Biden e quel "bisogna dimostrare che la democrazia funziona"

“Bisogna dimostrare che la democrazia funziona”, pare abbia detto Biden nelle more delle recenti conferenze internazionali sull’ambiente. Uno slogan che riecheggia quello della guerra fredda d’antan, quando c’era ancora il blocco socialista guidato dall’Urss e l’Occidente capitalista doveva convincere i propri cittadini che si viveva meglio qui.

Oggi hanno lo stesso obiettivo, ma assai meno risorse per realizzarlo rispetto agli anni in cui la crescita postbellica viaggiava a tutto gas, creando margini per accontentare le rivendicazioni delle classi subalterne in materia di salario e di welfare.

Dopo decenni di politiche neoliberali i salari sono inchiodati sempre più in basso, il welfare boccheggia, le condizioni di vita peggiorano per la stragrande maggioranza e la democrazia non garantisce più alcuna possibilità di, non dico cambiare, ma nemmeno condizionare le scelte delle élite in tema di politica economica (tanto è vero che la gente non vota più e che, per tenere in piedi l’illusione che il sistema garantisca reali margini di libertà, occorre imbastire gigantesche campagne a sostegno di “libertà civili” che interessano solo esigue minoranze).

A peggiorare ulteriormente la situazione, concorre la catastrofe sanitaria provocata dalla pandemia, che ha ulteriormente impoverito le masse e reso ancora più repressivo un regime che non vuole garantire la salute dei cittadini, bensì la produttività del sistema economico.

Intanto di là non c’è più l’Unione Sovietica ma la Cina.

Certo si tratta di una cultura ancora più lontana, “aliena”, agli occhi di un cittadino medio indottrinato da decenni di pensiero unico, eppure neppure agli occhi di costui possono sfuggire alcuni dati di fatto: hanno controllato la pandemia incomparabilmente meglio dei paesi occidentali, hanno sottratto centinaia di milioni di cittadini alla povertà, hanno continuato a crescere mentre qui imperversava la crisi, sono sempre più avanzati sia sul piano tecnico-scientifico che sul piano militare.

E allora? Come dimostrare che la democrazia (o meglio, quello sgorbio di sistema politico che ci ostiniamo a chiamare democrazia) funziona di più e meglio del nuovo “impero del male”?

Basta leggere le paginate che i media mainstream hanno dedicato a G20 e Cop26 per capire la strada che si è scelta: la battaglia per fermare il riscaldamento globale è il nuovo fronte della guerra fredda. Una battaglia condotta quasi esclusivamente sul terreno della narrazione propagandistica.

Infatti: 1) si ammette esplicitamente che, a tutt’oggi, non disponiamo delle tecnologie per attuare il fantomatico obiettivo delle emissioni zero entro il 2050 (Draghi ha parlato non a caso di un sogno);

2) ci si propone di affrontare la sfida soprattutto sul piano finanziario, cioè tramite colossali investimenti nella “green economy” che vedranno come protagonisti i capitali privati (il ministro Cingolani annuncia un accordo per un superfondo da 100 miliardi che coinvolge, fra gli altri, interlocutori come Amazon e Ikea, mecenati notoriamente disinteressati al profitto...) soggetti che, quand’anche gli obiettivi non fossero mai raggiunti, avranno comunque incamerato colossali utili;

3) ma soprattutto si mettono le mani avanti: se non ci riusciremo la colpa sarà della Cina (e dell’India, ma quella è “democratica” e quindi se ne parla meno) che non accetta di rallentare o addirittura fermare la sua marcia verso lo sviluppo (cioè verso il recupero del ritardo secolare imposto dalla lunga colonizzazione da parte di occidentali e giapponesi), ma soprattutto non accetta di deporre le armi in quei settori dove la sua concorrenza (vedi, in particolare, il settore delle energie rinnovabili) bagna il naso alle nostre imprese.

Il succo lo rivela candidamente il presidente della Confindustria Bonomi: se saremo costretti ad accelerare i tagli delle emissioni di CO2, la nostra economia subirà una concorrenza ancora più forte da parte dei paesi come la Cina che non accettano di adeguarsi alle nostre regole. E quindi? E quindi per salvare la “democrazia” saremo costretti a scatenare una feroce guerra commerciale a colpi di dazi e altre barriere protezioniste (con tanti saluti alle chiacchiere globaliste) il che (come storia insegna) è l’anticamera della guerra guerreggiata.

Nel frattempo le chiacchiere vanno a mille, alternando le accuse all’odioso nemico, e le balle sui miracoli che sortiranno dalla green economy.

Nemmeno i miti ragazzi del movimento Friday for Future ci credono, ma continuano a incontrare esponenti di governo, segretari Onu e altri imbonitori nella vana speranza di smuoverne le (inesistenti) coscienze. Finché si renderanno conto - se mai ciò accadrà – che senza una svolta anticapitalista il loro movimento resterà confinato nei recinti del folklore mediatico.

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