di Michele Metta
L’ebrea Hannah Arendt è l’artefice di un’opera bellissima e fondamentale per comprendere l’oscena natura del nazismo: La banalità del male.
In quel libro, incentrato sul processo che ebbe luogo al principio degli anni Sessanta del secolo scorso contro il criminale nazista Adolf Eichmann, l’autrice, nella sua immensa onestà intellettuale, ebbe però, con coraggio, a criticare anche l’allora Primo Ministro d’Israele: l’onnipotente David Ben-Gurion.
La Arendt, infatti, sottolineò l’accessorio uso distorto e strumentale che del sacrosanto processo contro Eichmann si stava facendo. Uso distorto e strumentale spronato proprio da Ben-Gurion, e che consisteva nel far passare un messaggio che la Arendt sintetizza in poche, ma assai significative parole:
The trial was supposed to show [… to the young Jews] what it meant to live among non-Jews, to convince them that only in Israel could a Jew be safe and live an honorable life.
Tradotto:
Il processo era inteso a mostrare [… ai giovani ebrei] cosa significasse vivere tra non ebrei, a convincerli che solamente in Israele un ebreo è in grado d’essere al sicuro e vivere una vita onorevole.
E, più avanti, rincarando:
[T]he show Ben-Gurion had had in mind to begin with did take place, or, rather, the “lessons” he thought should be taught to Jews and Gentiles, to Israelis and Arabs, in short, to the whole world.
E cioè:
[L]o spettacolo con cui Ben-Gurion aveva avuto in mente di iniziare, ebbe luogo, o, piuttosto, la “lezione” che riteneva occorresse impartire ad ebrei e non ebrei, ad israeliani e arabi, in breve, al Mondo intero.
Quale lezione? Ribadisce, ancora una volta, la Arendt:
[H]ow the Jews had degenerated until they went to their death like sheep, and how only the establishment of a Jewish state had enabled Jews to hit back, as Israelis had done in the War of Independence, in the Suez adventure, and in the almost daily incidents on Israel's unhappy borders.
Cioè:
[C]ome gli ebrei si fossero corrotti fino ad incamminarsi verso il proprio sterminio come pecore, e come solo la nascita di uno stato ebraico avesse reso possibile che gli ebrei tornassero a reagire, così come fatto da Israele durante la propria Guerra d’Indipendenza, nell’avventura di Suez, e nei pressoché quotidiani scontri lungo gli sciagurati confini israeliani.
Parole, queste, che costarono alla Arendt l’accusa di antisemitismo da parte della tuttora esistente e famosa Anti-Defamation League, temutissima associazione ebraica con sede negli Stati Uniti. Un assurdo, prima di tutto; sia perché le affermazioni della Arendt erano del tutto legittime, sia perché lei si era distinta per aver messo in salvo dal nazismo molti bimbi ebrei durante la Seconda Guerra Mondiale. In secondo luogo, l’ennesima dimostrazione di quanto vero sia quello che valentissimi intellettuali ebrei e non – primo fra tutti, l’israeliano Gideon Levy – stanno denunciando da tempo: si affibbia la patente di antisemita a chiunque osi legittimamente criticare gli abusi dello Stato ebraico.
Perché sto raccontando tutto questo? Per via del fatto che tutto questo molto ha a che fare con un caso attualissimo: quello del piccolo Eitan, bambino ebreo di sei anni, sopravvissuto alla tragedia del Mottarone solo per ritrovarsi in una tragedia nuova e altrettanto assurda, e cioè l’essere stato oggetto di un vergognoso rapimento da parte del nonno che lo ha condotto in Israele malgrado, per Legge, dovesse invece rimanere in Italia presso la zia affidataria.
Non solo il nonno, ma anche il resto dei parenti che vivono in Israele, hanno giustificato il gesto sostenendo, con una discutibilissima frase, che Eitan “deve essere educato come un ebreo senza dimenticare la tradizione del popolo a cui appartiene”.
Si dà il caso che la Arendt, nel proprio libro, nell’argomentare le affermazioni che ho fin qui riportato, racconti quanto segue:
"[T]he lesson [that Ben-Gurion thought should be taught,] was spelled out in a little booklet on Isrel’s legal system, which was handed to the press. Its author, Doris Lankin, cites a Supreme Court [of Israel] decision whereby two fathers who had “abducted their children and brought them to Israel” were directed to send them back to their mothers who, living abroad, had a legal right to their custody. And this, adds the author […] “despite the fact that to send the children back to maternal custody and care would be committing them to waging an unequal struggle against the hostile elements in the Diaspora.”
Eccone la traduzione:
[L]a lezione [che Ben-Gurion pensava andasse data,] fu spiegata per filo e per segno in un piccolo opuscolo, dato ai giornalisti, sull’ordinamento giuridico israeliano. L’autrice, Doris Lankin, cita una decisione della Corte Suprema [israeliana] dove due padri che avevano “rapito i propri figli e li avevano condotti in Israele” ricevettero l’ordine di mandarli indietro alle loro madri residenti all’estero, le quali avevano diritto legale alla loro custodia. E ciò, aggiunge l’autrice, […] “malgrado il fatto che far tornare i figli sotto la custodia e cure materne avrebbe comportato il dover lottare l’impari battaglia contro gli elementi ostili presenti nella Diaspora”.
Diaspora è il termine con cui si allude agli ebrei che vivono al di fuori di Israele.
Si dà altrettanto il caso che proprio in queste ore lo Stato israeliano si sarebbe dichiarato a favore, appunto, del rientro in Italia del piccolo Eitan. Speriamo davvero però, che dopo il danno subìto per via del rapimento da parte del nonno, gli sia risparmiata la beffa di sentirsi anche lui dire che ciò avviene malgrado ben si sappia quanto sia sbagliato far vivere un bambino israeliano fuori dai confini di Israele.
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