Commissione d’inchiesta COVID: un’occasione per aprire un dibattito

di Alessandro Bartoloni

Il giorno di San Valentino del 2024 è nata la Commissione parlamentare (bicamerale) di inchiesta sulla gestione dell'emergenza sanitaria causata dal SARS-CoV-2. L’obiettivo assegnato alla Commissione è quello di accertare le misure adottate per la prevenzione, il contrasto e il contenimento della pandemia e di valutarne la prontezza, l'efficacia e la resilienza, anche al fine di fronteggiare una possibile e futura nuova emergenza di analoga portata e gravità.

L’iter che ha portato alla creazione di questa Commissione rivela i malesseri che buona parte della classe dominante nutre riguardo questo tema. L’accusa, neanche tanto velata, è quella di prestare il fianco ai cosiddetti “complottisti” e “novax”, istituendo un tribunale politico contro chi ha combattuto la pandemia. Un'accusa abbastanza infondata, dal momento che Forza Italia e Lega facevano parte del governo Draghi, l’esecutivo responsabile dell’introduzione delle disposizioni più durature e odiose (obbligo vaccinale e obbligo di possedere e mostrare il Green Pass). Ciononostante, il pericolo di scoperchiare il vaso di pandora è sembrato troppo grande. Così è intervenuto il Capo dello Stato che, col suo monito estivo arrivato all’indomani della prima approvazione alla Camera nel luglio 2023, ha indotto i parlamentari di maggioranza a rivedere i compiti della Commissione, che non potrà più indagare sullo stato di emergenza, i DPCM e le restrizioni. In altre parole, non si potrà “valutare la legittimità della dichiarazione dello stato di emergenza e delle relative proroghe nonché dell'utilizzo dello strumento della decretazione d'urgenza” né gli “eventuali obblighi e restrizioni carenti di giustificazione in base ai criteri della ragionevolezza, della proporzionalità e dell'efficacia, contraddittori o contrastanti con i princìpi costituzionali”. Tecnicamente, è stata modificata la lettera t) e soppressa la lettera v) dell'articolo 3 riguardante i compiti della Commissione.

D’altronde, l'esperienza maturata con la pandemia può tornare utile anche in altri contesti. Come, per esempio, quello bellico. Il che rende controproducente per la classe dominante tutta, indipendentemente da questa o quella coalizione di governo, mettere sotto accusa la fondatezza costituzionale dello stato di emergenza, della decretazione d’urgenza, degli obblighi e delle restrizioni. Malgrado questi evidenti limiti, i compiti della Commissione sono numerosi e interessanti, e consentono di aprire un dibattito sul periodo pandemico che non è mai realmente partito e che in molti (duole dirlo, sopratutto a sinistra) vorrebbero evitare. Come se il periodo pandemico possa essere derubricato a parentesi eccezionale e non a coerente sviluppo della lotta di classe condotta dai proprietari nei confronti dei subalterni.

Nel nostro paese, la pandemia è stata presentata dalle autorità competenti e vissuta dalla maggioranza della popolazione come se si trattasse di una calamità naturale. Ciò ha reso le misure di prevenzione dei contagi e di contrasto alla malattia proposte dalla comunità scientifica sicuramente perfettibili, come ogni creazione umana, ma sostanzialmente neutrali e da accettare indipendentemente dalla propria collocazione di classe. Stando così le cose, chi aspira a un mondo migliore avrebbe semplicemente dovuto continuare a lottare per eliminare i vincoli posti da chi si appropria della scienza per farci profitto, in modo da poterla usare per garantire la salute e la sicurezza di tutti e di ciascuno.

Per gran parte della sinistra extraparlamentare, sia quella a vocazione più istituzionale sia quella di movimento, occorreva farsi guidare dalla scienza e sacrificare non soltanto il profitto aziendale ma anche la libertà personale, al fine di garantire la liberazione dal virus e dalle sue terribili e oggettive conseguenze sanitarie, economiche, politiche, culturali. In altre parole, si dava per scontato che:

1. Il virus fosse l’unico responsabile della malattia e gli individui fossero tutti ugualmente responsabili della sua diffusione;
2. Le teorie e le buone pratiche scientifiche fossero le migliori disponibili sul mercato e fossero il frutto del lavoro di scienziati liberi e disinteressati;
3. I danni collaterali causati dalle misure di contrasto al virus andassero sopportati in quanto non c’era niente di meglio e i benefici erano maggiori.

Per capire perché le cose non stanno così è utile analizzare i compiti della neonata Commissione. In questo articolo e in quello che seguirà partiremo dal primo, quello relativo alla valutazione dell'efficacia, della tempestività e dei risultati delle misure adottate dal Governo e dalle sue strutture di supporto al fine di prevenire, contrastare e ridurre la diffusione e l'impatto del SARS-CoV-2. In pratica, la Commissione dovrebbe provare a capire se i danni causati dal virus potevano essere meglio contenuti adottando un approccio diverso. Iniziamo dagli anziani cosiddetti fragili.

Il 25 marzo 2020, il ministero della Salute segnalava «l’emergenza connessa agli ospiti/pazienti ricoverati nelle Residenze sanitarie assistite, per i quali è necessario attivare una stretta sorveglianza e monitoraggio nonché il rafforzamento dei setting assistenziali. Nelle RSA alberga la popolazione più fragile ed esposta al maggior rischio di complicanze fatali associate all’infezione da COVID-19 e considerata l’esperienza delle Regioni precocemente colpite dalla pandemia, è necessario "identificare prioritariamente strutture residenziali assistenziali dedicate ove trasferire i pazienti affetti da COVID-19 che non necessitano di ricovero ospedaliero, per evitare il diffondersi del contagio e potenziare il relativo setting assistenziale" 1. In parole povere, il modello Lombardia esteso a tutto il territorio nazionale 2.

L’effetto di questo provvedimento firmato dal direttore generale Andrea Urbani – che riconosce il maggior pericolo cui corrono gli anziani nelle RSA ma contemporaneamente apre le RSA al ricovero dei malati COVID-19 meno gravi, come già fatto nelle regioni maggiormente colpite – è drammatico. «Durante la pandemia, sono morti all’incirca l’8,5% degli anziani italiani residenti nelle RSA. I risultati derivanti dal rapporto tra decessi osservati e decessi attesi suggeriscono che i residenti delle RSA mostrano tassi di mortalità più elevati rispetto ai valori attesi dei tassi di mortalità tra la popolazione generale più anziana che vive a casa propria. Inoltre, abbiamo scoperto che il rischio di morte tra i residenti nelle RSA è aumentato di circa 4 volte durante la pandemia rispetto agli anni precedenti» 3.

Più precisamente, «secondo l’Ufficio epidemiologico della Regione Lombardia il tasso di mortalità annuale ufficiale nelle RSA regionali è stato di 21 decessi ogni 100 residenti sia nel 2017 che nel 2018; questo tasso è pari a 3,7 decessi ogni 100 residenti in un periodo di 65 giorni. In contrasto con questi risultati, nella recente indagine COVID-19 abbiamo riscontrato un tasso di mortalità di 12,9 per 100 RSA lombarde, ovvero circa 4 volte quelli registrati nel 2017 e nel 2018. Risultati molto simili sono stati trovati dallo studio epidemiologico condotto dall’ATS del Comune di Milano. Questa marcata discrepanza tra i tassi di mortalità suggerisce chiaramente che la pandemia di COVID-19 è responsabile dell’aumento del tasso di mortalità».

Ma perché i residenti nelle RSA sono a maggior rischio di morte durante la pandemia COVID-19? «L’eccesso di mortalità nelle residenze socio-assistenziali rispetto alla popolazione generale non può essere spiegato solo da una maggiore percentuale di malattie croniche tra i residenti delle RSA. Infatti, multimorbilità, sindromi geriatriche, demenza, fragilità, malnutrizione e disabilità, nonostante siano sproporzionatamente più comuni tra i residenti nelle RSA, non dovrebbero essere considerate come la principale causa di morte, ma, al massimo, come fattori predisponenti. Tra questi, la fragilità è stata recentemente riconosciuta per svolgere un ruolo chiave nell’aumentare il rischio di morte per COVID-19, più dell’età o della comorbidità».

Ma non si tratta solo di questo. «La Lombardia è stata la Regione che ha fatto registrare il maggior numero di morti in queste strutture. Nei primi giorni dopo lo sviluppo della pandemia, gli ospedali sono risultati sovraffollati e alcuni pazienti sono stati trasferiti nelle RSA, con ovvie conseguenze per il rischio di diffusione dell’infezione. Inoltre, è stato recentemente riscontrato che il numero di posti letto pro-capite nelle RSA, che serve a controllare la proporzione di adulti di età pari o superiore a 75 anni e la densità di popolazione, è significativamente associato ai tassi di mortalità da COVID-19. Questi risultati suggeriscono che le caratteristiche strutturali delle residenze socio-assistenziali potrebbero aver influenzato l’impatto dell’infezione sui tassi di mortalità. In Lombardia il numero medio di posti letto in ciascuna struttura è di circa 35, numero più elevato rispetto ad altre Regioni italiane (per esempio l’Emilia-Romagna ha una media di 20 posti letto per ogni RSA): si può quindi supporre che la maggiore probabilità di morte nelle RSA lombarde possa essere spiegata, tra l’altro, anche dalla maggiore concentrazione di anziani, con maggiori rischi di diffusione, e maggiori problemi nella gestione dei pazienti».

Visti questi risultati, si può dire che trasferire i malati COVID non gravi nelle RSA già sovraffollate è stata una scelta che ha incrementato il numero di decessi. Nel prossimo articolo approfondiremo la questione mediante l’analisi della riorganizzazione della rete ospedaliera.

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