di Fabrizio Casari - Altrenotizie
Managua.
Nessuno, nemmeno il più fiducioso tra le fila gli ottimisti avrebbe scommesso, 45 anni fa, di poter celebrare questo anniversario governando. Sembrava che per le speranze popolari verso il Sandinismo il tempo fosse un ostacolo difficile da superare: guerra, terrorismo, embargo, ostilità politica, sembravano troppo potenti per quella Rivoluzione giovane, priva di tutto fuorché di coraggio. Le possibili ambizioni per una vita migliore, per un Paese libero e di uguali, trovavano riparo solo nei sogni, nell’arte del creare e dell’adattarsi, nella tenacia testarda di chi ripeteva come l’alternativa ad una patria libera potesse essere solo la morte.
Passarono dieci anni di lutti, difficoltà ed eroismo dai quali i Sandinisti uscirono imbattuti. Quando l’impero arruolò nelle proprie fila ogni partito o partitino del Paese, con la gerarchia ecclesiale che distribuì morsi di vipera e costruì la coalizione dell’oligarchia, si disse che il Sandinismo aveva perso. Non era del tutto esatto. Era stato superato dalla guerra e dall’embargo, dalla stanchezza per i funerali, non da una proposta politica diversa. Perché non c’era nessuna proposta che non fosse la vendetta dell’oligarchia e dell’impero, non c’era nessun programma che non fosse la restaurazione dell’ordine somozista, per quanto privo dei Somoza.
I sedici anni che vennero furono il periodo più buio della storia del Nicaragua. L’ordine di Washington era chiaro: eliminare il Sandinismo, spazzare via dalla storia del Nicaragua e dell’intera America Latina quell’anomalia che si ostinava a rimanere tale, che non aveva confuso la sconfitta elettorale con la fine di una prospettiva politica e si preparava a resistere alla vendetta di una classe parassitaria di ladri in guanti gialli, priva di idee e piena di arroganza.
Si chiese ai sandinisti dal cognome oligarchico, poco inclini all’opposizione, di provvedere allo sfascio del FSLN. Il progetto era togliergli l’identità politica, la memoria storica, la passione ideale; trasformarlo in uno dei tanti partiti latinoamericani che si posizionano al centro del guado che separa l’annessionismo dall’indipendenza e che raccontano la loro disponibilità ad inginocchiarsi sull’altare dell’impero definendolo realismo politico.
Avevano fatto male i loro conti. Non avevano valutato la tenacia, la mistica, lo spirito di sacrificio della militanza sandinista e non avevano compreso la fierezza di Daniel Ortega e di Tomas Borge, come di altri Comandanti e dirigenti; la loro credibilità acquisita con ogni merito di fronte al popolo sandinista, la loro indisponibilità assoluta alla resa. Se ne accorsero nel 1994, quando il FSLN chiuse i conti con gli apostoli dell’oligarchia che tornarono con entusiasmo al latifondo dal quale venivano e che, d’incanto, divennero profeti di quell’ imperialismo del quale si erano detti nemici per la vita.
I cosiddetti “liberali” non lo erano affatto: licenziamenti politici di massa per la militanza sandinista e penalità per il popolo che con il Sandinismo si era identificato nel corso degli ’80. Senza elettricità per diverse ore al giorno e con la mancanza di acqua: mettere il cibo in tavola divenne privilegio di una minoranza. Per la maggioranza c’erano fame, analfabetismo e malattie endemiche di ritorno, disoccupazione massiccia, stato comatoso dell’assistenza e della previdenza, innalzamento della mortalità infantile e riduzione dell’aspettativa di vita. Nascere diventava un’avventura pericolosa ed invecchiare era divenuto un lusso.
I più deboli - donne, anziani, bambini - non comparivano nelle statistiche ufficiali ma affollavano i marciapiedi. Le mani non salutavano, chiedevano. I numeri della disperazione si perdevano nelle cifre dei falsi positivi. Sedici anni di saccheggio liberale che stremarono il paese. L’arricchimento smodato della borghesia parassitaria costò l’impoverimento dei poveri e dei più deboli. Quei maledetti sedici anni raccontarono meglio di libri e dissertazioni accademiche l’essenza ideologica delle classi che comandano all’interno ma sono comandate dall’esterno.
Ma quei sedici anni di resistenza popolare furono la base fondamentale della ricostruzione di un partito che cumulò forza, senza la quale il Novembre del 2006 sarebbe stato un mese qualunque di un anno qualunque. Fu invece la data della riscossa, dove si aprirono i cammini diventati oggi viali. Quella resistenza può ben essere considerata la seconda tappa della Rivoluzione Sandinista. Il Comandante Daniel Ortega aveva risanato e ricostruito il FSLN e, dopo 16 anni tragici, con elezioni rubate e congiunture avverse, il Sandinismo tornò a governare. Cominciò un altro libro, che rigo dopo rigo si fece più interessante, avvincente, con il profumo di lieto fine che si sentiva ad ogni voltar di pagina.
Oggi il Nicaragua è un altro Paese, distinto e distante da quello che a Daniel toccò ereditare dalle mani dei tecnocrati liberali, autentici cleptomani con master e dottorati. Da 17 anni il Nicaragua sandinista ha messo in opera quanto aveva già cominciato a fare dopo la liberazione del Paese dalla tirannide somozista. Questi ultimi 17 anni sono quindi la terza tappa di quella Rivoluzione che trionfò nel 1979.
Un modello vincente
E’ in corso il più grande progetto di modernizzazione di un Paese mai concepito in tutto il Centroamerica, disegnato sin nei minimi dettagli dal suo Comandante. Il progetto sandinista è il prodotto di una visione strategica del Nicaragua che rovescia completamente il destino storico della nazione così come imposto dal Nord. Cambia una volta per tutte il destino del Paese perché cambia completamente il paradigma politico e sociale, cambiano le priorità. Tra queste, quella per la riduzione della povertà. Salute ed istruzione gratuite, strutture ed infrastrutture nuove, rafforzamento costante del welfare, estensione dei diritti sociali.
I numeri non lasciano scampo ai detrattori del modello: ridotta del 50% la povertà assoluta e quella relativa; autosufficienza alimentare ed energetica, prezzi del paniere controllati, acqua potabile al 98,2% del territorio, energia elettrica al 99,5% del Paese, con il 70% che viene prodotta da fonti rinnovabili. Attraverso l’assegnazione di titoli di proprietà viene progressivamente restituito il Nicaragua ai nicaraguensi. Tutto questo, insieme alle misure di carattere economico-finanziario che difendono il potere d’acquisto dei salari, compone i lineamenti di politica economica che hanno mostrato in tutti questi anni una crescita annua media del 4,5% e che rappresentano una dimensione inedita per un Paese che, sotto il dominio somozista prima e liberale poi, era stato ridotto ad una entità miserabile. E nell’elenco dei successi vanno sottolineati sia il posizionamento del Nicaragua nei primi posti al mondo per il gender-gap che l’innovativo modello di polizia comunitaria che lo ha reso il Paese più sicuro di tutto il Centroamerica.
Qui sta il fulcro della scommessa politica del sandinismo: l’assoluta compatibilità - e complementarietà - tra la riduzione delle diseguaglianze e la crescita dell’economia. E’ una soluzione di portata storica ed universale, perché denuncia l’errore (e l’orrore) delle dottrine economiche liberali, che vedono nella riduzione della spesa pubblica e dei salari lo strumento per il contenimento dell’inflazione e la crescita esponenziale della ricchezza, che verrebbe prodotta proprio in ragione dell’abbattimento dei costi per i servizi sociali.
Il Sandinismo applicato dimostra, al contrario, che il trasferimento delle risorse generate da fiscalità e gli interventi straordinari va indirizzato verso l’intera società, che la spesa sociale svolge una funzione decisiva nella riduzione della povertà e che questa è presupposto per l’ampliamento della capacità produttiva. Dimostra che l’armonizzazione tra la microeconomia e la macroeconomia è possibile, anzi auspicabile, e che trova ragione nel sostegno diretto e indiretto all’economia familiare, pietra miliare dell’organizzazione sociale del Paese.
E’ questione di indirizzo politico generale, non c’è solo una efficienza manageriale nella gestione della cosa pubblica, per quanto Daniel e Rosario abbiano gli occhi ben attenti ad ogni possibile errore. C’è, come premessa, una idea di società che vede l’economia al servizio del popolo e non il contrario. In questi 17 anni, infatti, il Sandinismo ha dimostrato di essere, prima di ogni altra cosa, una idea di nazione, di popolo e di società che accoglie le migliori istanze del socialismo e le adegua ideologicamente e concretamente alla realtà nicaraguense. Individua nella titolarità assoluta del popolo nicaraguense sulla nazione l’obiettivo finale e vede nell’indipendenza e nell’esercizio della sovranità nazionale il presupposto fondamentale per raggiungerlo.
Una destra cialtrona e golpista
La destra nicaraguense, ottusa e razzista, incapace e classista come poche al mondo, non seppe raccogliere la sfida della modernizzazione del Paese come terreno di sviluppo e di crescita dei suoi stessi interessi proporzionalmente. La spinta destabilizzatrice di natura politico-ideologica proveniente da Washington trovò una saldatura con la dimensione classista, con un pregiudizio razzista e segregazionista che anima nel profondo l’intera oligarchia latinoamericana; la quale, già in premessa, trova detestabile che a governare non vi siano i figli del latifondo, a maggior ragione che non siano bianchi e di discendenza spagnola.
Nel 2018 tentarono quindi la via della violenza per scalzare un governo che aveva scommesso sulla pace e sulla riconciliazione. Il luddismo oligarchico sostenuto con la manipolazione mediatica diretta dall’impero, aveva ordinato la diffusione del terrore puro, la distruzione del Paese e l’assassinio di massa dei militanti sandinisti. Gerarchie ecclesiali, latifondisti, militanti della destra reazionaria si spacciavano per rappresentanti popolari, ma erano solo addetti alla distruzione, funzionari della vendetta, esattori dell’odio di classe. Per fermarli il Sandinismo usò la forza, perché non vi era altra strada possibile. Oggi i golpisti elemosinano cittadinanze in giro per il mondo, mentre il FSLN è al suo posto in Nicaragua e il Comandante Ortega è forte del consenso politico e persino dell’affidamento personale che i nicaraguensi gli hanno sempre confermato.
Oggi il Nicaragua è sinonimo di stabilità politica, di sicurezza e di indici di qualità della vita al rialzo costante. Ma il Sandinismo non si esprime solo attraverso la politiche di risanamento e sviluppo del Paese: ha assunto anche una dimensione internazionale di protagonismo politico che ne conferma l’identità storica, mai abiurata e mai negata. Si schiera in modo ostinato per la pace, per la risoluzione politica di ogni conflitto. Si pone in forma netta a favore del multilateralismo nella governance mondiale, reitera la centralità della relazione con Russia, Cina e con l’ALBA, apre un dialogo politico intenso con la nuova Africa, chiede politiche che favoriscano l’accesso di tutti alle nuove tecnologie senza barriere, in un commercio internazionale libero dal protezionismo politico e si dichiara favorevole all’abbandono del Dollaro nelle transazioni internazionali, visto l’uso militare e depredatore da parte degli USA che lo rende ormai incompatibile con un commercio equo.
Managua respinge al mittente le pressioni e le sanzioni di USA e UE ed espone senza reticenza un’idea del mondo fondata sull’eguaglianza, sul rispetto del Diritto Internazionale, sull’avversione totale e belligerante verso fascismo, neocolonialismo e imperialismo. E’ a favore di nuovi equilibri inclusivi e responsabili, di una diversa politica distributiva e della responsabilità di ogni Paese nei confronti della comunità internazionale e di questa verso ogni singolo suo membro. La prossima entrata nei BRICS, così come per altri versi la costruzione del Canale Interoceanico, proiettano il Nicaragua in una dimensione internazionale di assoluto rilievo, infinitamente superiore a quanto la sua dimensione territoriale e il livello del suo PIL dovrebbero allocarla. Ciò, oltre a garantire una sua migliore difesa dalle unghie rapaci dell’impero, certifica la visione prospettica del Sandinismo che, in quel 1979, non si poteva ipotizzare.
Per questo suo compleanno sono 800 le delegazioni arrivate dal mondo intero. Hanno varcato i due oceani o l’intero subcontinente. Persone e chilometri che raccontano come le sanzioni e l’ostracismo politico dell’Occidente collettivo siano impotenti di fronte all’empatia naturale che suscita il Sandinismo. E ancor più di fronte ad un processo rivoluzionario che segna i numeri che caratterizzano il Nicaragua e supera bugie, infamie, tergiversazioni.
Ovunque trovi cappelli, magliette, distintivi e bracciali che inneggiano al Sandinismo. Si registra però che, 45 anni dopo, quel vestito indossato al matrimonio tra un popolo e un partito, di fronte a quella cattedrale il 19 Luglio del ’79, calza ancora perfettamente. Cucito con filo rosso e nero, ha una tela che col tempo si rafforza e aumenta brillantezza invece che rovinarsi. Sembra fatto su misura per una Rivoluzione permanente.
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