Report e la smaccata propaganda contro la Cina

Ho seguito Report finché la Gabanelli è passata armi e bagagli al servizio del Corriere, dove si è rapidamente integrata nella macchina comunicativa del pensiero unico. Ho smesso di seguirlo quando la nuova versione si è trasformata nel clone Rai delle Jene targate Mediaset, con servizi tanto più gridati e gesticolati quanto più inconsistenti, sia dal punto di vista degli argomenti trattati, sia sul piano della loro rilevanza pubblica (sempre più spesso si tratta di “sputtanare” questo o quel personaggio a livello personale, più che sul piano delle idee, anche quando sarebbe più facile – ma soprattutto più utile – attaccare le idee che il personaggio, ma si sa, oggi il personale è politico…).

Ciò detto, ieri sera l’ho guardato perché mi era giunta notizia che Fabio Massimo Parenti, (studioso italiano che insegna in Cina e autore del libro “La via cinese”, di prossima pubblicazione per la collana da me diretta per l’editore Meltemi, nel quale smonta gli stereotipi occidentali sul Paese del dragone) era stato intervistato dalla redazione del programma.

Pensavo – mi illudevo – che ciò avrebbe contribuito a stemperare almeno in parte il clima da guerra fredda che i media mainstream stanno montando da qualche tempo (da quando Biden, appena eletto, ha chiarito di voler difendere dal “nemico” con ogni mezzo – per ora con sanzioni economiche e una tambureggiante campagna di stile neo maccartista , poi si vedrà – la barcollante egemonia Usa.

Ebbene, mi sono trovato davanti a una smaccata performance propagandistica, degna di quelle orchestrate da Cia e Pentagono durante la guerra del Vietnam. Il tema principale è stato: i cinesi ci spiano con strumenti infinitamente più potenti e pervasivi di quelli immaginati da Orwell.

Noi, poveri ingenui, abbiamo comprato migliaia di telecamere che sfruttano le loro tecnologie senza sapere che sono altrettanti mini cavalli di troia che ci osservano anche quando andiamo in un cesso pubblico.

Per inciso molte delle “prove”, illustrate da “esperti” ad hoc, sono letteralmente scoperte dell’acqua calda: tutti i device digitali di ultima generazione sono strumenti a doppio taglio, come abbiamo imparato allorché è emerso – ma di questo si è accuratamente taciuto - che Usa, Inghilterra, Australia e Canada collaborano da tempo alla gestione di un gigantesco meccanismo di intelligence per spiare, non solo i nemici, ma anche gli alleati (Merkel compresa) e i loro stessi cittadini.

Il pastone è stato confezionato con immagini suggestive ispirate da noti serial tv e da film di spy story, accompagnate da musiche cupe e inquietanti (la parola inquietante è tornata decine di volte nel corso della trasmissione). Soprattutto si è insistito sul fatto che tutti i cittadini e tutte le imprese cinesi che vivono o lavorano all’estero sarebbero tenuti a trasmettere le informazioni di cui vengono a conoscenza al proprio governo.

Questo serve:

1) a colpire gli interessi delle imprese cinesi high tech concorrenti di quelle americane (vedi il caso dell’attacco a Huawei e della forsennata campagna Usa per impedire che gli europei adottino tecnologie 5G made in China);

2) a creare un clima di sospetto e diffidenza nei confronti dei cinesi della diaspora (con il rischio tutt’altro che improbabile alimenti una vera e propria sinofobia: dallo scoppio dell’epidemia - che gli Stati Uniti hanno in tutti i modi cercato di insinuare sia sfuggita, o addirittura volutamente diffusa, da un laboratorio di Wuhan, negli Stati Uniti ci sono state migliaia di aggressioni a cittadini asiatici, spesso scambiando per cinesi esponenti di altre etnie, ma tanto sono tutti “musi gialli”).

Ma i cinesi non sono solo spie: sono criminali che trattano i nemici interni come i nazisti trattavano gli ebrei. Così buona parte della trasmissione è stata dedicata a rilanciare (con immagini satellitari – la cui interpretazione è ovviamente devoluta a chi controlla i satelliti, cioè ai servizi Usa – con interviste a un rappresentante di un sedicente governo Uiguro in esilio e a “esperti” esponenti della santa alleanza anglosassone di cui sopra, rinforzati da alcuni servizievoli italiani) la tesi dell’esistenza di presunti “campi di concentramento” nello Xinjiang.

Voci in grado di contestare la tesi precotta del programma? Nessuna. Solo qualche lapsus (qualcuno si è lasciato scappare che tutta questa cagnara non è altro che un episodio della guerra commerciale fra Cina e Stati Uniti), nessun esponente cinese di rilievo (a parte una fuoruscita convocata per confermare l’esistenza dei campi di cui sopra). Che dire poi dei tanti occidentali, fra i quali molti docenti universitari, che vivono, lavorano e insegnano in Cina, e che offrono un immagine del tutto diversa di quel Paese? E’ stato passato solo un flash estratto dall’intervista a Parente cui accennavo in precedenza, montando e decontestualizzando le sue parole (tanto che credo che l’interessato non escluda di sporgere querela) per far sì che:

1) sembrasse ammettere e approvare l’esistenza dei campi;

2) sostenesse che non sarebbe male adottare misure analoghe per la popolazione di Scampia. Che altro dire. Qualcuno pensa che questi sedicenti giornalisti proporranno mai un’inchiesta sul campo di Guantanámo, sui crimini di guerra americani in Iraq e altri teatri di guerra, sui sistemi di spionaggio euroatlantici, sulle infiltrazioni naziste nelle cosiddette “rivoluzioni colorate” in Ucraina e Bielorussia?

Lascio a voi la risposta. Concludo dicendo solo che ormai l’intera stampa italiana è tornata a svolgere il ruolo che avevano i cinegiornali durante il fascismo, con la differenza che allora servivano padroni interni mentre oggi servono padroni stranieri. L’immagine che meglio sintetizza l’etica di questa gente è quella che ho trovato sul profilo dell’amico Fabrizio Marchi

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