ISRAELE E I PALESTINESI: LETTERA APERTA A MARCO TRAVAGLIO

di Vincenzo Brandi*


Caro Dottor Travaglio, nutro per lei una grande stima e la seguo sempre sul suo giornale e nei vari talk show televisivi; ma proprio per questo sono rimasto piuttosto perplesso nel leggere il suo libro su Israele e i Palestinesi, ed anche preoccupato per l’effetto che può avere sui molti lettori che sicuramente lo leggeranno, a causa di alcuni contenuti molto discutibili e fuorvianti. Non discuto sulle opinioni e le analisi individuali che ognuno può fare per proprio conto; ma non si può transigere sulla verità o falsità dei dati di fatto.
Per brevità mi limito solo ad alcuni punti fondamentali. Nel narrare l’esodo dei tre quarti degli Arabi dalle terre occupate dalle milizie ebraiche nel 1948, lei sposa le storielle che sono state alimentate per anni dalla propaganda israeliana per nascondere lo scheletro nell’armadio che è alla base della nascita dello stato di Israele. Gli Arabi sarebbero fuggiti perché “spinti dall’orrore della guerra, in parte istigati dai governi arabi a fuggire” (pag. 39)
Mi meraviglio che lei non conosca e non citi le opere degli storici israeliani “revisionisti” che hanno avuto modo di studiare tutta la documentazione desecretata dagli archivi israeliani negli anni ’80, compresi i diari di Ben Gurion. Mi riferisco in particolare allo splendido libro “La pulizia etnica della Palestina” del noto storico Ilan Pappé, già professore all’università di Haifa e che oggi insegna all’università di Exeter in Inghilterra. Pappé ricorda e dimostra con ampia documentazione che alla base dell’esodo degli Arabi vi fu uno spietato piano di pulizia etnica (cosiddetto Piano Dalet) studiato a tavolino dai Sionisti negli anni precedenti e poi attuato con estrema brutalità e cinismo dalle ben organizzate milizie ebraiche sotto la direzione del “socialista” Ben Gurion. Attenzione! In questo caso sono importanti le date. La pulizia etnica iniziò già alla fine del 1947 e continuò fino al maggio del 1948, cioè già 6 mesi prima della proclamazione dello stato di Israele (14 maggio) e quindi anche prima del susseguente intervento (debole e scoordinato) degli stati arabi, quando la pulizia etnica e l’occupazione della maggior parte della Palestina già era stata fatta.
Il segnale per l’inizio dell’operazione di evacuazione forzata, operata con massacri di interi villaggi, bombardamenti di interi quartieri cittadini come ad Haifa, sgomberi sotto minaccia delle armi, accompagnamento di intere comunità alla frontiera caricate su camion, fu la risoluzione dell’ONU 181/1947 nel novembre del 1947. Questa risoluzione, contenente una proposta di spartizione della Palestina, peraltro non vincolante e senza che fosse stata minimamente consultata la popolazione araba maggioritaria nel paese favorevole ad uno stato unico interetnico e interreligioso, era sotto molti aspetti assurda e di difficilissima attuazione. Basti dire che fu assegnato il 56% del territorio agli Ebrei che all’epoca erano solo un terzo della popolazione residente e che quasi tutti i distretti assegnati al futuro stato ebraico erano a maggioranza di popolazione araba, con la sola eccezione del distretto di Tel Aviv! Ben Gurion e gli atri dirigenti sionisti capirono, molto lucidamente dal loro punto di vista, che per far sorgere Israele era necessario cacciare preventivamente la maggior parte degli arabi palestinesi per permettere la colonizzazione. E così fu fatto, ad imitazione dei nordamericani che cacciavano i pellerossa per avere spazio per i coloni.
Anche altri storici israeliani hanno ricordato questi fatti, tra cui anche Benny Morris che lei cita in bibliografia, ma senza però ricordarne l’opera principale che lo rese inviso all’establishment sionista: “La nascita del problema dei profughi palestinesi revisionato” (1988). Morris fu anche licenziato dal “Jerusalem Post” e imprigionato per obiezione di coscienza; ma poi è stato “perdonato” ed è divenuto professore all’università di Beer Sheba per alcune sue successive dichiarazioni del tipo: si c’è stata la pulizia etnica, ma è stato un “male necessario”. Necessario a chi? Non certo ai Palestinesi, ma certamente necessario per poter far nascere Israele. La politica di pulizia etnica dell’intera Palestina (sogno mai smentito dai Sionisti) è andata avanti in varie fasi e con diverse modalità per 75 anni. Oggi si manifesta con la progressiva colonizzazione forzata della Cisgiordania e la progressiva espropriazione dei suoi abitanti, e con la grande operazione di pulizia etnica in corso a Gaza dove già un milione e 700.000 Palestinesi hanno dovuto lasciare le proprie case e dirigersi verso la frontiera egiziana sotto l’incalzare dei bombardamenti. Credere alla storiella che l’uccisione di quasi 15000 persone, in maggioranza bambini e donne, la distruzione sistematica di case, scuole, ospedali, sia fatta per stanare qualche piccolo gruppo di guerriglieri di Hamas (pag. 14) è un insulto all’intelligenza. Sulla questione di Gaza consiglio di leggere anche il libro di Pappè “Ultima fermata Gaza” e quello di Enrico Bartolomei, Diana Carminati e Alfredo Tradardi: “Gaza e l’industria israeliana della violenza”, che parlano anche dei massacri avvenuti negli ultimi 20 anni.
Meraviglia anche che nel libro, già dal retrocopertina, lei accrediti l’altra storiella propagandistica alimentata dai Sionisti sul fatto che la colonizzazione della Palestina sarebbe un “ritorno” degli Ebrei dispersi 2000 anni orsono nella cosiddetta “diaspora”. Vi fu nell’antichità una parziale diaspora, sia volontaria in cerca di fortuna ad Alessandria e Roma, sia forzata dalle deportazioni seguite alle rivolte antiromane del 68/70 e del 135 d.c. Tuttavia il nucleo principale degli antichi abitanti della Palestina si è mantenuto ed è in buona parte alla base dell’attuale popolazione palestinese, convertitasi prima al Cristianesimo e poi all’Islam. Mi meraviglia che lei ignori il best-seller di un altro noto storico israeliano, professore all’università di Tel Aviv, Shlomo Sand: “L’invenzione del popolo ebraico”. In questo noto libro Sand contesta il mito della diaspora e del “ritorno”, ricordando che gli Ebrei moderni sono frutto di conversioni di intere popolazioni. Gli Askenaziti europei discendono da una popolazione nord-caucasica abitante nella Russia meridionale (i Cazari), mentre i Sefarditi discendono dalla conversione di tribù berbere, trasferitesi in Spagna insieme agli Arabi (con cui andavano perfettamente d’accordo) e poi cacciate dai re cattolici, Isabella di Castiglia e Ferdinando d’Aragona, nel 1492. Il progetto nazionalista e colonialista sulla Palestina ad opera dei Sionisti askenaziti (che peraltro rappresentano un ramo secondario e minoritario della grande tradizione ebraica) deve essere visto come un’impresa coloniale europea in Medio Oriente. La maggior parte degli Askenaziti in Russia e Polonia erano in realtà socialisti e comunisti e lottavano per una rivoluzione sociale collettiva che liberasse anche loro.
Infine vorrei contestare un’altra storiella propagandistica molto sfruttata: quella secondo cui a Camp David nel 2000 fu offerta da Barak ai Palestinesi una soluzione imperdibile che essi rifiutarono (pag. 78). In realtà fu offerto ai Palestinesi solo il 73% di quel già modestissimo 22% del territorio occupato dagli Israeliani con la guerra del 1967, cioè il 16% complessivo!. Le colonie ebraiche non sarebbero state smantellate. Il territorio palestinese sarebbe stato diviso in varie zone staccate, non comunicanti. I confini esterni e lo spazio aereo dello staterello palestinese (rigorosamente demilitarizzato) sarebbero rimasti sotto il controllo israeliano. La “capitale” palestinese sarebbe stato il villaggio di Abu Dis presso Gerusalemme, città che restava tutta sotto il controllo di Israele dopo l’annessione anche di Gerusalemme Est. Inoltre Il diritto al ritorno dei profughi (in accodo la nota risoluzione dell’ONU 194/1948) non era riconosciuto, forse perché il ritorno porterebbe ad una popolazione palestinese di 12 milioni di persone contro i 7 milioni di Ebrei israeliani In altre parole era come offrire ai pellerossa di Toro Seduto e Cavallo Pazzo una piccola riserva controllata dai “bianchi”. Anche su questo si può leggere l’articolo di Ilan Pappé: “Il processo di pace è da sempre in un vicolo cieco” (16 ottobre 2020) , pubblicato anche in Italia dalla rivista Jacobin.
Le amare parole di Pappé ci fanno riflettere sul fatto che la pace è lontana. La soluzione “due stati”, ipocritamente portata avanti dagli Occidentali, è ormai impraticabile perché il processo di colonizzazione è andato troppo avanti. Sarebbe auspicabile un unico stato plurietnico e multiconfessionale con uguali diritti per tutti; ma questo comporterebbe un grande passo indietro da parte degli Israeliani, come quello che fecero i Bianchi del Sudafrica permettendo la nascita di uno stato multietnico. Purtroppo nel 2018 Israele ha ribadito il suo carattere rigidamente confessionale con la legge costituzionale che afferma che Israele è lo stato dei soli Ebrei, dove solo gli Ebrei godrebbero della piena cittadinanza. Questa affermazione rende ridicola anche l’affermazione che Israele sarebbe “l’unica democrazia del Medio Oriente”, visto che questa presunta democrazia non si applica ad un’altra popolazione (già più numerosa della popolazione di fede ebraica anche senza i profughi: sette milioni e mezzo contro 7 milioni) oppressa, occupata militarmente, scacciata, espropriata e colonizzata da 75 anni.
Cordiali Saluti,

Vincenzo Brandi - Roma 24 novembre 2023

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