di Geminello Preterossi
“Non crediate che io sia venuto a portare la
pace sulla terra; non sono venuto
a portare la pace, ma la spada”
(Vangelo di Matteo, 10, 34)
Il paradosso del presente, in cui l’orizzonte delle attese collettive si è abbassato e le matrici della memoria comune inaridite, pone interrogativi affrontabili solo attraverso una rinnovata dialettica tra cose ultime e penultime: è possibile una nuova fede politica e spirituale che nasca da una spietata critica del presente e dei sui luoghi comuni perbenisti, senza poter contare su una dimensione utopica, metapolitica? E come evitare che questa “uscita dal presente” imbocchi la strada senza uscita dell’irrealismo, o peggio delle distorsioni antistatali e antipolitiche che le retoriche su presunti “compimenti” post-politici nell’immanenza, garantiti da un’improbabile autonoma produttività del sociale, implicano? È possibile alimentare una vera energia dal basso, che funga da antidoto al disfattismo e susciti nuove speranze, senza poter contare su una qualche forme di religione secolare? O, detto altrimenti: è possibile avere una grande visione del mondo mobilitante, che è necessaria a spostare rapporti di forza e a imporre compromessi avanzati, sapendo da una parte che non ci sono mete finali garantite, compimenti definitivi, e dall’altra che il “capitalismo come religione” rappresenta un tempo apocalittico?
Da un lato c’è bisogno di un orizzonte che non sia angusto, dall’altro questo andare “al di là” non può presumere di realizzare il Giardino terrestre, superando definitivamente conflitti, ambivalenze, effetti di potere. Del resto, quand’anche fosse ipotizzabile un’umanità unita e pacificata, dovremmo chiederci se sarebbe augurabile, se non perderebbe vitalità e creatività, se tale processo di uniformazione non si risolverebbe in una omologazione delle differenze culturali e nella gerarchizzazione dei popoli. Inoltre, l’ipoteca della finitezza, con il carico di dolore e angoscia che porta con sé, non sarebbe certo sanata dalla palingenesi sociale. Unire grandi idealità con uno sguardo realistico sulla condizione umana e la sua politicità è necessario, perché quelle lotte animate da ideali e bisogni possono essere canalizzate verso risultati concreti solo se guardano alla realtà effettuale e si pongono il problema del potere. Il fatto che mai la realtà possa considerarsi conciliata è una risorsa che ci immunizza dall’appiattimento e dall’autoinganno.
La teologia politica è inestinguibile. Pertanto si rivela inaggirabile tanto sul piano teorico, quanto su quello pratico, anche quando, come oggi, si ripropone nella forma traviante del simulacro (finanziario e/o sanitario). Tale ipoteca, ribadita dal fallimento della post-politica neoliberale e delle promesse dell’umanitarismo occidentalista, attualmente produce non risposte politiche, ma surrogati di verticalità e di sicurezza (oggi sanitarie: peraltro ineffettive, a causa della demolizione dello Stato sociale, perpetrata da coloro che adesso si propongono come “custodi della salute”, in virtù dell’obbedienza cieca all’altro tabù che li domina, oltre al lockdown, quello dell’euro e della funzione salvifica dell’UE). Sia la teologia politica della rappresentazione simbolica, sia quella del katéchon, persistite sotto traccia, sono riemerse in termini di sfida e bisogno, ma ancora improduttivamente, generando sintomi, compensazioni, fantasmi, non nuovo ordine. Dopo l’11 settembre e la grande crisi finanziaria del 2008, abbiamo assistito al ritorno del “politico”, represso dalla spoliticizzazione neoliberale. Non ha senso stigmatizzarlo o contrastarlo, senza comprenderne cause e ragioni. L’unico modo per evitare i rischi del “politico” è accettarne la sfida. Altrimenti si rischia di ritrovarsi dalla stessa parte della spoliticizzazione, aderendo alla causa profonda – l’ideologia neoliberista e globalista – dei problemi contemporanei, magari nell’illusione di fronteggiarli: populismo di destra, antipolitica, fallimento delle élites, crisi di legittimazione della democrazia rappresentativa, processi di de-costituzionalizzazione dall’alto, senso di esclusione sociale e insicurezza, polarizzazione alto-basso, anomia globale e infine – come la crisi antropologica innescata dal coronavirus ha rivelato – desocializzazione e fuga dalla libertà. A un secolo dal suo annuncio, il tramonto della civilizzazione europea è più che mai all’ordine del giorno.
Tutti i tentativi di affrancarsi dal teologico-politico l’hanno riprodotto. Anzi, si può dire che la Modernità sia, in un certo senso, il tentativo per eccellenza di liberarsene, e che proprio questo tentativo abbia generato una forma peculiare, laica e post-teologica, del paradigma teologico-politico. Oggi come ci collochiamo rispetto ad esso? Da un certo punto di vista, l’idea di liberarsene si conferma illusoria. Ma più che una teologia politica in positivo, abbiamo di fronte “formazioni reattive” teologico-politiche: sia nella forma del ritorno del comando senza autorità (di cui il fideismo acritico nel lockdown è l’ultimo, odioso esempio, che è subentrato allo spread), sia come conclamato fallimento di una forma di vita politica immediatamente immanente, senza residui o riemergenze di trascendenza (che da un lato fallisce l’obiettivo di fare ordine, dall’altro si rivela subalterna al neoliberismo), sia come riproposizione intensa di costanti di sfida che la globalizzazione ha rimosso o sottovalutato (violenza, appartenenza, integrazione sociale, irriducibilità delle culture, necessità del limite). Certo, resta il dubbio se siano pensabili – all’epoca del “capitalismo come religione” (ma anche del suo fallimento pratico) – forme di soggettività politica intensa e allo stesso tempo trasformativa, se possano collocarsi “oltre” la teologia politica, e se quella costruzione di un senso di eccedenza che qualsiasi politica ad alta intensità comporta non sia stata vampirizzata dalla “teologia economica” (cioè dalla divinizzazione del mercato come unica autentica antropologia sociale possibile). Personalmente, credo che siano possibili e necessarie. La domanda è come: in quali forme (inevitabilmente non potranno essere quelle novecentesche), su quali parole d’ordine, in quale orizzonte di pensiero complessivo. Una cosa è certa: di visioni politiche ambiziose, che non temano di confrontarsi con le “cose ultime”, abbiamo bisogno. La politica come amministrazione va bene, forse, per tempi tranquilli. Non quando lo spirito torna a calzare gli stivali delle sette leghe. Le grandi visioni politiche si alimentano anche di contenuti prepolitici, di visioni generali filtrate dalla filosofia, dall’arte e dalle stesse culture religiose (hegelianamente, le forze etiche che muovono lo spirito oggettivo hanno un rapporto, seppur indiretto, con lo spirito assoluto). Se tali fonti spirituali si inaridiscono o vengono represse, le identità politiche si ottundono e burocratizzano. Ma al contempo, se mancano le trascendenze collettive, se viene meno la capacità delle istituzioni di andare oltre la mera amministrazione tecnica, l’arte e il pensiero soffrono, si isteriliscono.
Le ipoteche teologico-politiche pesano, insomma, anche in un tempo anti-teologico-politico come il nostro, riemergendo in forme inattese e sintomali. Ciò accade perché la teologia politica è essa stessa interna alla modernità e alla sua permanente crisi, e perché la società post-secolare non è realmente “oltre” come si autorappresenta. Inoltre, la transizione in corso, frutto della crisi del paradigma neoliberale (e ora anche dello stato di emergenza sanitario), pone in primo piano paure, ossessioni e rischi che rimettono in campo il bisogno di risposte affidabili, “ultime”, che possano esibire un ancoraggio in un principio di legittimità saldo. La stessa ossessione sanitaria è un sintomo di tale bisogno, e l’esibizione del fallimento dell’immanenza assoluta, della riduzione alla “mera vita”.
La tendenza alla “moralizzazione del giuridico”, che ha caratterizzato la politica liberal dopo il 1989, non solo si è accompagnata a una strumentalizzazione dell’universalismo illuminista che ne ha corroso la credibilità e il portato “critico”, ma oggi conduce alle pretese deliranti della cultura della cancellazione culturale, giustificate da un “politicamente corretto” ormai del tutto fuori binario, che produce esiti tanto fideistici quanto grotteschi: la demonizzazione di opere letterarie ed artistiche, la pretesa di abbattere indiscriminatamente simboli e memorie del passato, l’igienizzazione della storia, lo sdoganamento della censura, il rifiuto di una comprensione seria, profonda della tragicità della condizione umana e della complessità dei contesti storici e culturali. Le derive del moralismo e della furia distruttrice della “mezza cultura” non conducono a un rapporto più limpido tra etica pubblica, diritto e istituzioni politiche, all’insegna di un pluralismo critico, ma a una strumentalizzazione irrazionalistica del diritto, alla tribunalizzazione semplificatrice della storia e della politica, alla pretesa di normare per imporre all’opinione pubblica le visioni ritenute “corrette”, a una pericolosa omologazione del dibattito pubblico e alla restrizione della libertà di pensiero. Al fondo di tali fenomeni, c’è un pericoloso deficit di cultura politica, e una sostanziale sfiducia nella politica come luogo del conflitto delle idee e degli interessi, così come nella formazione critica che deriva da un confronto senza pregiudizi. Un assalto all’Occidente che riproduce i peggiori tic dell’americanismo, tutto interno all’ideologia occidentalista. La stessa attuale fase di “teologia sanitaria” appare come una sorte di fase estrema dell’umanitarismo, che nega se stesso, le sue autentiche ragioni, e mette a repentaglio l’esercizio critico della razionalità politica.
La “teologia economica”, a sua volta, alla lunga non pare funzionare (al netto dei costi sociali che comporta e della loro inaccettabilità). Ha creato consenso in una prima fase, ma poi ha generato disordine e ingovernabilità, rimangiandosi le promesse di benessere e pace irenica veicolate dall’ideologia fintamente anti-ideologica dell’assolutismo mercatista, cioè dell’economia neoliberale come forme di vita compiuta dell’umano. Ciò ha causato una profonda crisi di legittimazione, sia perché è caduta la fiducia nella capacità di governo e nella credibilità delle tecnocrazie, sia perché il vuoto di senso implicito nella negazione della polis, della vita in relazione, ha scavato sempre più a fondo dentro il guscio delle democrazie costituzionali. Alla fine, i più si sono resi conto che della loro sostanza era rimasto ben poco. Ciò ha generato quelle reazioni “populiste”, che pur nelle loro ambivalenze sono una rivendicazione di ciò di cui i cittadini sono stati espropriati, e quindi il segno che ancora nella promessa democratica, in qualche modo, si crede. Per neutralizzare il portato anti-sistema di tale spinte, così come la carica di ritrovata conflittualità esplosa nei movimenti degli ultimi anni, sia spontanei che organizzati (scioperi, gilet gialli, proteste di massa contro l’establishment) il neoliberismo, in difficoltà ma proprio per questo assai incattivito, può avere la tentazione di usare il coronavirus come l’occasione di un’accelerazione violenta verso una transizione tecnologica guidata dai giganti del web e della finanza, che metterebbe a repentaglio l’identità stessa della “seconda natura” umana, perché spazzando via le concrete, incarnate attività della vita economia, sociale e culturale, finirebbe per creare una vera e propria distopia. Si inaugurerebbe così la fase estrema dell’omologazione già denunciata da Pasolini, la completa neutralizzazione di quegli spazi pubblici e simbolici che, soli, rendono effettiva la democrazia (e la stessa comunità politica) e agibile un conflitto effettivo sui fini, che possa provare a mettere in discussione gli interessi dominanti. L’algoritmo al posto della democrazia: ovvero una finzione di neutralità che mira a un controllo totale delle vite. Siamo entrati in una terra incognita, con la crisi del coronavirus, anche per quanto riguarda l’Europa. Nessuno può dire oggi come andrà a finire, anche se sarebbe bene non farsi illusioni, e soprattutto non cadere per l’ennesima volta nella trappola della retorica e della propaganda, guardando ai dati di realtà geopolitici e geoeconomici (cosa che l’UE sembra incapace di fare, per opacità e inefficienza, come ha dimostrato l’ennesimo fallimento, quello sui vaccini). In ogni caso, rispetto ai rischi, agli scenari inquietanti che la trasfigurazione dell’emergenza (per definizione circoscritta) in eccezione normalizzata (cioè nell’ordinarietà dell’arbitrario) prospetta (è assai probabile che dopo il coronavirus si ricomincerà con lo spread e il debito), occorre un risveglio del pensiero critico, diffidente, e delle coscienze non omologate. È fondamentale che queste si saldino con quelle esperienze popolari che, calate nella vita e nell’economia reali, quasi d’istinto esprimono una refrattarietà: si tratta di unire a-poti (quelli che non la bevono) e attivi, produttivi (tutti coloro che non si rassegnano a “sopravvivere” passivizzati sul divano, attaccati a un computer o a uno smartphone, sempre “connessi” ma in realtà isolati, socialmente spenti). Senza giocare sul calcolo di una divisione, foriera di sterili e ingiuste contrapposizioni, tra lavoratori autonomi e dipendenti, perché tutti hanno da perdere. Forse, schiacciare l’umano non sarà così agevole, se sorgerà una domanda politica contro la rassegnazione, che sappia individuare i referenti polemici effettivi, senza farsi ingannare dalla retorica del falso progressismo: finanza, giganti tecnologici, big pharma e manipolazione della scienza a fini di profitto, informazione mainstream, nuove forme di strisciante autoritarismo paternalista, mistica dei governi “tecnico-politici” privi di legittimazione democratica come quello in carica, fideismo acritico nell’UE e oltranzismo atlantista. È la speranza, laica ma piena di fede, di questa Pasqua.
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