I sedicenti custodi della democrazia hanno raddoppiato il loro attacco contro il governo venezuelano e le elezioni presidenziali, che hanno già dichiarato fraudolente. Vassalli obbedienti dell'impero e dei poteri reali che hanno indebolito la vitalità delle democrazie, seguono il copione di Washington, secondo cui non ci sarà stabilità democratica nella regione finché non si porrà fine al “regime” chavista. Ma soprattutto, alla Casa Bianca interessa un'altra stabilità: quella della sottomissione della parte più importante del suo impero in declino, cioè l'America Latina e i Caraibi, con o senza democrazie, come è sempre stato. E il chavismo, in quanto ideologia bolivariana, è un ostacolo, sia all'interno che all'esterno del Venezuela.
La cosa curiosa è che il governo di Nicolás Maduro viene denigrato da presunti analisti che hanno convalidato la designazione da parte di Donald Trump di un “presidente incaricato” in Venezuela, Juan Guaidó, una mostruosità giuridica e repubblicana che non ha turbato il sonno dei guardiani delle nostre democrazie. Uno dei più lucidi giornalisti di destra, Carlos Pagni, ha dedicato un'ampia intervista a questo personaggio nel suo programma su LN+, che ha imperdonabilmente trattato in più di un'occasione come “presidente”. Guaidó ha eseguito con cura l'incarico affidatogli dal magnate newyorkese e ha legittimato con la sua firma di “presidente” del Venezuela il furto di numerose aziende pubbliche venezuelane, tra cui CITGO, PdVSA, la società petrolchimica Monomeros e ha permesso alla Banca d'Inghilterra di sequestrare lingotti d'oro per un valore di due miliardi di dollari di proprietà del popolo venezuelano. Un democratico esemplare, senza dubbio, meritatamente elogiato da Pagni e da chi, come lui, pretende di dare lezioni di scienze politiche. Ricordiamo: l'Argentina di Milei è una democrazia, nonostante abbia spazzato via la divisione dei poteri, violato numerosi precetti costituzionali, ridotto la libertà di stampa, instaurato una corrotta e spudorata compravendita di voti e favori nel Congresso e imposto uno stile poco habermasiano di “dialogo democratico” basato su vessazioni, urla, insulti scurrili e attacchi infiniti agli oppositori. Ma il profeta dell'anarco-capitalismo si allinea agli Stati Uniti e a Israele e consegna il Paese al grande capitale nazionale e straniero, e questo basta per essere considerato un democratico.
Maduro, invece, presiede un “regime” che in 25 anni ha indetto 30 elezioni, ne ha perse due molto importanti (nientemeno che per riformare la Costituzione del 1999 e conformare il Venezuela come “Stato socialista; e nel 2015, per l'elezione dell'Assemblea nazionale) e in entrambi i casi ha riconosciuto la sconfitta non appena sono stati resi noti i risultati. Elezioni che hanno visto la presenza di centinaia di osservatori e che sono state invariabilmente contestate dalla Casa Bianca e dalle sue pedine locali. Nel complesso, un governo che ha fatto enormi progressi nell'istruzione pubblica e nella sanità, ha recuperato le sue ricchezze petrolifere e minerarie e ha costruito più di quattro milioni di unità abitative popolari, tra gli altri risultati. Ma Maduro è ancora un autocrate che deve essere rimosso dall'incarico il prima possibile, provocando un “cambio di regime” in linea con le aspirazioni di Washington. È a questo che si riduce la scienza politica di destra: Milei, un democratico irrispettoso e procace, ma pur sempre un democratico; Maduro, invece, è geneticamente un autocrate.
In relazione alle elezioni presidenziali, la stampa egemonica denuncia le difficoltà economiche della popolazione, ma tace complicemente sull'origine di questa situazione: il blocco e le 935 (Sic!) misure coercitive unilaterali, o “sanzioni”, imposte dal governo statunitense alla controparte venezuelana per, come chiese Nixon ai suoi consiglieri quando Salvador Allende vinse le elezioni in Cile, “far urlare e scoppiare l'economia - venezuelana in questo caso”. In altre parole, elezioni che si svolgono sotto il fuoco di un'intensa guerra economica, con una capacità distruttiva superiore a quella di centinaia di bombe. Come ignorare che se a un Paese viene impedito per quasi dieci anni di esportare il suo principale bene di consumo e di importare i beni di consumo, gli input industriali o i pezzi di ricambio necessari alle sue imprese produttive, questa “guerra ibrida” dichiarata contro di esso produrrà inevitabilmente un collasso economico che causerà grandi sofferenze al suo popolo, diffonderà malumore e rabbia e distorcerà le preferenze dell'elettorato? Allora, chi è responsabile della crisi economica e del disagio popolare: il governo sotto attacco o il delinquente imperiale che, di fronte al suo inesorabile declino, cerca di imporre la sua volontà al mondo intero? È ragionevole, e onesto, incolpare la vittima di un'aggressione piuttosto che l'aggressore? In ogni caso, l'“inefficiente” populismo chavista ha prodotto un piccolo e sconcertante miracolo: contrariamente a quanto sta accadendo con l'economia esoterica delle forze del cielo in Argentina, l'economia venezuelana si sta riprendendo nonostante il blocco: è cresciuta per dodici trimestri consecutivi e nel primo trimestre di quest'anno è cresciuta del 7% annuo. Secondo la CEPAL, entro il 2024 sarà l'economia a più rapida crescita della regione e l'inflazione è stata ridotta. Infine, i rigori del blocco hanno provocato un cambiamento positivo nella matrice produttiva e per la prima volta nella sua storia la maggior parte degli alimenti consumati nel Paese è prodotta internamente.
In queste condizioni: guerra economica e mediatica; denaro statunitense che corrompe volontà e coscienze in abbondanza, il tutto unito a frequenti interruzioni di corrente, carenze, lunghe code per la benzina e stipendi insufficienti, in queste condizioni, ripeto: si può parlare di “elezioni libere”? Nonostante, come ha sottolineato il Carter Center, specializzato nel monitoraggio delle elezioni, il sistema elettorale venezuelano sia uno dei più affidabili al mondo e offra tutte le garanzie per l'opposizione, le prossime elezioni non saranno libere perché i cittadini agiranno costretti dalle restrizioni già citate e dove una popolazione brutalmente punita dalle conseguenze della guerra economica non ha la serenità e la libertà di votare razionalmente e di proteggere i propri interessi, le proprie libertà e il proprio benessere a lungo termine. In breve: dove c'è subordinazione all'imperialismo o dove l'imperialismo si confronta, come in Venezuela, non ci possono essere libere elezioni. Le difficili circostanze attuali, aggravate dalla manipolazione cognitiva della tirannia mediatica, potrebbero indurre alcuni settori dell'elettorato - nessuno può dire con certezza quanti - a votare con la destra per frustrazione e rabbia. L'immenso apparato politico dell'impero, che controlla i media mainstream e le reti sociali, sta inducendo l'elettorato a votare per rabbia. Al contrario, il presidente Nicolás Maduro ha condotto una campagna elettorale titanica facendo appello alla coscienza nazionale del suo popolo e alla rivalutazione dell'eredità del chavismo. Domenica sera sapremo se questo sforzo meritorio è stato premiato dai voti.
(Traduzione de l’AntiDiplomatico)
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