l DDL Zan e la dialettica del riconoscimento

di Giulio Di Donato

Il cosiddetto DDL Zan, ossia il recente Disegno di Legge finalizzato al contrasto della discriminazione e della violenza per motivi fondati sul sesso, sul genere, sull’orientamento sessuale, sull’identità di genere e sulla disabilità, è stato a lungo oggetto di polemiche infuocate che hanno reso assai difficile intavolare una discussione laica e ragionata sul merito, al di là degli opposti isterismi. In questa sede, lontani dalla concitazione del dibattito politico, proveremo a riflettere sulle implicazioni che il testo, in alcune sue parti, solleva sul piano filosofico-giuridico (pensiamo in particolare al nesso fra gli articoli 1 e 4, contenenti, rispettivamente, le definizioni di sesso e di genere e la salvaguardia della libertà di opinione).

Essenzialmente il Disegno di legge intende modificare gli articoli 604 bis e ter del Codice penale e la successiva legislazione in materia di istigazione a delinquere, equiparando la discriminazione per motivi di cui sopra a quella su base razziale, etnica o religiosa. Si prevedono quindi sanzioni penali per chiunque, con azioni o espressioni, inciti a pratiche violente o discriminatorie fondate anche sull’identità di genere, laddove per identità di genere si intende “l’identificazione percepita e manifestata di sé in relazione al genere, anche se non corrispondente al sesso, indipendentemente dall’aver concluso un percorso di transizione”.

Come intendere questa specifica tutela a non vedersi discriminati per quella che è la percezione che ciascuno ha di sé stesso con riferimento al genere, per come questa si manifesta all’esterno, prescindendo da qualsiasi riferimento al sesso biologico? Se io mi percepisco in una certa maniera, posso pretendere di essere per gli altri, con riferimento soprattutto a specifiche situazioni (bagni da frequentare, sport da praticare, quote cui accedere: difficile in questi casi prescindere dal riferimento al corpo e a un qualche consolidato criterio esterno), ciò che io mi sento?

Per tentare di rispondere al quesito pare utile indagare il nesso fra il concetto di discriminazione e quello di riconoscimento. Il verbo “discriminare” discende dal latino dis-cernere, quindi ha alla base la stessa radice del greco κρ?νω (krino), in cui è insita l’idea del distinguere, del separare, dell’ordinare. S’intende che alla base c’è un processo logico del tutto analogo a quello su cui poggia la capacità di conoscere e di riconoscere.

Per quanto possa suonare scontato, è possibile riconoscere qualcuno o qualcosa nella misura in cui questo qualcuno o qualcosa è riconoscibile; ovvero si ha bisogno di agganci alla sfera reale (un volto, un corpo, ad esempio) e di un insieme di premesse e significati, sulla base del quale la dialettica del riconoscimento (che è fatta, per dirla con Hegel, di conflitto e reciprocità) sia in grado di dispiegarsi. Naturalmente non parliamo di assoluti: queste “evidenze” non vanno considerate una costante eterna e immutabile, ma parti integranti di un sistema di codici che possono essere continuamente rinegoziati. Dal punto di vista di Judith Butler[1] (chiamata in causa, e non a caso, ogni qual volta si discute di identità di genere) la stessa materialità del corpo non allude a un «dato naturale», a «ciò che è da sempre», bensì alla «materialità dei significanti che vi sono stati inscritti e che il corpo stesso performa risignificandoli e producendo così nuovi significanti»[2]. In altre parole, secondo la filosofa statunitense, il corpo rappresenta un’eccedenza che non coincide mai totalmente con i significati che lo materializzano all’interno dei processi di riconoscimento; d’altronde la summenzionata attività di risignificazione non è né una libera interpretazione né un semplice riappropriarsi di una propria originaria natura, ma un atto continuo e aperto di dislocazione. Insomma, per Butler non si tratta di negare la dimensione materiale del corpo ma, piuttosto, di riconfigurare questa materialità secondo l’idea di un corpo «scritto» attraverso la storia delle sue identificazioni e dei suoi riconoscimenti, un corpo inteso come «luogo dell’altrove», in cui «proprio ed estraneo» sono inevitabilmente intrecciati e dove «il soggetto si perde all’interno di un processo complesso di trasformazione, ed invece di ritrovare se stesso trova, attraverso il proprio legame con il corpo dell’altro, la dimensione dell’agire politico»[3].

Ora non c’è dubbio che nell’essere umano natura e cultura si integrano a vicenda; ciò implica, tuttavia, anche la loro distinzione originaria, in quanto due realtà possono entrare in relazione reciproca, influenzarsi e persino confondersi l’una con l’altra soltanto se in principio non coincidono. In alcuni ambienti si afferma che non solo il genere ma anche il sesso biologico sia una costruzione sociale, dal che discendono importanti conseguenze sul linguaggio, come l’affermazione che il sesso viene “assegnato” alla nascita. Eppure noi siamo anzitutto dei mammiferi caratterizzati dal dimorfismo sessuale, ossia dal fatto che esistono esemplari umani di sesso femminile ed esemplari umani di sesso maschile. Alla nascita dunque non viene “assegnato” arbitrariamente un sesso, viene descritta una situazione di fatto. Si può naturalmente sostenere che quel fatto è irrilevante, ma non che non esiste. Certo, c’è il caso (molto raro, e spesso destinato a risolversi nei primi mesi o anni di vita) delle persone dal sesso incerto, o degli intersessuali, ma questo non mette in discussione il fatto che i sessi biologici sono due[4]: del resto, sempre in punta di logica, è proprio rispetto all’esistenza fattuale di due sessi biologici che si può parlare all’occorrenza di incertezza o di intersessualità. Insomma, dal punto di vista biologico il binarismo sessuale appare un dato incontrovertibile, con ragioni evolutive molto precise. Naturalmente questa distinzione non esaurisce la complessità dell’identità di ciascuno e non esclude che i singoli individui, come fenotipi, possano a volte “stare stretti” nella loro categoria di appartenenza, ma questo non sposta i termini della questione: il sesso biologico, va ribadito, esiste a prescindere dagli orientamenti ed è una categoria binaria. Se questo è vero, bisogna però aggiungere, obietterebbe Butler, che questa relazione con il sesso biologico non è mai immediata, trasparente, innegabile, perché anche quando guardiamo e definiamo il sesso biologico ci appelliamo sempre a determinati ordini discorsivi e a un determinato un quadro di comprensione.

Nel marxismo si è soliti distinguere tra appartenenza di classe e coscienza di classe: la prima non determina la seconda in modo meccanico e immediato, e viceversa. Le due dimensioni restano in contatto, in tensione, in rapporto, in relazione, ma sono piani distinti che vertono, alla fine, sui medesimi individui. Il ragionamento non cambia se spostiamo il discorso sul rapporto fra natura e cultura o sulle categorie di maschile e femminile: queste ultime esistono dal punto di vista biologico, culturale, psicologico. Così come esistono tutte le sfumature che stanno a metà e che incorporano elementi di entrambe. Ma la relazione fra i due poli resta e non può essere rimossa[5].

La sfida resta allora quella di pensare l’unità della nostra esperienza vitale di là delle astrazioni e delle unilateralità, senza separare artificialmente la dimensione naturale e quella sociale, come se nell’umano esistesse una vita “semplicemente naturale” dissociata da una vita “storica”, “culturale” e di conseguenza anche politica; si tratta di concepire hegelianamente la vita nella sua complessità, trascendendo le distinzioni tra il “naturale” e il “politico”, tra l’“organico” e il “sociale”, senza tuttavia annullarle[6].

Se, come abbiamo visto, la dialettica del riconoscimento ruota attorno a una sorta di circolarità fra presupposto e posto, in cui i presupposti vengono continuamente riconsiderati, la domanda che si impone quando questo discorso entra nel campo del diritto e dei rapporti sociali è la seguente: con quale livello di arbitrarietà ciascuno di noi può pretendere il riconoscimento giuridico e sociale di una percezione soggettiva? È evidente che in gioco ci sono beni e principi egualmente importanti: da un lato la libertà e l’autodeterminazione dei singoli individui (che non può essere intesa in termini assoluti e solipsistici), dall’altro la certezza giuridica delle relazioni sociali. Del resto l’auto-percezione soggettiva, messo da parte il dato biologico-anatomico, può scegliere di manifestarsi attraverso i cosiddetti segni del genere, che è a dire abbigliamento, eloquio, linguaggi del corpo, e questo porta a un paradosso giustamente segnalato da autorevoli voci del femminismo italiano (Francesca Izzo su tutte): va a finire che il “genere”, che in origine indicava ruoli e funzioni sociali condizionanti, qui si riduca alle sole manifestazioni esteriori, ovvero alla parata degli stereotipi di genere che il femminismo ha tanto faticosamente messo in discussione.

Ma allora, qual è la via? Se il confronto tra il sé e determinati criteri esterni non può avere, per sua natura, un esito definitivo, ma si mantiene costantemente aperto, è inevitabile che si crei un conflitto fra le istanze soggettive, parziali e relative in qualche modo legate ad una certa visione del mondo (la locuzione “identità di genere” secondo alcuni porta con sé l’idea della self-identity, cioè l’idea di un costruttivismo soggettivista radicale) e l’aspirazione all’oggettività, stabilità e lunga durata su cui si fonda il diritto penale: si pensi ad esempio ai principi di tassatività e determinatezza del reato, secondo i quali le disposizioni penali devono essere chiaramente formulate e chiaramente conoscibili dai destinatari, tali da poter distinguere fra la sfera del lecito e quella dell’illecito, o al principio dell’obbligatorietà dell’azione penale, in virtù del quale il pubblico ministero è tenuto a mettere in moto l’attività di indagine ogni volta che viene riportata una notizia di reato.

In altri termini, il diritto si compone di norme intersoggettive, mentre l’identità di genere è una costruzione soggettiva (del resto, il problema ricorre spesso nel quotidiano quando inintenzionalmente capita di dire all’altro parole in cui non si riconosce). Come possono questi due mondi coesistere?

Per approfondire ulteriormente questi temi, un valido contributo ci arriva dal bel saggio di Axel Honneth Riconoscimento. Storia di un’idea europea, uscito in Italia nel 2019 per Feltrinelli, nel quale il filosofo tedesco affronta la questione del riconoscimento (Anerkennung), inquadrandola all’interno di un affascinante excursus filosofico. In particolare vi si indaga il modo in cui la filosofia moderna ha sviluppato il tema della costruzione della soggettività umana: se nella prima modernità, egli scrive, l’individualità si intende come originariamente libera, è solo nel Settecento e soprattutto con l’Idealismo tedesco che sorge il problema della formazione del soggetto e dei suoi debiti nei confronti di ciò che lo ha costituito, ovvero nei confronti dello sfondo sociale e relazionale in cui ogni individualità si trova immersa e a partire dal quale essa forma progressivamente la propria identità.

Honneth investiga tre scuole filosofiche europee – quella francese, quella inglese e quella tedesca – per rintracciare le basi di una prima teoria del riconoscimento, e in ciascuna di esse trova depositata la tesi della strutturale dipendenza dell’identità individuale dalle altre individualità. La nostra soggettività è costitutivamente esposta all’altro, esprime un bisogno di essere riconosciuta, di diventare oggetto di attenzione, di ottenere stima e consenso sociale. Ma dipendendo dall’altro, cioè dalla socialità, essa diventa il prodotto di quei rapporti, il risultato sociale di relazioni di riconoscimento. Questa lettura del riconoscimento è già presente in vari autori della tradizione francese e inglese, come Rousseau, Hume e Smith, che, pur senza tematizzarlo in modo esplicito, ne fanno uso all’interno delle loro filosofie sociali, ma è solo con l’opera prima di Fichte e poi di Hegel che esso emerge in maniera esplicita. A differenza degli altri filosofi, per i quali l’individuo ha già una sua costituzione originaria che solo successivamente entra in un rapporto (più o meno felice) con la società per Hegel il soggetto nasce solo dal rapporto con gli altri e in particolare dalle relazioni di riconoscimento, le quali non sono semplicemente un fenomeno sociale ma rappresentano la base per la formazione della stessa soggettività umana.

La libertà del soggetto, commenta Hegel, si realizza solo in quanto si nega come soggettiva, abbandonando l’interiorità del soggettivo: «La volontà deve cioè liberarsi da quest’altra unilateralità della mera soggettività, per divenire volontà essente in sé e per sé» (Lineamenti, par. 107). Vale a dire, il soggetto si costituisce solamente nel momento in cui «rinuncia alla sua purezza e accetta la macchia del mondo, la differenza, lo scarto»[7], facendo ingresso in quel luogo torbido e privo di purezze che è la storia. Il soggetto che si “traduce”[8] nell’oggettività, che pone il proprio sé nell’oggettività («la soggettività si realizza solo oggettivandosi, così come l’oggettività si realizza solo soggettivandosi»[9]) per potersi davvero porre deve infatti accettare di essere a sua volta trasposto in una rete di azioni intersoggettive e di determinazioni oggettive che necessariamente tradiscono la pura intenzione soggettiva che è all’origine del suo porre[10]. Il soggetto è dunque una vita immersa nella storia, ma non nel senso che esso prima esista e poi entri nella dinamica storica perché non c’è nessun originale primordiale, per Hegel: il suo essere è fin da principio storico[11].

Questa impostazione costituisce una critica radicale tanto all’idea di una soggettività costituita indipendentemente dall’oggetto, quanto all’idea di una soggettività come mero prodotto passivo delle dinamiche oggettive: il soggetto non è identificabile propriamente né con il contenuto soggettivo né con l’esito oggettivo, non è nessuno di questi momenti perché è il loro compenetrarsi, l’azione che li tiene insieme («essere soggetto significa, innanzitutto, essere attività rivolta all’autorealizzazione»[12]). Dunque la libertà del soggetto è «inseparabile dall’impossibilità di oggettivarsi pienamente, ed è di conseguenza inseparabile da una condizione di contingenza»[13] che il soggetto, «in preda alle potenze esteriori» (Lineamenti, paragrafo 118), deve affrontare. Il soggetto può dirsi effettivo solo se si «traduce nell’alterità, ed è altro da sé e di sé di modo che questo altro non è un mero riflesso del sé, ma lascia uno scarto, un resto». Nel tornare a sé, il soggetto infatti non ritrova, osserva Butler, il «“proprio”, l’“autentico”, l’“originario” ma, ancora una volta, l’altro, il legame con l’altro, l’intreccio indissolubile del proprio corpo con il corpo dell’altro che lo nomina attraverso il processo di attribuzione delle qualità nel quale avviene l’atto del riconoscimento»[14].

Come ha acutamente sintetizzato Roberto Finelli [15], «il conoscere l’altro da sé è per Hegel sempre e contemporaneamente un riconoscersi, un apprendere e riconoscere la vera essenza del proprio sé. L’altro da sé è cioè sempre un altro di sé, e il conoscere/riconoscere consiste proprio nel transitare l’esterno nell’interno, operando un’espansione orizzontale del Sé che è contemporaneamente un approfondimento verticale dello stesso. (…) Il conoscere come riconoscere (…) è dunque sempre l’insieme del riconoscimento dell’altro, del riconoscersi e dell’essere riconosciuto. E come tale è un nesso di relazioni alla cui definizione non basta la reciprocità simmetrica. La simmetria va coniugata insieme alla riflessività interiore, l’asse orizzontale va coniugato insieme all’asse verticale. Si dà conciliazione e riconoscimento reciproco tra due poli (…) solo quando (…) il raddoppiamento di ciascun termine in sé si matura e completa. Solo cioè se tutti e due i poli si verticalizzano con il medesimo approfondimento dentro di sé, ciascuno è allora in grado di riconoscere l’altro come il proprio, dando luogo con ciò ad una compiuta e simmetrica reciprocità. Altrimenti, se si identifica il riconoscimento con il solo movimento sull’asse orizzontale tra Sé e Altro da sé, lo si limita alla sola dimensione discorsiva, come accade al paradigma dell’etica del discorso di Jürgen Habermas (…). Senza l’accendersi della dimensione verticale dell’intrasoggettività, l’intersoggettività del riconoscimento si riduce a comunicazione linguistica, alla retorica del dialogo e della comprensione obbligata dell’altro, o se si vuole – ma è la stessa cosa – alla nomenclatura, sempre più estesa, dei diritti umani»[16].

Il piano dell’immediatezza naturale, quindi del corpo, compare in diversi passaggi della produzione hegeliana, dal paragrafo 475 dell’Enciclopedia, dove si afferma che «il soggetto è l’attività della soddisfazione degli impulsi», ai paragrafi 11 (sul rapporto fra la volontà e il piano immediato degli impulsi, desideri, inclinazioni) e 281 dei Lineamenti (sulla figura del monarca, «il culmine e l’inizio dell’intero», che rappresenta il momento in cui la sovranità si incarna simbolicamente in un’individualità reale), ma è nelle Lezioni di estetica che il tema del corpo, ovvero del dato sensibile, è trattato in una chiave particolarmente interessante ai fini di questo lavoro. Qui, dopo aver definito il rapporto dell’arte con il sensibile e lo spirituale (da una parte l’arte deve consistere in una perfetta adeguazione del sensibile e dello spirituale; dall’altra, sembra che il «sensibile appartenga altrettanto originariamente all’arte come limite alla spiritualizzazione, come nucleo irriducibile al significato»[17]), Hegel afferma che l’uomo realizza «l’impulso di produrre e parimenti riconoscere se stesso in quel che gli è immediatamente dato (…) trasformando le cose esterne, su cui imprime il sigillo del suo interno e in cui ritrova ora le sue proprie determinazioni» (Est. 1, 51/ 39); e sorprendentemente, tra le cose esterne che l’uomo deve trasformare, si annovera lo stesso corpo umano, la «sede adeguata dello spirito», anticipando una sorta di giustificazione del tatuaggio: «L’uomo si comporta in questo modo non soltanto con le cose esterne, ma anche con se stesso, con la propria figura naturale che egli non lascia come trova, ma cambia intenzionalmente. Questa è la causa di tutte le acconciature e gli ornamenti, siano essi pur così barbari, privi di gusto, completamente deformanti e addirittura perniciosi, come i piedi infasciati delle donne della Cina o gli spacchi nelle orecchie e nelle labbra» (Est. I, 51-52/40). Il tatuaggio sarà pure una deformazione, ma è pur vero che esso risponde al bisogno umano fondamentale di non lasciare le cose come sono, di trasformarle conferendo loro un senso. Esso quindi, come ha scritto Paolo D’Angelo, appartiene «alla radice dell’arte, per lo meno quanto la bella, serena figura della individualità umana rappresentata dalla statuaria classica sembra poter valere come metafora dell’arte compiuta e perfetta»[18].

Veniamo infine alle conclusioni. Abbiamo visto come la nostra soggettività sia il risultato di un processo di formazione sociale che passa attraverso le relazioni di riconoscimento. Facendo nuovamente capo a Honneth, possiamo integrare questa visione con la critica al riconoscimento patologico che vede il soggetto alienare e degradare se stesso a favore di un’identità fittizia e inautentica (nell’esigenza di riconoscimento si cela d’altronde anche il bisogno di apparire superiori agli occhi degli altri, in modo tale da ottenerne l’ammirazione) teorizzata dai francesi (da Rousseau a Sartre, fino ad Althusser e Lacan) e l’importanza dell’osservatore sociale universale (l’idea che la nostra soggettività si senta giudicata da una sorta di osservatorio universale, si ritenga cio è sottoposta a standard normativi universali e che su questi standard tenda poi a misurare i propri comportamenti) teorizzato dagli inglesi (da Hume fino a Adam Smith e Stuart Mill). E naturalmente con la critica di Marx a quei determinati rapporti economico-sociali che rendono la persona straniera a sé stessa e svuotano la libertà di ogni autentico processo di autocoscienza: l’assolutismo del capitale non può che produrre soggettività stereotipate e omologate esattamente nello stesso modo in cui si omologano le macchine e le merci.

La chiave teorica di fondo, a nostro avviso più convincente, è ancora una volta quella sviluppata da Hegel: nella teoria hegeliana i protagonisti del riconoscimento non sono solo i soggetti in gioco, ma anche e soprattutto l’oggettività della relazione che si viene a stabilire fra loro. Ne deriva una comprensione in termini oggettivi dei rapporti di riconoscimento, non solo come relazione puramente intersoggettiva. Si produce così una doppia relazione: sia orizzontale-intersoggettiva che verticale (ovvero non solo degli individui fra loro, ma anche degli individui nei confronti dell’oggettività istituzionale).

Questa dimensione “oggettiva” del riconoscimento, per quanto alluda a rapporti sempre revocabili e precari, è quella che più si avvicina alle esigenze del diritto, di quello penale in particolare, di ricercare criteri certi, stabili e obiettivi.

Siamo così ritornati al DDL Zan, alle implicazioni che esso solleva, sulle quali abbiamo appena avviato una discussione critica. Ovviamente aprire una discussione critica, come si è tentato di fare qui, non significa disconoscere le ragioni e la necessità di una lotta, da condurre su più livelli, contro i pregiudizi e le discriminazioni. Il tema dei diritti resta ancora oggi una questione decisiva, da valorizzare assumendo il punto di vista dell’eguaglianza, della solidarietà e a partire da un’idea di libertà non economicistica da sottrarre alle logiche dell’individualismo, del nichilismo e della mercificazione. Come si è altre volte ribadito su questa rivista, si tratta di far avanzare insieme diritti sociali e civili, senza compensare la demolizione dei primi con i secondi, tradendone così il senso e il valore.

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[1] Questa lettura è già in Julia Ponzio, Come sei? Le dinamiche del riconoscimento dei corpi in J. Butler, Filosofi(e)Semiotiche, Vol. 7, N. 2, 2020.

[2] Ivi, p. 45.

[3] Ibidem.

[4] Per un ulteriore approfondimento si rimanda ad un articolo di Giorgio Vallortigara, Professore ordinario di neuroscienze a Trento, pubblicato nel numero 4/2021 della rivista Micromega.

[5] Il binarismo quindi c’è ma cova dentro di sé elementi di possibile complicazione. Questa ambivalenza emerge naturalmente nel transessualismo, sia quando viene mimata una identità di genere diversa da quella originaria lasciando però inalterato il dato corporeo, sia quando la transizione si compie ed è il corpo stesso a mutare. In questo caso il processo di risignificazione non solo si nutre di segni, magari enfatizzati, siano essi femminili o maschili, ma precipita in un mutamento fisico: tutto ciò in qualche modo scombina e disloca altrove l’asse originario maschile/femminile.

[6] http://www.leparoleelecose.it/?p=38033.

[7] Soggettività e traduzione. Dialettica traduttiva e ontologia del soggetto in Hegel, di Luca Illetterati e Saša Hrnjez, in Morality, Ethics, Religion between Classical German Philosophy and Contemporary Thought. Studies in Honor of Francesca Menegoni, a cura di Luca Illetterati, Armando Manchisi, Michael Quante, Alessandro Esposito, Barbara Santini, Padova University Press, 2020, p. 803.

[8] Nel § 475 dell’Enciclopedia delle scienze filosofiche, Hegel definisce il soggetto in questo modo: Il soggetto è l’attività della soddisfazione degli impulsi (…); vale a dire, è l’attività che traduce la soggettività del contenuto, che sotto tal riguardo è scopo, nell’oggettività, in cui il soggetto si congiunge con sé stesso (Enz, § 475).

[9] Ivi, 792.

[10] Ivi, p. 805.

[11] Ivi, p. 804.

[12] Ivi, 790.

[13] Ivi, pp. 813-814.

[14] https://www.ilsileno.it/filosofiesemiotiche/wp-content/uploads/2020/12/5-Ponzio.pdf, p. 43.

[15] Roberto Finelli, Archivio di Filosofia, Vol. 77, No. 2/3, RICONOSCIMENTO E COMUNITÀ: A PARTIRE DA HEGEL (2009), pp. 39-57.

[16] Ivi, p. 53.

[17] https://www.ilglifo.it/pubblicazioni/Simbolo_e_arte_in_Hegel_anteprima.pdf

[18] Ibidem.

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