di Enrico Tomaselli*
Se guardiamo alle ultime guerre condotte dall’impero americano, non si può non constatare che esse si sono sempre lasciate alle spalle rovine e disastri. Così è stato in Iraq, così è stato in Siria, così in Afghanistan e Libia. Persino la guerra contro la Serbia, ha - in un certo senso - lasciato una scia di problemi irrisolti e di potenziali focolai di crisi. Insomma, indipendentemente dall’esito militare dei conflitti, il prodotto finale di questi è sempre stato il caos. Sotto questo profilo, quindi, si potrebbe trarne la conclusione che tali guerre siano state sostanzialmente un fallimento, o quanto meno che non abbiano raggiunto appieno gli obiettivi che si prefiggevano. Ma, in effetti così non è. Queste guerre, infatti, hanno ottenuto quasi completamente ciò che a Washington si considerava essere necessario.
Il primo risultato delle guerre americane è ovviamente l’abbattimento di un regime considerato ostile, o comunque una minaccia per l’impero. Un secondo risultato acquisito è il messaggio di monito, lanciato soprattutto a quanti sono in bilico, indecisi se sfidare o meno Washington. E c’è poi, quasi sempre, un terzo risultato, ovvero l’insediamento di basi militari permanenti per le forze armate USA, che anche attraverso i conflitti hanno via via esteso la propria rete - una vera e propria cintura, composta da oltre 800 punti, disposti a circondare i paesi nemici, Russia e Cina sopra tutti, e ad essi sempre più prossima.
Ma soprattutto c’è il quarto risultato, di non minore rilevanza strategica, che molto spesso si accompagna alla conclusione di una guerra imperiale: il caos. Un paese non stabilizzato, lasciato in preda al disordine, infatti, è uno strumento perfetto per esercitare un’influenza su tutta l’area, che può essere facilmente destabilizzata - ove necessario - proprio alimentando quel focolaio, opportunamente mantenuto attivo.
In questo quadro, gli Stati Uniti hanno messo a punto un vero e proprio format, replicabile quasi all’infinito - un po’ come funziona, con obiettivi strategici del tutto simili, ma con diverse modalità tattiche, per le cosiddette rivoluzioni colorate.
Questo format prevede in genere che l’intervento militare diretto, qualora necessario, si esplichi quasi esclusivamente in modo mirato, ed utilizzando aviazione e forze missilistiche, evitando al massimo di mettere boots on the ground. Questo compito, infatti, viene solitamente esercitato per interposta persona, utilizzando gruppi e formazioni pre-esistenti, che vengono opportunamente finanziate, addestrate e poi utilizzate per le operazioni sul terreno; la loro permanenza, anche successivamente all’abbattimento del regime nemico, è l’elemento fondamentale su cui si costruisce la strategia del caos. È interessante notare l’estrema flessibilità con cui la strategia USA individua ed utilizza gli elementi più disparati, al fine di conseguire questi scopi. Nel caso del Kosovo - ancora adesso utilizzato come destabilizzatore della Serbia filo-russa - vennero usati ad esempio i separatisti filo-albanesi dell’UCK, fino a poco prima inseriti nella lista delle organizzazioni terroristiche internazionali; e guarda caso, sempre in Albania (paese NATO) trovano ospitalità i terroristi iraniani del Mojahedin-e-Khalq, un gruppo a suo tempo islamico-marxista, ormai ridotto ad una banda mercenaria dedita al culto della personalità della leader.
Un interessante esempio di questa flessibilità operativa è rappresentato dal caso siriano. La Siria di Assad era considerata un paese ostile, sia per l’alleanza con l’Iran, sia perché ospita l’unica base navale russa nel Mediterraneo, a Tartus. Benché il regime siriano avesse precedentemente collaborato con la CIA nella sua guerra ad Al Queda, ospitando sul proprio territorio centri di detenzione clandestini, quando nel 2011 si presenta l’occasione per destabilizzarla gli Stati Uniti sono pronti. Immediatamente i gruppi di opposizione che danno vita alle proteste vengono sostenuti e riforniti, in particolare quelle formazioni islamiste più radicali, legate proprio ad Al Queda, facendo in modo di innescare la spirale repressione-reazione, sino a trasformare le proteste in vera e propria guerriglia armata. Il vento islamista che comincia a spirare nella regione finisce con infiammare anche il vicino Iraq, dove si opera la saldatura tra correnti dell’Islam radicale e le comunità sunnite, soprattutto ex-militari dell’esercito di Saddam, dando così vita all’Isis-Daesh. Potendo contare sulla propria presenza militare, nonché sull’appoggio del governo del Kurdistan iracheno (da tempo filo-americano), e poi anche di quello turco, l’Isis viene discretamente foraggiato, e dilaga anche in Siria.
Quando l’Isis sfugge di mano, cominciando a colpire i paesi europei, e soprattutto quando l’intervento diretto della Russia mette sostanzialmente fine allo Stato Islamico del Levante, gli USA - che nel frattempo, con la scusa della lotta a Daesh, hanno stabilito una base militare in territorio siriano, a Tanf - sono pronti a cambiare nuovamente cavallo. In quel complicatissimo gioco di alleanze che si dipana nella regione, cominciano quindi a sponsorizzare la guerriglia curda siriana, strettamente legata al PKK curdo-turco, cosa che ovviamente non piace ai turchi, che continueranno invece a sponsorizzare gli islamisti in funzione anti-curda. Il nuovo cavallo USA diventa quindi l’alleanza delle SDF, che tiene insieme sia i curdi delle YPG, sia alcune milizie delle minoranze turcomanne, armene e cecene. Interessante notare che, a questo punto, le SDF giocano continuamente di sponda tra il regime siriano e gli USA, soprattutto per difendersi dall’irriducibile nemico turco. Grazie a questa alleanza, Washington mantiene una presenza attiva, in grado di esercitare pressione sia sulla Siria che sulla Turchia, e - non del tutto secondariamente - di saccheggiare petrolio siriano, esportato illegalmente in Iraq. Significativo anche il fatto che, nonostante le YPG siano una formazione di sinistra radicale, nelle cui fila hanno combattuto e combattono anche tanti volontari politici, è emerso come molti dei mercenari attualmente in servizio in Ucraina hanno in precedenza combattuto proprio con le SDF.
Un’altro esempio interessante è quello libico. Anche lì, annientato l’apparato militare libico con una massiccia campagna di bombardamenti aerei e missilistici, alcune milizie formate tra gli oppositori più radicali, anche grazie al supporto delle forze speciali della NATO presenti nel paese, si sono incaricate della liquidazione di Gheddafi e del suo regime. Grazie all’azione occidentale, le tradizionali differenze tra Tripolitania e Cirenaica, e quelle tra le diverse comunità religiose, sono state fatte esplodere in conflitti, producendo una serie di milizie di tipo territoriale-tribale e/o religioso, comprese - ancora una volta - quelle legate all’Islam più radicale. Anche qui i giochi sono estremamente intrecciati, perché gli attori interessati alla regione, ed al petrolio libico, sono svariati. Fondamentalmente, però, la situazione attuale vede un paese sostanzialmente spaccato in due: ad est, in Cirenaica, dove opera l’ultima parlamento eletto dal popolo libico (nel 2014) e l’esercito guidato dal generale Haftar, appoggiato dall’Egitto e dalla Russia (presente con gli uomini della PMC Wagner), ad ovest, in Tripolitania, un governo sostenuto dagli occidentali e dalla Turchia.
L’attuale permanere della situazione di caos nel paese, consente di esercitare una funzione destabilizzante a 360°; non solo, ovviamente, sulla regione del Maghreb, ma anche potenzialmente sull’Egitto. E soprattutto, sui paesi europei che affacciano sul Mediterraneo. Le milizie che sostengono il governo filo-USA di Tripoli, infatti, sono le stesse che gestiscono il traffico di essere umani tra l’Africa sub-sahariana e l’Europa. La regolazione dei flussi migratori, fondamentalmente diretti in Italia ed in Grecia, risponde anche a precisi calcoli politici, destinati di volta in volta ad alimentare crisi (la Turchia ha interesse a destabilizzare la Grecia), ad ottenere soldi e mezzi (per la cosiddetta Guardia Costiera libica, di fatto in mano ai trafficanti), o perturbazioni politiche nell’UE.
Al fine di provocare e mantenere il disordine, quindi, gli Stati Uniti hanno cavalcato sia gli islamisti più radicali (del resto, da loro inventati per contrastare i sovietici in Afghanistan) che la guerriglia curda di sinistra, le milizie tribali così come i trafficanti di esseri umani. Quello che si profila all’orizzonte, peralto, è non meno inquietante. L’attuale guerra in Ucraina, una guerra che non può essere vinta in modo completo e definitivo né dall’una né dall’altra parte (a meno di scatenare un conflitto mondiale), è destinata quindi a restare una ferita aperta, anche quando cesseranno le ostilità. Una ferita sanguinosa e purulenta, proprio al confine tra Europa e Russia - ovvero la linea di faglia che Washington vuole a tutti i costi non si richiuda mai più. Un Ucraina in preda al caos post-bellico, perennemente in grado di agire non solo come barriera tra est ed ovest, ma come fattore destabilizzante in entrambe le direzioni, e per la quale, in questi ultimi otto anni, ma soprattutto negli ultimi mesi, sono state abilmente create tutte le condizioni per replicare il famoso format.
Ci sono gli odi ed i risentimenti di una guerra civile, ci saranno confini che lasciano minoranze da ambo i lati, ci sono fiumi di armi e munizioni su cui non c’è praticamente alcun controllo, e ci sono milizie naziste armate di tutto punto, pronte ad interpretare il proprio ruolo (a cavallo tra traffici criminali e fedeltà atlantica) di agenti del caos. Una bomba ad orologeria, piazzata ai margini di un Europa abituata alla sicurezza, alla prosperità ed alla stabilità, e che già dovrà fare i conti con un terremoto economico e sociale di cui si cominciano a sentire i boati.
*Magmart Festival Art Director
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