buona parte delle forze politiche presenti in Parlamento. Quello che va sottolineato è però il travaglio del Movimento 5 stelle stretto negli ultimi tempi fra il richiamo acritico al mito delle origini e una certa accondiscendenza verso l’establishment. L’atteggiamento che decideranno di assumere nei confronti di Draghi rappresenta una sorta di momento verità: intestarsi l’opposizione all’eventuale governo Draghi sarebbe un’occasione per rilanciare e ridefinire le ragioni della loro esistenza politica.
Naturalmente, si tratterebbe di assumere un’iniziativa su basi e contenuti in parte diversi da quelli che hanno caratterizzato la strategia degli ultimi mesi (vedi il tema UE). E servirebbe, più in generale, ripartire da una lettura capace di rendere conto di ciò che è vivo nella impostazione originaria e di ciò che invece deve essere considerato caduto perché privo di fondamento e all’origine degli esiti attuali. Maturando un’idea diversa e più consapevole del ruolo della politica, dei partiti e delle ragioni profonde della crisi della nostra democrazia costituzionale, riproponendo allo stesso tempo la propria natura di forza antisistema su basi però più solide sul piano politico-culturale.
Se possiamo considerare il populismo ancora oggi una risorsa politicamente spendibile, la retorica opposizionale sulla quale esso si struttura va però inserita all’interno di un quadro politico-culturale solido, ma declinato in modo aperto e moderno. Attorno a nuove parole d’ordine mobilitanti e a una leadership riconosciuta e credibile.
Quale che sia il destino dei 5 stelle, lo spazio politico da loro occupato non è comunque destinato a chiudersi. E l’opzione di un terzo polo situato al centro (senza essere centrista), fuori e contro il bipolarismo tradizionale, rappresenta lo sbocco naturale di una forza politica nazionale-popolare collocata dalla parte del lavoro e della Costituzione. Una forza politica – questo l’auspicio – finalmente guidata da una classe dirigente capace di ragionare in termini di interesse nazionale, che non significa rinunciare ad un’idea di spazio comune europeo, bensì muovere dalla convinzione che un nuovo modello di cooperazione fra i Paesi europei può nascere solo a partire dalla radicale messa in discussione dell’attuale modello di integrazione europea.
D’altra parte la tendenza degli ultimi anni ha visto il successo di quelle forze che hanno vestito i panni del “partito della nazione”, quasi affermando un nesso tra necessaria origine di parte e necessaria tensione alla totalità. Questo modello di partito sembra ancora oggi l’unico in grado di riempire veramente lo spazio politico: un tipo di partito animato sì da spirito di scissione, ma allo stesso tempo destinato a costruire un principio di unità politica e a rilanciare il “primato dell’indirizzo politico (depositato in Costituzione) come fattore unificante”, per dirla con Costantino Mortati.
Negli ultimi tempi allo schema tradizionale destra-sinistra si sono sostituite altre dicotomie; gli elettorati oggi sono diventati più fluidi, meno prevedibili negli orientamenti, molto più disposti che non in passato a rinegoziare i vincoli di fedeltà a opinioni e scelte di campo, a costo anche di abbandonarli. Se fino a qualche decennio fa la competizione dei partiti per il potere avveniva al di qua e al di là del discrimine destra/sinistra, oggi lo scontro appare piuttosto dislocato secondo altre linee di frattura. Se le categorie destra/sinistra hanno perso la loro forza evocativa e il rimando a specifici contenuti, quello che si può fare – ad avviso di chi scrive – è semmai caratterizzare una proposta politica facendo riferimento ai grandi concetti politici che hanno animato la vicenda teorico-politica ottonovecentesca: liberalismo, democrazia, socialismo, conservatorismo, ecc.
Nella consapevolezza però che le sfide dei nostri giorni esigono risposte in parte nuove, nonché sincretismi fra tradizioni culturali diverse. Si veda ad esempio la necessità di un dialogo fra il pensiero laico di ispirazione socialista e le grandi tradizioni religiose su un terreno diverso dal passato, che non è più soltanto quello di una comune critica al capitalismo, perché ruota attorno alla dimensione del sacro, del recupero di un’istanza di trascendenza e della traduzione – per dirla con Habermas – dei potenziali di senso non ancora sfruttati presenti nelle religioni.
Naturalmente non si parte da zero, qualcosa di saldamente piantato c’è: il nesso sovranità democratica-lavoro scolpito nell’articolo 1 e le grandi finalità a cui allude l’articolo 3 comma 2 rappresentano una bussola capace, oggi più che mai, di orientare l’azione politica.
A proposito della dialettica destra/sinistra, giova qui richiamare, a mo’ di conclusione, un breve passaggio di una recente intervista a Mario Tronti che, pur rimanendo all’interno di quello schema, coglie tuttavia molti elementi di verità:
“La sinistra non può chiudersi nel fortilizio del politicamente corretto, deve esporsi in combattimento sul campo del socialmente scorretto: che è quella parte di società storicamente di sinistra che occasionalmente vota a destra. Uno slogan del Pd dice: dalla parte delle persone. Occorre dire poi: quali persone. C’è una figura simbolica che squarcia il velo della situazione più di tante analisi sociologiche: è la figura dell’operaio che sta in piazza con la Cgil e nell’urna con la Lega. Non ci si può rassegnare a questo dato di fatto come a una fatalità. Ha delle cause che vanno rimosse. È necessario dunque capire che alcuni temi agitati dalla destra non sono di destra: il bisogno di protezione, la garanzia di sicurezza, per i più deboli, il problema immigrati da risolvere e non da declamare, la cura di tradizioni territoriali e anche nazionali. Ma allora bisogna cambiare pelle, cambiare faccia, scrollarsi di dosso l’immagine di essere establishment.”
Giulio Di Donato
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