di Alberto Sgalla*
“Se fra i diritti fondamentali non figura quello per cui è garantita la base materiale della vita, in pratica crolla la società dei cittadini” (R. Dahrendorf)
La questione del “reddito di cittadinanza” o “basic income”, o “reddito minimo garantito”, “è vecchia quanto la rivoluzione industriale stessa o, se si preferisce, quanto la disgregazione della società operata dal capitalismo” (Gorz).
Oggi Il dibattito intorno al rdc deve riferirsi al nuovo assetto c.d. postfordista della produzione e dello spazio sociale, luogo composito della produzione materiale e immateriale, dell’immaginario, del consenso sociale.
Deve ruotare su due temi fondamentali della società postfordista: 1) la crisi della società fondata sul lavoro salariato della fabbrica fordista, con l’avvento dell’economia informazionale, della disseminazione di flussi di persone, merci e capitali, della logistica come nuovo ramo dell’economia industriale, della vita sociale plasmata dal codice assoluto della merce, della disoccupazione crescente connaturata allo sviluppo capitalistico; 2) la crisi del sistema di garanzie sociali proprie del Welfare State.
La società postfordista
Gli anni ‘70 sono stati il punto di svolta verso il nuovo scenario: aumento dei prezzi delle materie prime, crisi petrolifera, tempesta valutaria connessa all’inconvertibilità del dollaro, attacco neoliberista ai diritti e alle condizioni di vita dei lavoratori, disarticolazione della composizione della forza-lavoro, modello “toyotista” di produzione basato sul just in time (zero stock di magazzino) e l’autoattivazione (costante mobilitazione totale dei lavoratori pluri-mansionali per la missione competitiva dell’impresa), decentramento produttivo ad alto tasso di valore aggiunto.
Il termine “postfordismo” indica un modello sociale mobile, segnato da precarietà diffusa, formazione continua, incertezza, flessibilità. Una società del rischio, con queste caratteristiche:
- S’afferma l’impresa snella, flessibile modulare, a rete, transnazionale. il modo di produzione non è più dominato da forme di accumulazione verticalmente integrate e di distribuzione della ricchezza contrattate fra rappresentanze delle “parti” sociali e mediate dallo Stato supervisore, ma da forme di accumulazione flessibili capaci di mettere in rete modi, tempi e luoghi di produzione diversi, dalla fabbrica robotizzata alla bottega artigiana hi tech, dai centri di servizi agli studi pubblicitari, al distretto industriale, fino ai santuari della finanza globale.
- La sfera del potere economico-finanziario si svincola da quella della sovranità politica. Le possibilità di governo dello Stato sono fortemente ridotte, a causa della extraterritorialità dei capitali, del cosmopolitismo dei principali attori della politica economica, centri sovranazionali di potere privato (es. fondi d’investimento finanziario, imprese globali, gestori di flussi di capitali per investimenti diretti esteri, agenzie internazionali di rating… ) a causa della subordinazione delle politiche delle banche centrali ai movimenti dei mercati borsistici, agli attacchi speculativi nei confronti delle monete, ecc. Declina la forma-Stato qualificata per mezzo di un’identità storica e territoriale sovrana e delle politiche anticicliche keynesiane, s’afferma una forma di sovranità de-territorializzante e neo-liberale.
- Fondamentale fattore produttivo è il “capitale sociale e culturale”, costituito da un tessuto connettivo fatto di informazioni, comunicazione, linguaggi, saperi immagazzinati nelle reti informatiche, di abilità, esperienze, idee, acquisite nella cooperazione sociale. Decisivo è il ruolo del general intellect. Il “cervello sociale” è sussunto nei processi di creazione di ricchezza, elaboratore di informazioni e conoscenze che sono materia prima e prodotto dei processi lavorativi, una socializzazione di dati e saperi di cui l’impresa s’appropria privatamente. Il lavoro non si distingue più dalla forma di vita, intesa come insieme di cognizioni, capacità, valori, idee, relazioni, emozioni, abitudini.
- Il lavoro vivo, motore dello sviluppo del capitale, è mutato, con una nuova strutturazione delle figure produttive: 1. un nucleo, erede del fordismo, formato da occupazione relativamente stabile, che comprende gli addetti ai servizi informatizzati; 2. un segmento di ceti marginali, il proletariato della riproduzione (microeconomie informali, sommerso, imprese no-profit); 3. un segmento, sempre più esteso, che comprende il lavoro ristrutturato, localizzato in parte nella fabbrica classica e in gran parte nelle reti della cooperazione sociale, (formazione, informatica, comunicazione, network economy) presupposto dell’attuale forma di accumulazione capitalistica, con intermittenza diffusa fra occupazione e disoccupazione e aumento di ampi moduli di lavoro autonomo.
- Dal lavoro postfordista emerge una soggettività che deve fronteggiare mobilità, incertezza, rischio, precarietà diffusa, culto dell’immagine, una struttura del sé sempre all’erta, per sopravvivere psichicamente all’insicurezza, alla costante accelerazione e virtualizzazione dell’esperienza (società dello spettacolo). Le identità diventano fluide, mutanti, oggetto di consumo.
L’avvento della società postindustriale, postfordista, in cui si produce una crescente quantità di ricchezza con una quota decrescente di lavoro, ha rimesso al centro la disputa sul rdc, a causa
- della crescente contrazione di forza-lavoro necessaria alla produzione per l’avanzare di automazione, informatizzazione, robotizzazione, intelligenza artificiale; con la riduzione, nelle imprese, dell’organico di lavoratori permanenti;
- della generalizzazione del ciclo del processo lavorativo all’insieme della società, con la reticolarizzazione della produzione di valore, per cui la società intera è investita dalle regole dei rapporti capitalistici di produzione;
- della trasformazione del lavoro in prestazioni modulate in un processo complesso basato su reti sociali di cooperazione, in una successione di figure produttive, dalla personalità multipla, fra loro tecnologicamente concatenate.
Si assiste al paradosso che
- la ricchezza è prodotta dalla messa al lavoro di ciò che è “comune”, intelletto e linguaggio, soggettività creatrice (lavoro come sostanza comune), ma l’occupazione diviene un bene scarso e instabile e cresce la dipendenza personale;
- declina il lavoro come forma di pieno impiego, ma è mantenuto il rapporto di classe in forme contrattuali atipiche, il cui risultato è l’estensione del lavoro immateriale, cognitivo, da un lato e dei lavori servili dall’altro, complementare al declino delle forme tradizionali di lavoro salariato.
È finita l’epoca in cui il lavoro salariato duraturo era a fondamento del legame sociale, le attuali forme di flessibilità tecnologica, che catturano l’intelligenza collettiva, richiedono ai lavoratori di gestire la propria deriva nelle correnti della produzione postfordista. Si profila un sistema che M. Ferraris ha nominato con il termine “documedialità”, “l’unione fra la forza normativa dei documenti e la pervasività dei media nell’età del web”.
Il lavoro immateriale, il lavoro autonomo
La trasformazione dei processi di produzione attraverso l’introduzione delle tecnologie dell’informazione, della comunicazione, delle interazioni costanti (information technology society), hanno mutato la composizione tecnica del capitale e hanno dato al lavoro una spiccata natura comunicativa, con una “produzione di conoscenza a mezzo di conoscenza”, che è il nocciolo di tutti i processi di produzione, management, distribuzione, consumo.
L’informazione è basata sulla cultura, il trattamento delle informazioni è una rielaborazione simbolica che si fonda sulla conoscenza codificata. La capacità del lavoro d’elaborare informazioni e generare conoscenza è divenuta la “fonte materiale di produttività”. S’è ampiamente diffuso Il c. d. lavoro immateriale, attività-senza-opera, l’interfaccia delle nuove modalità di produzione e consumo, lavoro che innova le forme e le condizioni della comunicazione, quindi del lavoro e del consumo, dà forma all’immaginario, ai gusti e ai bisogni (ad es. produzione audiovisiva, di software, pubblicità, moda...).
È superato l’orizzonte della forma novecentesca del lavoro. Il lavoro è “sempre più descrivibile come un insieme di atti comunicativi e, di conseguenza, relazionali” (Marazzi). Questo lavorare comunicando rimanda al concetto di cooperazione sociale, che viene prima della sua messa al lavoro da parte del capitale ed è così essenziale nel modo di produzione postfordista perché in esso tutte le facoltà comuni, acquisite socialmente (linguaggi, qualità intellettuali, saperi, relazioni, talenti, sensibilità, abilità di destreggiarsi tra possibilità alternative, di fronteggiare l’imprevisto), concorrono a definire la forza-lavoro, prima d’entrare direttamente nel processo di valorizzazione del capitale. Si può parlare di produzione di valore a mezzo di comunità.
Attraverso le proprie virtù sociali o facoltà comuni, impensabili a prescindere dall’essere parte di una comunità, Il lavoro immateriale è quello “che produce il contenuto informativo e culturale della merce” (Lazzarato), cioè le attività relative al trattamento delle informazioni e alla definizione di mode, gusti, standard di consumo, opinione pubblica. Ad es. la merce just in time è messa in produzione quando la rete di vendita la ordina, con una strategia basata sulla produzione e sul consumo d’informazioni relative alla costruzione di un mercato e alla conoscenza delle tendenze di mercato.
Dunque il capitalismo postmoderno ha messo in crisi il concetto classico di lavoro, Il valore è estratto solo in parte dallo sfruttamento della soggettività operaia tradizionale, in gran parte da altri motori, dalla cooperazione sociale, dalla comunicazione, dall’informazione, da ogni attività generica, previa riconduzione al modello-lavoro, che il capitale fa, sviluppando e dominando la potenza dei circuiti integrati nelle reti. Siamo al punto massimo della contraddizione: il valore sociale trapassa in valore per il capitale.
Il lavoro immateriale è precario per definizione, la sua erogazione è possibile in una prestazione discontinua, ha il carattere modulare delle relazioni differenti su cui si fonda, una modularità che si confonde con la vita per intero. La tipica modalità postfordista, lavorare su un progetto, eccede il tempo di lavoro formalmente definito, usa il cumulo delle esperienze extra-lavorative.
L’attuale forza-lavoro (sociale, precaria, immateriale semiautonoma o parasubordinata) si tiene in un equilibrio instabile, si muove su una linea d’ombra in cui è difficile distinguere fra attività di lavoro e attività extra-lavorative. Del resto il capitalismo è basato sull’immanenza della crisi dentro lo sviluppo, oscilla fra la razionalità della speculazione economica e il panico della crisi.
Il sistema postfordista di produzione e circolazione di merci è caratterizzato da un’elevata complessità sistemica, è quindi un contesto ad alto rischio, a cui s’aggiunge l’insicurezza sociale derivante dalla demolizione dello Stato sociale. Nella società sono cresciuti i giochi di massa, lotterie, scommesse, attività a rischio, che ci illuminano su desiderio di abbandonare il lavoro-travaglio, d’emanciparsi dai vincoli del lavoro in condizioni capitalistiche per dedicarsi ad attività autorealizzanti. Giochi di massa che sono speculari a quel grande gioco che decide delle nostre sorti: il mercato finanziario, la borsa, la società-casinò in cui regna l’assolutismo della ragione del più forte.
Si è diffusa una coazione al rischio che ha investito anche il lavoro, con il moltiplicarsi di figure di “lavoro autonomo di seconda generazione” (così definite da S. Bologna), nuove forme di self-employment connesse alla decentralizzazione territoriale della produzione, alle attività di reti locali e globali, nei settori manifatturieri, nei servizi, nella network economy, basate su modalità lavorative relazionali-comunicative, lavoratori che assumono il “rischio d’impresa”. Le trasformazioni del lavoro autonomo lo pongono come rovescio della nuova forma di accumulazione capitalistica (esternalizzazione delle funzioni aziendali, l’indotto, reticolarizzazione della produzione…) e indicano il nuovo statuto del lavoro nel postfordismo. Il lavoro è autonomo, nel senso che i lavoratori sono imprenditori di se stessi, si danno un proprio brand, ma sono eterodiretti (subalterni a decisioni da loro indipendenti), in preda ai rapporti di forza nel mercato. Si profila un articolato universo di figure: lavoro professionale, di consulenza, di subfornitura, di collaborazione coordinata e continuativa, di servizio alle imprese e alla persona, di artigianato industriale sviluppato, di comunicazione, marketing, cultura, gestione del telelavoro, con forme cooperative, consociative, ditte individuali “con partita IVA”.
Gli aspetti economici di questo variegato lavoro autonomo allargato sono: mutamento della retribuzione dalla forma-salario alla forma-reddito, aumento smisurato della giornata lavorativa, con una vita privata non più dissociabile dalla forma del lavoro, dipendenza dai committenti, dagli ordini esterni, dalle banche come esattori.
Dunque, la scomposizione del mercato del lavoro, con aumento elevato di lavori atipici, di prestazioni d’opera, di una forza-lavoro fortemente precarizzata, polifunzionale, senza tutele, fa sì che il lavoro postfordista debba reclamare una ricostruzione di istituti di protezione sociale, visto il declino di quelli formati nell’età dell’oro del fordismo e del movimento operaio novecentesco.
Occorre una nuova regolazione collettiva dello sviluppo.
General Intellect e crisi della legge del valore
La nuova qualità del lavoro va interpretata con concetti come intelligenza tecnico-scientifica, lavoro cognitivo, autonomo, intellettualità di massa, cooperazione sociale (insieme di relazioni sistemiche che costituisce la base della produzione della ricchezza).
Il sapere scientifico e il “sapere sociale generale”, scriveva Marx nei Grundrisse, stanno diventando la principale forza produttiva. Inoltre, oggi, anche ciò che si esperisce e si apprende nel tempo di non-lavoro, l’agire di concerto nella vita sociale, l’autoriflessione, entrano a far parte del valore d’uso della forza-lavoro, divengono risorsa per la produzione di merci.
I progressi della produttività del lavoro, indotti dall’“intelletto generale” (sapere tecnico-scientifico, conoscenze formali e informali, immaginazione, dia-logos), rendono impossibile misurare la ricchezza sociale prodotta attraverso il tempo di lavoro, il rapporto salariale (legge del valore). L’intellettualità di massa si presenta come l’insieme del lavoro vivo postfordista, è “la forma preminente con cui si dà a vedere, oggi, il general intellect” (Virno), che stabilisce le premesse analitiche per la prassi. La “vita della mente”, fatta di competenze comunicative e cognitive, è diventata condivisa, comune.
Viene ripristinata la dipendenza personale, sia come dipendenza non da regole generali, ma da una persona, sia come subordinazione della personalità del lavoratore, della sua “esistenza generica”. Lo sfruttamento privato del general intellect si scontra con la sua natura sociale.
il nuovo piano generale di sfruttamento e di creazione di valore si struttura intorno alla sottomissione dell’azione (formalmente) libera dei lavoratori, dell’attività generica, concatenata con la potenza della tecnologia dell’informazione e della comunicazione, che deve catturare il tempo di vita nella sua interezza, motore delle forme di cooperazione.
Quella postfordista è l’economia dell’informazione: il capitale deve avvalersi degli atti registrati e trasformati in dati fruibili nel cyberspazio. Centrale nel nuovo paradigma tecnologico è il concetto di rete (es. il network telefonico), serie di nodi interconnessi in un sistema di scambio di informazioni. L’impresa postfordista agisce dentro flussi di merci e di denaro tra milioni di terminali diffusi sulla rete globale, suo compito fondamentale è il coordinamento di una serie di nodi delegati alla subfornitura, fino a includere nella rete di produzione nodi geograficamente molto distanti, scelti per il know-how posseduto e i bassi costi di fornitura. Nella società postfordista la trama comunicativa e discorsiva, il linguaggio, con il quale facciamo esperienza del mondo, avvolge tutto come un grande testo e si pone anche come strumento di produzione.
Con il processo di digitalizzazione binaria dell’informazione (anni ‘70 e ‘80) si cominciarono a progettare strutture simili ai collegamenti tra i neuroni cerebrali, dando natura orizzontale e interattiva al medium in cui circola l’intelligenza collettiva fino a c. d. “comunità virtuali” come consorzio di cervelli con competenze ed esperienze diverse, posti in sinergia in tempo reale in cui si accumulano conoscenze.
La scomparsa dello Stato Sociale
Uno dei principi fondamentali della Costituzione Italiana è quello lavorista. Non la proprietà, ma il lavoro, strumento di realizzazione della personalità e di adempimento del dovere di solidarietà economica e sociale, è il criterio preponderante per il riconoscimento della dignità morale e sociale del cittadino. Il lavoro è posto a valore-base della Repubblica, che deve promuovere le condizioni per rendere effettivo il diritto al lavoro.
La società non è vista come un insieme di rapporti armonicamente orientati verso un fine di valorizzazione dell’uomo, è riconosciuta come società divisa in classi, sede di squilibri e diseguaglianze di risorse e quindi di potere, incapace di autoregolarsi, come vorrebbe il dogma liberista, in base ai principi di libera iniziativa individuale e di competitività. Fine essenziale della Repubblica è la realizzazione delle condizioni di fatto che consentono il godimento dei beni della vita, la piena espressione della personalità umana. Quindi la società non può essere lasciata in balìa delle “leggi” di mercato.
La nostra Costituzione si è posta in tensione rispetto alla società italiana, richiedendone una trasformazione nel senso della giustizia sociale, premessa della democrazia (rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale che limitano di fatto libertà ed eguaglianza). Interventista è il profilo dello Stato, volto alla costruzione della democrazia sostanziale, che comporta una struttura, un assetto economico-sociale nel quale tutti abbiano l’effettiva possibilità di sviluppare la propria personalità e di partecipare alla vita del popolo sovrano.
La forma-Stato stabilita dalla Costituzione è lo Stato sociale o Welfare State, lo Stato che garantisce una sicurezza di vita ad ogni cittadino (un essenziale standard di risorse in termini di reddito, educazione, sanità, alloggio) come diritto di cittadinanza, indipendentemente dal valore di mercato del lavoro svolto. Il WS deriva da una formula di compromesso tra capitale e lavoro, che mantiene l’agire economico orientato all’accumulazione capitalistica, ma istituisce forme di tutela sociale di fronte ai rischi e ai danni provenienti da una società dominata dal mercato, crea un equilibrio tra ambiti di vita regolati secondo la logica privata, speculativa, del mercato e ambiti di vita regolati secondo la logica pubblica del soddisfacimento egualitario dei bisogni sociali.
Il WS ha il compito positivo di promuovere eguaglianza sostanziale e giustizia sociale, di redistribuire le risorse per correggere le ineguaglianze e le distorsioni prodotte dal mercato e quindi attuare la libertà mediante lo Stato (diritti economici, sociali e culturali), la libertà positiva, cioè l’autorealizzazione del soggetto nello spazio sociale necessario alla manifestazione della propria vita. Incardinato nella Costituzione formale è il concetto greco-classico di eudemonia, di felicità come esercizio armonioso di tutte le umane facoltà, fine connaturato alla vita di ciascuno.
Il lavoro è collegato al principio di libertà sostanziale, che inizia con la liberazione dal bisogno (inteso come privazione) e si esprime nel realizzarsi della persona umana nella pienezza delle sue attitudini e capacità, attraverso l’attività concreta. L’idea-guida è che gli esseri umani devono tendere a perfezionare le proprie capacità e a godere collettivamente di tale progresso, l’idea dell’individuo socialmente sviluppato (la marxiana “individualità ricca”), le cui qualità sono socialmente potenziate verso superiori livelli di civiltà, di perfezionamento umano. Il WS deve partecipare direttamente alla produzione e all’erogazione di beni e servizi (imprese pubbliche), controllare e correggere il funzionamento del mercato (dirigismo statale), operare una redistribuzione del reddito nazionale attraverso la politica fiscale e dei prezzi, garantire i diritti dei lavoratori, promuovere la piena occupazione, la pubblica assistenza sanitaria, la pubblica istruzione, la sicurezza sociale.
Da decenni la Costituzione formale è disapplicata, mentre viene fatta valere una Costituzione materiale, cioè un nucleo di fini e di forze che regge di fatto l’ordinamento, quell’insieme di norme effettivamente considerate fondamentali dalle forze economiche e politiche che detengono il potere nella società (c.d. forze di regime).
La Costituzione materiale italiana è la negazione del WS, fondata com’è su norme prodotte dal “partito del mercato”, che sacralizzano il profitto, privatizzano l’offerta di servizi e beni essenziali per l’esercizio dei diritti di cittadinanza e stabiliscono l’egemonia assoluta del mercato. È stato “costituzionalizzato” il liberismo, la dottrina della piena libertà economica dei proprietari e dell’astensione dello Stato da misure programmatrici, correttive, redistributive, che alterano gli spontanei meccanismi del mercato, in cui devono liberamente agire gli egoismi economici. È il trionfo del capitalismo, che crea arbitrariamente lusso e miseria nella separazione totale del lavoratore dalle condizioni in cui si realizza il suo lavoro.
Secondo il liberalismo economico
- l’armonizzazione delle azioni individuali avviene attraverso il mercato, entità imparziale, che assicura la razionalità del sistema economico complessivo;
- l’individuo è artefice della propria fortuna, per cui la povertà è una condizione dovuta ad ignavia, a disordine morale e solo in pochi casi a cause involontarie (invalidità, vecchiaia, ecc.), la povertà è naturale destino dei non-produttivi, è il fondamentale incentivo a vendere sul mercato le proprie energie lavorative a qualsiasi prezzo.
Per un marxista ciò che conta è la viva realtà economica, sociale e politica, sono i rapporti di forza fra i soggetti che vi operano. Quindi è evidente che la mutazione postfordista della produzione e della società ha del tutto cancellato la costituzione economica formale e il sistema di diritti in essa incardinati, quel compromesso sociale che ha retto lo sviluppo capitalistico fino agli anni ‘70 garantendo alle organizzazioni di massa dei lavoratori la partecipazione al funzionamento della società della produzione. I governi di matrice neoliberale (di sinistra e di destra) hanno demolito gli istituti di Stato sociale, le conquiste del ciclo di lotte degli anni ‘70, che avevano elevato il livello di civiltà nazionale, posto gli schemi di protezione da un insieme predefinito di rischi sociali (disoccupazione, infortuni, vecchiaia, malattie, invalidità, carichi familiari).
Anche quel soggetto di riferimento per politiche sociali come la famiglia, è in profonda e diffusa crisi, per l’instabilità dei redditi, l’indeterminatezza dei tempi di vita e di lavoro, la mancanza di servizi di supporto, non è più nucleo primario di produzione di reddito garantito, i giovani non percepiscono più la scuola come un investimento per aumentare possibilità di reddito, non hanno più un lavoro come approdo definitivo, ricercano forme di auto-reddito oscillando nella confusione del lavoro de-regolamentato tra impieghi estemporanei, i “lavoretti” (baby sitter, lavori serali in locali pubblici…), che non permettono un minimo di autonomia di esistenza.
Il sistema di Welfare era organizzato intorno all’assetto “fordista” dei rapporti di classe, diritto al lavoro e a eque condizioni di lavoro e di reddito, a sanità pubblica, scuola pubblica, sistema previdenziale per garantire dignità di fronte alla fuoriuscita dal mercato del lavoro. Il mercato del lavoro era regolato (fino al 1997 l’avviamento al lavoro era considerato una funzione pubblica, obbligatoria), la formazione corrispondeva al tipo di necessità e di organizzazione del lavoro della “società del lavoro” fordista.
Da decenni è esaurito il modo di produzione centrato sul principio di un “lavoro per una vita”, sulla fabbrica con spazi organizzati, tempi ben definiti e quelle garanzie sociali che la dura lotta di classe aveva ottenuto per alleviare le pene del lavoro. Non c’è più il tipo di lavoro stabile, continuativo, con tempi pesanti ma delimitati, nel quale non esistevano zone grigie tra occupazione e non occupazione, il lavoro fordista, che sorreggeva il sistema. Oggi c’è una massa crescente di lavoratori che non rientrano nei parametri costruiti sul lavoro fordista, semi-occupati, precarizzati, flessibili, atipici, intermittenti, somministrati, semi-autonomi, para-subordinati, che un giorno sono occupati e un altro giorno disoccupati.
La crisi della “società salariale”, la privatizzazione della creazione di moneta, facilitata dalle tecnologie informatiche (e-money), la riduzione della politica monetaria e creditizia a variabile dipendente dei mercati borsistici (la moneta diceva Keynes è l’anello di collegamento fra presente e futuro dell’economia), la totale mobilità dei capitali, la crisi fiscale, hanno portato con sé la crisi dello Stato-nazione come ordine territoriale definito da un popolo e da uno spazio delimitato sottoposto alla sua sovranità. Lo Stato, nella internazionalizzazione capitalistica, ha ridotti margini di manovra, la spesa pubblica, che garantiva l’equilibrio economico della nazione, non è più in grado di bilanciare gli smottamenti sociali determinati dalla spirale sviluppo-crisi, di limitare gli investimenti speculativi, l’uso privatistico dei beni comuni e della ricchezza prodotta socialmente, di correggere i meccanismi di mercato, di frenare gli appetiti della lobby economico-finanziaria global, di fronteggiare quella particolare povertà che è la penuria di tempo.
La mutazione quantitativa (disoccupazione strutturale, flessibilità, precarietà, instabilità, sistemi a rete, ecc.) e qualitativa (ricchezza prodotta dal general intellect e da una complessa cooperazione sociale) del lavoro, la moltiplicazione di forme di lavoro servile (dipendenza personale) e di lavori atipici che ingrossano il nuovo esercito postindustriale di riserva, hanno svuotato il sistema di tutele che avevano funzionato in epoca fordista. Il diritto del lavoro rimasto è il simulacro di una società salariale tendenzialmente al tramonto. Prevale la dottrina neo-liberale o anarco-capitalista, che trae spunto dalla critica all’inefficienza del WS, per riproporre un drastico ritorno all’iniziativa privata e alla concorrenza, anche nei settori generalmente affidati all’intervento pubblico.
Va quindi ripensata una Carta del lavoro in senso postfordista che dia alle nuove figure produttive, non più collegate al possesso irrevocabile di un posto di lavoro, dignità, autodeterminazione, sicurezza di vita.
Reddito di cittadinanza
I neoliberali propongono il reddito minimo di sussistenza da attuare attraverso l’introduzione di un’imposta negativa sul reddito, che dovrebbe fissare, secondo M. Friedman, un livello al di sotto del quale non dovrebbe scendere il reddito netto di nessun cittadino, con una sorta di carità istituzionale. La sfera lavorativa è assunta come regolativa della condotta di vita degli individui, come unico canale di distribuzione della ricchezza. L’assistenza pubblica dovrebbe operare attraverso il mercato, senza ostacolarne il funzionamento, mantenendo intatti i rapporti di forza capitalistici. Il rms è un salario di marginalità sociale, è visto infatti come sostegno ai soggetti marginali, che nel lessico liberal-umanitario sono gli ultimi, i vulnerabili, gli esclusi…
La scuola di pensiero (es. A. Caillé, S. Latouche) raccolta intorno al MAUSS (Mouvement Anti-Utilitariste dans les Sciences Sociales) ha attaccato l’ideologia economica fondata sulla finzione dell’homo oeconomicus, ha contestato “la pretesa dell’utilitarismo di ricondurre tutte le azioni umane al solo calcolo degli interessi, di dare a questi un contenuto univoco, quantificabile, e infine di ridurre tutto ciò ad una legge morale assoluta” (S. Latouche). Non è comprensibile la complessità del vivere e del convivere con il riduzionismo di un’ideologia che passa tutto al setaccio del solo calcolo economico. Occorre, sulla scia dell’opera dell’antropologo francese M. Mauss, riscoprire forme economiche costruite intorno al concetto di dono, “animato dal triplice obbligo di dare, ricevere e restituire, un ciclo che costituisce un ordine spontaneo … rapporto sociale sintetico a priori” (A. Caillé). Viene proposta una prospettiva alternativa a quella neoliberale:
- riduzione della durata del lavoro modulata sull’intero ciclo di vita, con redistribuzione del lavoro e della ricchezza socialmente prodotta, introducendo “la rivoluzione del tempo scelto” (orari, durata della vita attiva);
- sviluppo dell’economia solidale, accanto al settore pubblico e a quello privato, di un settore associativo, alternativo al mercato, creatore di ricchezza non misurata secondo un calcolo utilitaristico, per mantenere e rafforzare i legami sociali, forma di autorganizzazione della creatività extra-mercato;
- far evolvere il reddito minimo di inserimento (in vigore in Francia) verso un vero e proprio reddito di cittadinanza sganciato dal lavoro in una complementarietà dell’economia solidale con le forme di reddito garantito, utile per permettere ai cittadini di partecipare al settore associativo, valorizzandolo con le proprie attività extra-mercato.
È evidente che la solidarietà, costitutiva del settore associativo, è raggiungibile solo con una politica di arricchimento del tempo. È altresì evidente che il capitale può far propria la valorizzazione del tempo liberato, come produzione sociale di merci, riarticolando, nella forma della rete tecnologicamente integrata, un’economia del “tempo di vita” funzionale al proprio processo di accumulazione, confermando il predominio assoluto della moneta.
Lo stato di cose presente, denominato capitalismo postmoderno, postfordista, è la fase che in termini marxisti è chiamata la sussunzione reale della società al capitale, in cui s’affaccia l’idea di un reddito di cittadinanza che dovrebbe tutelare i cittadini nei momenti di assenza di reddito.
Una garanzia minima come
- soglia di dignità entro la quale un individuo possa sentirsi membro della comunità politica,
- condizione per acquisire, nei periodi di inattività, la formazione necessaria per la crescita delle capacità professionali.
Il rdc è vicino al novero dei diritti civili (diritto alla base materiale di un’esistenza dignitosa), serve a fronteggiare l’instabilità, l’esposizione al rischio, la discontinuità di prestazione formale e di reddito, integrando il reddito con l’accesso ai servizi all’esistenza. I sostenitori del rdc o del reddito minimo garantito, sganciato da una immediata prestazione lavorativa, in un quadro di disoccupazione strutturale e di affossamento neoliberale dello Stato Sociale, ritengono questa misura di intervento redistributivo della ricchezza sociale l’unico rimedio alle contraddizioni e all’ingiustizia sociale del capitalismo postfordista.
La nuova organizzazione flessibile della produzione e del mercato del lavoro ha portato alla ridefinizione del rapporto capitale/lavoro. Mente, tempo di vita, saperi, sono divenuti fattori produttivi, è cambiata la separazione fordista fra lavoro materiale e lavoro intellettuale. Sono cadute le basi della tripartizione storica del WS, grande fabbrica (Ford), intervento pubblico per la piena occupazione (Keynes), sviluppo delle politiche sociali; è finita la costituzionalizzazione del lavoro, è collassata ogni “mediazione statuale” e ogni forma di “compromesso socialdemocratico”, s’è aperta una nuova “questione sociale”, da affrontare con l’assicurazione ai cittadini di un minimo vitale. Una nuova “questione sociale” legata alla trasformazione del luogo-chiave del WS, il mercato del lavoro, la cui deregulation neoliberale non consente alcuna manovra ricompositiva, essendo volta a privatizzare beni comuni e risorse d’interesse generale, a elargire agevolazioni fiscali e finanziamenti alle imprese private, a valorizzare il “capitale umano” per la crescente produzione di plusvalore, costringere i lavoratori all’arbitrio altrui, alla flessibilità, alla mobilità, alla precarietà, a fare marketing di sé, per stare permanentemente sul mercato.
Il rdc è dunque misura legata alla nuova articolazione dell’economia capitalistica, in cui opera un potere disseminato nella pluralità dei rapporti di forza nella società, un bio-potere, che considera l’insieme della vita sociale orizzonte specifico della creazione di valore e lo stesso corpo, con le protesi che lo accompagnano, “macchina” da potenziare e accelerare.
Se l’intera vita sociale è coinvolta nelle dinamiche della produzione di valore e quindi di capitale, se il “tempo di vita” è la misura della valorizzazione del capitale, Il rdc può essere considerato richiesta biopolitica, insieme a quella di una vita autentica, di qualità, della riappropriazione del corpo, del diritto alla salute e ad un ambiente sano e sicuro, insieme al rifiuto di essere ridotti a “nuda vita”, a sopravvivenza, mera esistenza biologica. La dimensione in cui si svolge la vita sociale e produttiva è biopolitica, in quanto esistenza e organizzazione della produzione sono compenetrati, le commistioni fra tempo di vita e tempo di lavoro rendono non più lineari i destini singolari, sono messe in produzione relazioni, emozioni, le virtù sociali, la potenza di cooperazione (in sui si attinge una formazione permanente, l’evoluzione delle capacità professionali).
Il rdc può consentire una politicizzazione dell’attività (formalmente) libera, una ricomposizione della complessiva forza-lavoro, della classe politecnica del lavoro, delle soggettività prodotte dall’allargamento della forma-lavoro postfordista, estesa sul territorio sociale nazionale ed extra-nazionale, all’interno e all’esterno degli ambienti strettamente lavorativi; può elevare la consapevolezza dell’opposizione radicale tra la valorizzazione del capitale e il bisogno di autovalorizzazione del soggetto produttivo che incarna le qualità del lavoro sociale.
Occorre individuare quale soggetto produttivo porta su di sé, prevalentemente, i segni del nuovo statuto della produzione (in cui è il vivere sociale fonte e creazione di valore), le contraddizioni principali del sistema (scontro tra capitale e vita) e dove si determina una sedimentazione di forza in grado di affrontare la lotta.
Marxianamente si può distinguere della vita del lavoro postfordista:
- una parte retribuita, formalmente sussunta dal capitale, tempo occupato;
- una parte non retribuita, realmente sussunta dal capitale, tempo non occupato, ma capace di produrre valore, interagendo con il tempo occupato, quella vita sociale per la quale il lavoro può dirsi produttivo.
Questa vita realmente sussunta, indipendente dal tempo formale del lavoro e dalle singolarizzazioni contrattuali, può rivendicare un reddito sganciato dalla prestazione lavorativa, riconoscimento della potenza sociale che è “il fuoco che dà vita e forma” a monte del processo tecnico di produzione, vita che il capitale sussume senza retribuirla.
Il soggetto che ha la forza di resistere e di vincere è il lavoro cognitivo, l’intelligenza tecnico-scientifica dell’intellettualità di massa, che può ricomporre intorno a sé il segmento della classe operaia tradizionale e quello dei “marginali” dell’economia informale.
Mentre nel fordismo il rapporto capitale/lavoro s’era sviluppato entro un patto sociale garantito (+produzione=+occupazione, +produttività=+salario), oggi gli incrementi di produttività “sociale” non vengono redistribuiti, vanno tutti a incrementare profitti e rendita finanziaria. Una redistribuzione sociale del reddito (redistribuzione dei guadagni di produttività immateriale che oggi sfuggono alle statistiche ufficiali) è possibile solo con una lotta volta a definire un nuovo patto sociale postfordista, che richiede l’espressione di un contropotere da parte della potenza della soggettività produttiva postfordista. Un nuovo patto sociale in cui sia posta per legge la riduzione generale dell’orario di lavoro, sia istituito il rdc, finanziato tassando beni capitali, investimenti diretti all’estero, transazioni finanziarie, tale da rompere il ricatto del bisogno, della coazione al lavoro come labor, fatica, pena, lavoro precario, alienato, dell’asservimento per sopravvivere. Un rdc che apra la strada ad una transizione verso la liberazione dal lavoro come “travaglio” per dedicarsi al lavoro come opera o “messa in opera”, che definisce la prestazione liberamente svolta dalla mente umana utilizzando ingegno e volontà, attività slegata dalla necessità di produrre valore di scambio.
È possibile un vero rdc se è l’esito di un conflitto che modifichi i rapporti di forza socialmente dominanti, rompa la solidità della gerarchia economica e sociale, cancellando la trappola della povertà, aumentando il grado di negoziazione in un mercato del lavoro in cui vige la frammentazione dei soggetti del lavoro e va prevalendo la contrattazione individuale anche laddove esistono i contratti collettivi, favorendo così il processo di ricomposizione sociale e politica della classe.
Transizione al socialismo
Anche parlando di rdc è evidente che la salvezza dalla barbarie disumanizzante del capitalismo nella fase postmoderna è il socialismo. Occorre, però, partire dall’analisi delle forze sociali in lotta, della loro composizione, delle loro alleanze; armarsi di un impianto concettuale all’altezza della fase e determinare la strategia politica.
Il lavoro in condizioni capitalistiche è sia subordinazione, sia soggettivazione, costituito in e costitutivo di vaste reti di cooperazione produttiva che creano società. Il lavoro, liberato dalla gabbia di capitale variabile, può venir fuori come indice della potenza dell’essere, la soggettività ricca del sapere sociale generale (general intellect), che imprime la sua forma al processo vitale della società, capace di modulare, variare, intensificare, la cooperazione sociale.
Bisogna prendere atto del declino della legge del valore, mostrato dalla configurazione biopolitica della produzione sociale: la vita ha un carattere produttivo e cooperativo, alla misura del tempo/valore sfugge uno strato sommerso di valore, creato dalle qualità cognitive-comunicative-affettive, dalla socialità non rappresentabile nell’uomo ridotto al calcolo costi/benefici, l’uomo del mero interesse (homo oeconomicus) ipostatizzato dall’economia liberale (neoclassica, marginalista, monetarista). Passioni, virtù, la “vita della mente” non sono misurabili da standard economici. Il tempo della prestazione lavorativa è un’infima parte della più grade ricchezza di cui la socievolezza nel suo insieme è portatrice. La vita retribuita è quella temporalmente misurata nell’ordine dispotico che calcola fittiziamente il tempo/lavoro e collocata astrattamente nella sua messa al lavoro dentro il rapporto di capitale, mentre i suoi concreti spazi di produzione sono deterritorializzati.
Il luogo della produzione non è più rigidamente definito e la sua produttività è dislocata in ogni spazio vissuto dal soggetto (lavorare a progetto), pur non essendo riconosciuta questa invasione del lavoro nello spazio di esistenza. Nella società si svolgono “attività utili” al di fuori del lavoro formale e del suo mercato, non misurabili secondo parametri di mercato.
Rifiutare di ridurre la complessità sociale alla miseria calcolante dell’homo oeconomicus vuol dire superare il terreno della società del capitale e transitare verso una nuova civitas, il socialismo, vuol dire che la maggioranza della popolazione non deve più dipendere, per la sussistenza, dal mercato del lavoro. Criterio di giustizia è il soddisfacimento dei bisogni di base, a cui è destinato il rdc, che però ha senso se viene inteso come contropotere rispetto alla gerarchia di classe. È impossibile introdurre politiche tese a rendere compatibili le esigenze di produttività capitalistica con la razionalizzazione dei bisogni sociali, se non si crea una fase di dualismo di poteri. Occorre che la cittadinanza produttiva postfordista sappia esprimere la propria potenza comune, all’insegna del motto “miseria del presente, ricchezza del possibile”, creare uno spazio pubblico alternativo dove radunare le fila disperse tra lavoro e non lavoro, per omogeneizzare le varie figure del lavoro postfordista, lavoratori precari, flessibili, disoccupati, dipendenti, autonomi, parasubordinati, per far crescere una soggettività comunitaria (intellettualità di massa), migliorare la qualità della vita e liberare la potenza creativa e solidale della cooperazione sociale.
Solo l’esercizio di contropotere può ottenere un nuovo compromesso sociale propedeutico alla transizione, che abbia le seguenti caratteristiche:
- riduzione per tutti dell’orario di lavoro, che rende disponibili i nuovi posti di lavoro così liberati per disoccupati e sotto-occupati con una riqualificazione a qualunque età;
- un reddito di base, finanziato per via fiscale, sufficiente a coprire i bisogni di base per condurre una vita normale, cumulabile se necessario col reddito da lavoro;
- poter scegliere tra il valore d’uso del proprio tempo e il suo valore di scambio;
- promozione del lavoro di comunità, non monetizzato, essenziale per la comune qualità di vita, ricostruendo un legame sociale oltre la forma tradizionale del lavoro salariato;
- ottenere una dinamica salariale regolata sul piano della distribuzione sociale del reddito (+ produttività sociale=+salario) e il reddito minimo garantito per tutti, nei tempi di lavoro e non lavoro, un salario e un reddito che siano diretto strumento di libertà e di pieno sviluppo della personalità, non mero elemento di sopravvivenza (la nuda vita, ridotta a esistenza animale).
Le forme di autorganizzazione sociale, di cui parlano gli anti-utilitaristi, non sono in contrasto col rdc, se si tratta di promuovere lavori concreti destinati immediatamente alla produzione di valori d’uso, in contrapposizione al lavoro astratto impiegato nella produzione di merci, lavori capaci di soddisfare i bisogni sociali che la produzione di merci non soddisfa, fermo restando che solo oltre l’orizzonte del lavoro salariato è pensabile una produzione di valori d’uso.
La proposta di rdc può consentire al cittadino di rifiutare la sottomissione a condizioni di vita e di lavoro umilianti, indegne, ma è misura che se rimane isolata non permette la ricostituzione di uno Stato garante per legge della sicurezza sociale, una misura che lavora un po’ sugli argini, mentre il fiume porta con sé macerie sociali, potenza cooperativa disgregata e valori di civiltà. La prospettiva oggi non consente più di regolare il sistema, non si può che trasformarlo, attraverso la lotta dei proletari contro il potere onnipervasivo del capitalismo postmoderno, per divenire veri soggetti, padroni di sé, capaci di organizzare la propria esistenza e di darle significato, di governo e cura di sé, verso un’estetica dell’esistenza. Con il controllo pubblico, collettivo, dei beni economici strategici, la pianificazione economica, la riduzione dell’orario di lavoro, la redistribuzione del lavoro socialmente necessario, s’apre la prospettiva del socialismo costruito sul massimo sviluppo della soggettività.
Riferimenti bibliografici
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*(docente di Diritto, scrittore; direttivo nazionale "Cumpanis")
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