L'arroganza (e il disprezzo) al potere

di Giuseppe Giannini

Le tristi e mediocri vicende di queste settimane, che vedono il potere politico arroccarsi su se stesso nel cercare di difendere l'indifendibile, sono la prova non solo dell'arroganza di questo, ma anche di un provincialismo tipicamente italiano.

L'ennesimo attacco alla Magistratura sa di già visto.Sembra di essere tornati negli anni del regime berlusconiano, dove in nome della semplificazione e della depenalizzazione, si nascondevano in realtà la concessione di ulteriori prerogative ai vertici delle istituzioni.D'altronde che una parte di essa sia politicizzata è evidente sin dagli anni degli estremismi. Oggi, nessuno di quelli che contano, da destra a sinistra, si scandalizza sulle operazioni della procura di Torino ad esempio, ma indagare su un ministro dal passato ambiguo e dal presente discutibile fa notizia.

C'è un altro ministro che si finge garantista pur di tutelare i sodali ma che si accanisce con i frequentatori dei rave. Quando il potere mette le mani sulla giustizia, ma ciò vale anche per altri settori, dalla scuola al lavoro, passando per la sanità e i diritti dei singoli, non solo imprime la sua forza. Il rischio è di destabilizzare ulteriormente una società già divisa ed incattivita, fino ad un punto di non ritorno.

La storia ci insegna come sia fondamentale detenere il potere per garantirsi agi e privilegi. Il fine non è solo quello di gestire in autonomia la propria vita ma governare anche quella degli altri. Tante epoche si sono succedute, ed ognuna di essa ha avuto un tratto in comune con quella a cui seguiva: la presenza di una profonda divisione sociale, condizione essenziale per circoscrivere il potere in un dato luogo o in determinate persone.

La nascita dello Stato moderno, il diffondersi delle idee illuministiche, le scoperte e il progresso della tecnica hanno di certo migliorato la condizione materiale, ma hanno anche illuso tutti coloro che speravano in una pacificazione sociale. E' inutile andare lontano, possiamo chiamare in causa tanto le religioni quanto le ideologie statualizzatesi, alla fine queste non sono state altro che correnti di pensiero a giustificazione dello status quo: ogni società ha avuto ed ha reggenti e sottoposti.

Karl Marx guardava ai mezzi di produzione. Solo chi dispone di tali mezzi, usufruendo del lavoro (e della vita) altrui, è in grado di predeterminare l'andamento sociale, incidendo sui modelli comportamentali, imponendo riti ed abitudini, e condizionando il potere politico.

La sostanza non è cambiata, nonostante il diffondersi delle conoscenze e il riconoscimento di diritti tutte le società, da Oriente ad Occidente, da Nord a Sud, vedono una minoranza avvantaggiata e la stragrande parte della popolazione ad essa sottoposta.

Il potere, nelle sue diverse, molteplici e interconnesse manifestazioni (economica-politica-militare-della comunicazione) si consolida perchè non esiste una massa critica efficiente in grado di ribaltarlo. Lo scopo non dovrebbe essere la semplice sostituzione dei reggenti, piuttosto il reclamare un modello o più modelli diversi di gestione, compatibili, includenti ed aperti.Il riconoscimento dell'altro comporta il superamento delle barriere introiettate da coloro che servono il potere. Il fine è la libertà! Ad esempio, c'è qualcuno, che pur riconoscendo la necessità di un sistema di regole (leggi) e apparati (gli Stati e gli organismi sovranazionali), sia in grado di mettere in discussione i benefici di pochi?

Per quale motivo le élite parassitarie, in pratica tutti coloro che vivono di rendita - gli eredi dei grossi patrimoni economici, i monarchici, le grandi concentrazioni di ricchezza - debbono continuare a determinare le scelte per tutti? E' un'aristocrazia dell'economia, che non ha la necessità di lavorare, scandendo le sue giornate e la vita come fanno i comuni mortali. Anzi si servono del lavoro altrui per ribadire quella supremazia riconosciuta anche dagli esecutori politici, ad essi complementari.

Liberarsi dalle catene vuol dire mettere in discussione tutto questo. La ricchezza è il vero nemico dell'umanità.

E se dall'alto i ricchi e potenti continuano ad accanirsi con chi sta sotto, facendo della povertà una colpa, il disprezzo dei meno abbienti serve solamente a creare tensioni, allontanando le masse dal vero nemico.

Per fronteggiare il disprezzo (e la volgarità) della classe ricca bisognerebbe recuperare quella coscienza di appartenenza, quel conflitto che è stato il motore di tante conquiste sociali. Il cambiamento non si ottiene grazie a lasciti calati da sopra, ma purtroppo richiede sacrifici di vite.

Nessuno invoca la presa delle armi, anche se "la rivoluzione non è un pranzo di gala".

Quello di cui tutti avremmo l'urgenza è trovare o creare il soggetto del cambiamento.

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