Nel romanzo “Cani volete vivere in eterno?” lo scrittore tedesco Fritz Wöss descrive la parabola del soldato tedesco a Stalingrado. Assegnato a una divisione rumena come ufficiale di collegamento, il tenente Wisse, pseudonimo dell’autore che partecipò alla battaglia e fu uno dei pochissimi sopravvissuti, assiste alla distruzione della divisione rumena durante l’offensiva sovietica sul Volga e il successivo ripiegamento dei suoi resti su Stalingrado, dove viene circondata insieme a tutta la sesta armata tedesca. Inizialmente sostenitore del nazionalsocialismo che ai suoi occhi aveva ridato dignità e prosperità a una Germania umiliata dal trattato di Versailles, nella sacca di Stalingrado il tenente Wisse apre gli occhi sulla vera natura del regime e comprende che per i capi nazisti la vita di 300.000 soldati tedeschi non vale niente, tanto è vero che non hanno esitato un secondo a sacrificarli per i loro scopi.
La presa di coscienza di Wisse ha dei limiti e non penetra nelle dinamiche di una piena consapevolezza politica, del resto Fritz Wöss non è Peter Weiss e nemmeno Heinrich Böll ma un ex ufficiale della Wehrmacht che ha studiato legge e che prova con il suo modesto romanzo a dare voce ai suoi ex commilitoni morti inutilmente davanti a Stalingrado. Ciononostante, il libro è interessante perché riproduce bene il senso di spaesamento prima e di tradimento poi patito dalle migliaia di soldati tedeschi lasciati a crepare a Stalingrado dal loro (ex) amato Führer. Tra le rovine fumanti della città sul Volga fu chiaro che al Führer non fregava nulla di loro. Che crepassero pure tutti se ciò poteva tornare utile all’economia della guerra.
Prima di Stalingrado il tenente Wisse se la passava bene nella Germania nazista. Il suo tenore di vita era buono, il suo stato sociale pure. Certo, ai polacchi, ai francesi, agli ebrei, ai russi e tutti gli oppositori politici non andava altrettanto bene ma tutto sommato bastava non pensarci e la vita poteva essere piacevole nella Germania nazista, se facevi parte del gruppo giusto. Quindi ci si poteva crogiolare nell’illusione che al Führer stessero a cuore gli interessi dei tedeschi e che la vita nel terzo Reich potesse solo migliorare. Fino a Stalingrado almeno. Perché in quell’inferno di neve e ghiaccio l’armata abbandonata scopre sulla sua pelle la violenza del regime nazista, il suo cinismo, la sua crudeltà, il suo sacrificare gli altri, anche centinaia di migliaia, per i propri interessi. Stalingrado ha reso visibile la vera natura del potere nazista, ma per smascherare l’inganno all’animo tedesco è stata necessaria una catastrofe senza la quale nulla sarebbe stato compreso. Questa ottusità nell’affidare il proprio destino incondizionatamente a coloro che detengono il potere, questo chiudere gli occhi davanti all’evidenza tanto da vedere in essi dei salvatori della patria, mentre invece la stanno devastando, gli unici, i migliori, non deve stupire perché sebbene in modi e tempi diversi, sussiste ancora oggi.
Le crisi che stanno per travolgere l’Europa; inflazione (distruttiva in quanto coinvolge i beni primari), crisi energetica peggiore di quella petrolifera degli anni Settanta che porterà a una crisi produttiva e quindi di occupazione, crisi del commercio mondiale dovuta alle sanzioni contro la Russia e guerra ai suoi confini, sono probabilmente in grado di schiantare il modello ultraliberista sul quale si fonda l’Occidente. Un sistema che ha metodicamente saccheggiato i beni pubblici privatizzando i profitti e socializzando le perdite, ha sostituito lavoro con tecnologia e investimenti con rendita finanziaria per il proprio esclusivo tornaconto, ha delocalizzato industrie creando deserti, ha proceduto mediante acquisizioni e fusioni societarie a costruire orribili oligopoli che hanno spazzato via il tessuto economico attivo dei nostri paesi, ha espulso generazioni di lavoratori dai processi produttivi senza dare loro nessuna alternativa che non fosse quella di sussidi elargiti come una elemosina fetente mentre allo stesso tempo ha investito gli enormi profitti in speculazioni finanziarie. Ma che allo stesso tempo ha saputo elargire zuccherini a coloro che facevano parte del gruppo giusto: dirigenti, media manager e giornalisti mainstream lanciati in sensazionali “international careers”, corrotti apparatcik di regime pronti a trasformare i desiderata del mondo finanziario globalizzato in leggi e decreti che di fatto hanno disattivato le nostre costituzioni, imprese multinazionali che hanno incassato sconti fiscali per poi chiudere stabilimenti e licenziare gente, mafiosi e terroristi usati un tanto al chilo per alzare la tensione nei momenti e nei punti giusti e liquidare personaggi scomodi. Tutta gente che fino a ieri non se l’è certo passata male. Al contrario, ha prosperato insieme a un sottobosco di portatori d’acqua, quelli che “tutto sommato viviamo nel migliore dei mondi possibili” convinti che i venerati leader abbiano a cuore il loro destino. Un po' come il tenente Wisse prima di finire nel calderone di Stalingrado.
Cosa accadrà nessuno lo può dire con certezza. Però appare abbastanza chiaro che le élite che governano l’occidente non abbiano nessuna intenzione di ritirare la sesta armata da Stalingrado. L’io non me ne vado dal Volga, sbraitato da Hitler ai suoi generali che cercavano di convincerlo a lasciare perdere, è diventato noi non ritiriamo le sanzioni, noi non ce ne andiamo da Kiev, noi non cambiamo di una virgola il sistema economico. L’ampiezza della crisi che ci sta per colpire lascia impassibili i leader palesi e occulti del mostro mondo. Che vadano in rovina cento, duecento, mille, un milione o decine di milioni di vite per loro conta poco. Siamo comunque in troppi e tante braccia sono superflue. L’importante è che rimanga in piedi il sufficiente per garantire la loro ripartenza. Perché, cani, non vorrete mica vivere in eterno.
Ma se il bel mondo globalizzato andrà in frantumi emergeranno forze che imporranno un nuovo ordine fondato su nuovi rapporti di forza. Allora toccherà navigare in mare aperto, ogni paese per sé e Dio per nessuno Ora, qualsiasi marinaio sa che quando si naviga in mare aperto ci sono due regole fondamentali da tenere a mente: uno, essere sovrano della propria nave e due tenere le mani ben salde sul timone. Due capacità che le classi dirigenti italiane degli ultimi decenni hanno letteralmente distrutto. Bisognerà recuperarle al più presto e imparare ad usarle in fretta, altrimenti non vivremo nemmeno lo spazio di un mattino.
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