di Gabriele Guzzi
Per parlare dell’ultimo libro di Alessandro Di Battista (Contro! Perché opporsi al governo dell’assembramento, PaperFIRST 2021), partiremo da un estratto delle sue conclusioni.
“Mi sento solo, mi ci sento da quanto è scomparsa la mia adorata mamma, da quando in una trincea che credevo affollata sono rimaste solo alcune vecchie vettovaglie, da quando ho scelto seguendo i miei ideali. Credo che l’essere umano, e in particolare chi fa politica, ceda spesso all’incoerenza, perché la solitudine spaventa. La solitudine fa schifo. Si camminerà a testa alta e ci si guarderà pure allo specchio, ma sempre soli si resta.”
Qui è racchiuso, a nostro avviso, il senso complessivo del libro, la sua forza e i suoi punti problematici, quelli che toccano le questioni di fondo, su cui tenteremo un’analisi.
La solitudine che lamenta Alessandro Di Battista in questo passaggio è un’emozione che intreccia fatti personali, su cui non possiamo che esprimere solo la nostra più sincera vicinanza, e fatti politici. Il fatto politico è che la solitudine è diventata lo stato d’animo fondamentale dei nostri tempi. E questo non solo perché a livello psicologico ed esistenziale stanno emergendo sempre più fenomeni di isolamento, depressione, sfiducia per il futuro, come ci conferma un recente studio dell’Università di Padova[1], ma perché la politica non riesce più ad esprimere una direzione aggregativa di senso.
La politica non è solo amministrazione dell’esistente. È dare agli uomini e alle donne un orizzonte comune di significato, offrendo una chiave di trasformazione dell’esistente. La politica, quella vera, è quindi un grande antidoto contro la solitudine. Senza la politica, ci sentiamo persi, in preda a forze estranee, alienate, che si pongono di fronte a noi come delle realtà solide, rigide, gelide e tremende. Su questo, Alessandro Di Battista fa una disamina perfetta del conformismo che lega il mondo culturale a quello politico, che intreccia strutturalmente i conflitti d’interesse che esistono tra potere finanziario e potere mediatico, tra lobby politiche e sfere d’influenza internazionali.
In questi tempi quindi la politica ha abdicato al suo ruolo, rifluendo in una omologazione nauseante, motivata da una emergenza sanitaria che più che di questo avrebbe necessitato di una risposta ben più coraggiosa su un piano di medicina territoriale, di ristori alle imprese e ai lavoratori, di organizzazione delle cure. Di Battista ci racconta che è innanzitutto lui a vivere questo stato di scoramento, impotenza, delusione che non riesce a farsi parola comune.
Il punto, tuttavia, non è la solitudine di un singolo, ma di un intero popolo, che aveva sperato che le forze antisistema e, in particolare, il M5s si facessero veicolo di un cambiamento profondo, strutturale, dei rapporti di potere di questo paese. Mi verrebbe da dire con amicizia a Di Battista: non sai quanto ci sentiamo soli noi, che in milioni avevamo votato su determinate parole d’ordine, che sono state poi prontamente smentite, contraddette, gettate in un oblio di opportunismo e giochi di palazzo. Non sai quanto la crisi del M5s abbia rappresentato un evento tragico nella storia del nostro paese, quanta sofferenza, dolore, solitudine, abbia provocato in tutti noi, che in un modo o nell’altro avevamo sperato che finalmente alcune idee potessero diventare di massa, e poi pratica, concretezza dei processi legislativi. Perché la solitudine qui è politica, è storica. È la cifra della nostra epoca.
Il resoconto di un tradimento
Il libro di Di Battista è un’analisi spietata di una trattativa. Non sto parlando del processo sulla trattativa Stato-mafia (che viene comunque affrontata). Sto parlando di una trattativa commerciale: la vendita del nostro paese, della sua costituzione economica, del suo sistema produttivo, delle sue conquiste sociali. Il libro analizza nella prima parte gli ultimi quarant’anni di storia italiana dalla prospettiva biografica di Mario Draghi. Privatizzazioni, distruzione della sanità, riduzione del welfare, perdita di sostanzialità democratica, commistione tra banche e politica, finanziarizzazione dell’economia, concentrazione del potere mediatico, affidamento fideistico ad una sbagliata unificazione europea. Il nostro stato sociale è stato svenduto, le nostre conquiste sociali commercializzate, sacrificate da una élite miope e compromessa, per inserire l’Italia nel magico mondo della globalizzazione neoliberale.
Che un politico come Alessandro Di Battista sappia, conosca e descriva con tale nettezza il tradimento che il popolo italiano ha subito negli ultimi decenni è qualcosa di sollevante. Conoscere la storia (quella vera e non quella dell’assembramento mediatico del pensiero unico) è oggi una rarità nel mondo intellettuale, figurarsi in quello politico, dove domina ancora l’ideologia mercatista, del debito pubblico, delle privatizzazioni e liberalizzazioni, dell’Italia spendacciona e inefficiente, e dell’Europa salvifica e buona che ci vuole aiutare. Su questo, il libro è una sintesi utile, comprensibile e divulgativa degli ultimi quarant’anni di storia italiana, nei suoi lati oscuri e non detti.
Aggregarsi o morire
Nella seconda parte del libro, gli argomenti trattati sono molti. Ma questo, più che un limite rappresenta a nostro avviso il nodo centrale dell’opera di Di Battista, del suo futuro, e del nostro: ciò che non viene esplicitamente detto ma che quindi va ancora di più in risalto. Mi spiego.
Complessivamente il libro tenta di affrontare (dedicandoci più che un semplice paragrafo) una serie cospicua di argomenti, tra cui: la guerra in Libia, la trattativa Stato-mafia, le origine oscure di Forza Italia, la stagione delle stragi, la crisi della Baia dei Porci, la Guerra del Golfo, il colpo di stato in Guatemala e quello in Honduras, i rapporti tra Renzi e Arabia Saudita, l’acquisto di Antonveneta da parte di MPS, la crisi del Conte 1 e del Conte 2, gli investimenti da piovra finanziaria di Blackrock, i rapporti tra alta finanza e industria sanitaria, i vantaggi della democrazia diretta, la guerra in Afghanistan, i coinvolgimenti di Draghi nella stagione delle privatizzazioni a partire dalla crociera sul Britannia, il problema dei conflitti d’interesse tra grandi banche e politica, la politica energetica di Mattei, lo scandalo dei derivati del Tesoro, la crisi finanziaria greca, la crisi del governo Berlusconi, il progetto Nord Stream 2, i bombardamenti su Belgrado, etc.
Cosa lega insieme tutto questo? Cosa hanno a che fare tutti questi argomenti in un libro di duecento pagine? Sicuramente non è un’inchiesta, non è neanche una serie di inchieste. E allora che libro è? Che senso ha unire tutti questi argomenti, così distanti, complicati, diversi, ambigui, senza neanche esplicitare una chiave interpretativa unica? Infatti, non si comprende bene il nesso tra l’andare contro il governo Draghi (come il sottotitolo suggerisce) e la guerra in Afghanistan, o la straordinaria figura di Mattei. Certo, si potrebbe dire che Draghi fa parte di un certo mondo filo-atlantista e filo-finanziario, ma mi sembra un salto un po’ troppo eccessivo. Manca qualcosa che lega il tutto, e che vada oltre una semplice biografia.
La mia interpretazione (assolutamente personale su cui magari l’autore non sarà in accordo) è che questo libro è un manifesto. Un manifesto non detto, nascosto, celato sotto l’apparenza di un resoconto giornalistico, ma un manifesto. È ovvio infatti che l’unico modo per fare sintesi di questa abbondanza di argomenti non può che essere una critica radicale a questo sistema. La perdita di centralità della democrazia, lo strapotere della finanza e delle lobby mediatiche (altro che censure à la Fedez), la volgarizzazione della cultura, l’influenza di lobby oscure, il tradimento della classe politica italiana (a partire proprio dalla sinistra), le guerre telecomandate, possono essere sintetizzate in un libro agile come questo solo sotto la dimensione della lotta, squisitamente politica, di un conflitto da riaccendere su alcune tematiche chiave.
Ciò che Di Battista non affronta, ma che andrebbe affrontato, è un problema specificatamente pratico, di aggregazione politica. Questa serie di argomenti cioè non deve e non può rimanere in un’astrattezza indefinita, ma deve farsi prassi contestativa. E la prassi inizia dalla ricerca di un’aggregazione e dalla scelta di alcune battaglie chiave, simboliche. Non si tratta di elencare i problemi di questo mondo, ma di fare, con la consapevolezza di tutti questi problemi, una sintesi politica operativa. Non c’è altra via. Al di fuori di questo, anche la consapevolezza anti-sistema rischia di diluirsi sempre di più, di perdersi nel mercato delle opinioni. Ci dobbiamo infatti ricordare che una critica generica – cioè non operativa – può anche fare comodo al consolidamento di questo potere. Questo sistema infatti si nutre di opposizioni isolate, non organizzate, alla fine macchiettistiche. Fa tutto parte della messa in scena, in cui un antagonista un po’ ribelle può anche fare comodo.
Liberarsi dal giudizio, liberare l’azione
Un pregio di Di Battista è senza dubbio la sua indipendenza e libertà di pensiero: dice ciò che pensa, è coerente, approfondisce ed espone le sue idee con nettezza. Non gli importa del giudizio altrui, come ricorda spesso in questo libro. Questa è una grande virtù, rara in tempi di mezzi uomini e di mezze donne, intimoriti solo della loro singola carriera. Dovremmo imparare tutti da questa libertà di pensiero, che costa ma ti dà anche tanto, tra le altre cose, il privilegio di potersi guardare allo specchio.
Questa grande virtù, tuttavia, è una virtù propedeutica. Non è cioè una qualità che può essere mantenuta nella propria individualità, magari anche intellettuale o opinionistica. Non è il caso di Di Battista, che rimane un uomo politico. La libertà di pensiero è una qualità che va spesa, donata, consumata nell’organizzazione politica. È un dono, ma per essere colto nella sua essenza deve essere a sua volta donato. Per non rimanere nella solitudine di una omologazione universale abbiamo bisogno cioè di un’aggregazione politica, di spenderci, tutti e in base alla propria vocazione, per creare un’area politica alternativa.
Mi verrebbe da dire che la solitudine si supera solo cercando di dare sollievo alla solitudine altrui. Esco dalla solitudine nella misura in cui capisco che è un sentimento diffuso, e che la solitudine dell’altro è una mia responsabilità. Allora uscire dalla solitudine diventa un destino collettivo, un compito storico, che ci appella e ci reclama. Uscire dalla solitudine diventa un esodo politico, un percorso di liberazione collettivo, una fuga dalla schiavitù. Questo significa vivere l’esistenza politicamente, diventare un polo aggregativo per altri.
Questo entusiasmante processo, su cui credo dovremo lavorare insieme nei prossimi mesi e anni, richiederà un’elaborazione culturale straordinaria, un lavoro nelle singole discipline, dall’economia all’ecologia passando per la geopolitica, ma anche un lavoro di formazione personale, proprio perché l’ideologia neoliberista che questo libro contesta perfettamente è diventata un vero e proprio modello antropologico. Bisogna sconfiggere il capitalista finanziario che è fuori di me ma anche quello che è in me, che contribuisce in un modo o nell’altro all’irrigidimento del sistema della separazione. Bisognerebbe creare aggregazioni, proprio a partire dalle tematiche sollevate in questo libro. Una scuola di formazione, un centro di elaborazione, e poi convegni, seminari, ma anche appuntamenti di piazza, feste, concerti, spettacoli comici.
Abbiamo bisogno di incontrarci, nella carne, nella fisicità delle nostre speranze. Abbiamo bisogno di non darla vinta al sistema della disperazione, che si nutre anche dei nostri narcisismi, delle nostre infantilità, delle nostre misere paure. C’è fame di politica. Gli unici che possono nutrire questa fame siamo noi, tutti. Di Battista vorrà contribuire a tutto questo? Noi siamo qui e ci proveremo.
[1] Florenzato et al., Cognitive and mental health changes and their vulnerability factors related to COVID-19 lockdown in Italy, Plos one, 2021.
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