La Siria tradita

di Saverio Werther Pechar*

Nell’attuale conflitto tra ordine mondiale basato sulla violenza e nuovo ordine multipolare, la chiave di volta per il successo di quest’ultimo è rappresentata dalla saldatura tra il cosiddetto asse della Resistenza (Palestina-Libano-Siria-Iraq-Iran-Yemen) e le tre potenze nucleari Russia-Cina-Corea del Nord. Il sedicente Occidente, articolato in realtà in una struttura gerarchica imperiale che vede alla sua testa la triade Stati Uniti-Regno Unito-Israele ed alla sua coda uno stuolo di Stati vassalli del tutto privi di sovranità, non sarebbe difatti in grado di affrontare militarmente tale teorica coalizione, essenzialmente a causa della progressiva deindustrializzazione alla quale esso stesso si è volontariamente sottoposto negli ultimi 40 anni, con conseguente impossibilità di produrre autonomamente grandi quantitativi di armamenti in tempi brevi: una prima dimostrazione della fondatezza dell’assioma appena enunciato si è avuta il 10 ottobre dello scorso anno, quando l’esercito russo ha iniziato il vittorioso assalto alla città di Avdeevka (sin dal 2014 una delle principali roccaforti banderiste sul fronte di Donec’k) approfittando del dirottamento dei rifornimenti occidentali dal teatro ucraino a quello mediorientale in seguito alla grande offensiva palestinese scatenata tre giorni prima, offensiva che aveva messo in seria difficoltà un esercito israeliano scopertosi a sua volta a corto di proiettili a causa del trasferimento al regime di Zelens’kij di ingenti quantitativi di materiale bellico statunitense precedentemente immagazzinato nell’entità sionista, la cui dipendenza economico-militare dal grande fratello d’oltreoceano si è rivelata ancora una volta assoluta.

Da ciò discende automaticamente che, qualora la Cina decidesse di riassorbire con la forza la provincia ribelle taiwanese, Washington si troverebbe nell’impossibilità tecnica di sostenere contemporaneamente Tel Aviv, Kiev e Taipei, vedendosi così obbligata ad effettuare una scelta: dando per scontato che tale scelta ricadrebbe sull’imprescindibile (politicamente) alleato sionista, gli altri due conflitti si avvierebbero in poche settimane al loro logico epilogo. Tuttavia, al netto dei facili trionfalismi di una parte dei commentatori geopolitici di area sovranista, un effettivo coordinamento tra i due citati blocchi appare ancora limitato alla dimensione dei pii desideri, come si può purtroppo facilmente constatare prendendo in esame la situazione di quello che costituisce sia il Paese-cardine dell’ipotetica alleanza sia, malauguratamente, l’anello debole di tutta la catena, vale a dire la Siria. Da un rapido quanto imprescindibile sguardo alla carta geografica risulta subito evidente come la Repubblica Araba, confinando con Libano ed Iraq, conferisca contiguità territoriale all’asse della Resistenza, costituendo pertanto la via di transito obbligata per i vitali rifornimenti che dall’Iran raggiungono Hezbollah: l’organizzazione sciita, pur avendo negli anni sviluppato una forte connotazione patriottica che si rivela al contrario completamente assente nell’esercito libanese (anche in questi giorni paralizzato ed imbelle di fronte all’ennesima invasione israeliana), non ha infatti mai avuto la possibilità di affiancare alla sua autonomia politica una reale emancipazione dalla dipendenza militare nei confronti dei correligionari di Teheran.

Verosimilmente anche a causa del suo menzionato ruolo chiave negli equilibri locali ed internazionali, lo Stato laico e semi-socialista guidato da Bashar al-Assad è stato vittima a partire dal 2011 di una ferocissima aggressione ad opera del cosiddetto Occidente, posta in atto sia in forma diretta che per interposta persona, attraverso le milizie islamiste e curde. Pur in gravissima difficoltà e dato ormai per spacciato, esso è invece riuscito a resistere, sia in ragione del ricompattamento della stragrande maggioranza della popolazione attorno al presidente ed alle istituzioni, sia come conseguenza del sostegno diplomatico nonché, a partire dal 2015, militare della Russia, scesa direttamente in campo (pur tra mille resistenze interne) per difendere l’ultimo alleato superstite sullo scacchiere mediorientale. L’intervento aereo di Mosca, affiancato a quello terrestre di Hezbollah, ha permesso a Damasco di stabilizzare la situazione, liberando gran parte del Paese dalle bande di tagliagole al soldo di Washington, Londra e Tel Aviv; ciò non di meno, la spiccata tendenza conciliatoria evidenziata a più riprese da Putin nei confronti di Erdogan ha impedito di riportare sotto il controllo del governo legale l’area di Idlib ed il confine settentrionale, tuttora nelle mani di gruppi terroristici filoturchi (quando non direttamente dell’esercito di Ankara), mentre la necessità di non entrare in conflitto aperto con gli USA ha a sua volta provocato l’abbandono di tutta la riva sinistra dell’Eufrate al controllo degli ascari curdi (in massima parte non autoctoni), che da anni rubano impunemente petrolio, prodotti agricoli e manufatti archeologici siriani per consegnarli ai loro burattinai statunitensi.

Nonostante tali gravi limitazioni alla propria sovranità ed il persistere delle draconiane sanzioni economiche occidentali, la Siria è quindi riuscita a risollevare faticosamente la testa ponendosi di fatto sotto la protezione della Russia, che ha a sua volta rilanciato la sua declinante posizione nel bacino orientale del Mediterraneo attraverso il potenziamento della vecchia base navale sovietica di Tartus e l’istituzione della base aerea di Hmeimim, con il conseguente considerevole ampliamento del raggio d’azione delle proprie forze armate; lo Stato levantino avrebbe perciò potuto configurarsi come l’ideale trait d’union e laboratorio dell’auspicata coalizione multipolare, trovandosi appunto sotto l’influenza congiunta di Mosca, Teheran e Pechino (che aveva a sua volta provveduto ad inserirlo a pieno titolo nell’ambizioso progetto denominato Nuova via della seta), nonché come fulcro regionale della politica di contenimento dell’espansionismo sionista. Nulla di più lontano dalla realtà. Preso atto del fallimento della strategia di attacco indiretto alla Siria tramite ISIS e formazioni consimili, il regime israeliano si è risolto difatti a ricorrere senza indugi all’aggressione aperta, scatenando una campagna di bombardamenti sulla Repubblica Araba che ha oramai raggiunto una cadenza quasi quotidiana e minacciando a più riprese di recidere la giugulare della Resistenza, vale a dire il flusso di materiale bellico di provenienza iraniana che si dipana attraverso il deserto per rimpinguare infine i depositi di Hezbollah; il tutto nella più totale acquiescenza dei russi.

Come conseguenza degli estesi e prolungati attacchi missilistici, la difesa aerea di Damasco risulta allo stato attuale gravemente indebolita e sempre più incapace di fronteggiare l’ingombrante vicino, con conseguenze che non hanno tardato a manifestarsi a catena anche sul teatro bellico libanese. Per porre fine a tale deplorevole stato di cose sarebbe sufficiente che la Russia dispiegasse in loco alcune batterie del celeberrimo sistema antiaereo S-400, in grado di neutralizzare pressoché ogni tipo di minaccia proveniente dal cielo; tuttavia, essa si è sinora sempre ben guardata dal farlo. Il contrasto fra il trattamento di sfavore riservato all’alleato Assad e le cortesie adoperate all’indirizzo di un Paese potenzialmente nemico (in quanto parte integrante della NATO) come la Turchia non potrebbe essere più stridente: l’aguzzino del popolo siriano Erdogan, infatti, non solo ha tranquillamente ricevuto i citati S-400, ma con ogni probabilità nei prossimi mesi non si farà scrupolo di consegnarli agli Stati Uniti nel quadro di un baratto finalizzato alla riammissione di Ankara nel programma di acquisto degli F-35, violando così gli accordi stipulati con il Cremlino (esattamente come lo scorso anno egli ha riconsegnato senza conseguenze a Zelensk’ij Denis Prokopenko, il comandante del famigerato battaglione nazista «Azov» arresosi ai russi il 20 maggio 2022 e misteriosamente spedito in Turchia, ove avrebbe dovuto secondo i patti dimorare sino al termine delle ostilità).

Due sono le ragioni che vengono solitamente proposte per spiegare la perdurante arrendevolezza di Putin nei confronti dell’entità sionista: la prima è che Israele, in quanto porto franco e principale hub mondiale dei traffici leciti ed illeciti di ogni sorta, agevolerebbe l’aggiramento delle sanzioni irrogate dall’Occidente collettivo a Mosca; la seconda consiste invece nell’ipotizzato timore che un atteggiamento più assertivo in Siria spingerebbe Tel Aviv ad infrangere l’ostentata neutralità fin qui osservata nel conflitto ucraino, inviando aiuti militari al regime di Kiev. Nessuna di dette obiezioni regge però minimamente il confronto con la realtà, in quanto il sistema sanzionatorio si è come noto dimostrato complessivamente benefico per l’economia russa, accelerandone la crescita produttiva interna e la ricerca di mercati di sbocco alternativi (specie nell’ambito dei cosiddetti BRICS+), tanto che le iniziali ricadute negative risultano allo stato attuale in massima parte riassorbite; ancora meno fondato appare poi il discorso relativo ai rischi concernenti un eventuale sostegno di Tel Aviv a Zelens’kij, dato che la principale richiesta indirizzata a più riprese da quest’ultimo allo Stato ebraico era costituita dal sistema di difesa aerea denominato «Iron dome», il quale, già rivelatosi inefficace contro i razzi artigianali di Hamas, è stato in seguito definitivamente ridicolizzato dall’attacco iraniano del primo ottobre, sferrato con missili molto meno avanzati di quelli in dotazione alle forze armate della Federazione. Duole constatare come la spiegazione ultima di tale atteggiamento vada invece verosimilmente ricercata negli inconfessabili retroscena delle numerosissime visite al Cremlino, palesi o segrete (l’ultima risale a poche settimane fa) di Netanyahu, un personaggio che nei suoi lunghi anni di governo ha probabilmente trascorso più tempo a Mosca che a Washington.

Come era prevedibile, la situazione testé descritta non ha mancato di suscitare in seno al popolo siriano estesi malumori (non a caso segnalati con crescente regolarità e preoccupazione sui canali militari russi) all’indirizzo del potente quanto ondivago alleato, erodendo progressivamente il capitale di riconoscenza che esso si era guadagnato a partire dal 2015. Dopo tredici anni di guerra e ristrettezze economiche di cui non si intravede la fine, la compattezza della società civile (elemento determinante per la sopravvivenza dello Stato nel terribile quadriennio 2011-2015) inizia cioè a venire meno, così come la disponibilità ad accettare ulteriori sacrifici. Sino al momento presente l’ottuso fondamentalismo ideologico occidentale, tutto votato al regime change, non ha fatto altro che sospingere Assad tra le braccia di Putin; tuttavia, non sarebbe saggio trascurare la possibilità che in futuro un’amministrazione USA maggiormente incline ad un pragmatismo di scuola kissingeriana possa offrire a Damasco una soluzione alternativa, prospettandole magari un allentamento delle sanzioni, il ritiro delle truppe di occupazione curdo-statunitensi, la restituzione del petrolio rubato e la cessazione dei bombardamenti israeliani in cambio dell’abbandono dell’alleanza con Mosca e Teheran (naturalmente, nessuna di queste promesse verrebbe poi mantenuta, nella migliore tradizione anglosassone). A quel punto il confronto con l’impietosa situazione attuale potrebbe indurre il presidente, forte dell’appoggio della parte di popolazione ormai stremata e desiderosa solamente di pace, a prendere seriamente in considerazione l’offerta, nell’illusione di poter così risollevare le sorti del Paese; inutile sottolineare le ripercussioni catastrofiche che un tale ipotetico rovesciamento delle alleanze comporterebbe per il fronte libanese e, in generale, per tutto l’asse della Resistenza.

In altre parole, abbandonando la Siria alla mercé del nemico sionista, la Russia gioca letteralmente con il fuoco, mettendo a repentaglio non solo la sua posizione in Medio Oriente ma soprattutto la sua credibilità agli occhi degli alleati, attuali e potenziali. A questo proposito, non gioca certo a suo favore l’inquietante precedente rappresentato dal mancato sostegno all’Armenia (a dispetto dell’inquadramento di ambedue i Paesi nell’Organizzazione del Trattato di Sicurezza Collettiva) durante la guerra del 2020 contro l’Azerbaigian, dietro il pretesto della posizione filo-occidentale assunta da Erevan dopo la rivoluzione colorata/colpo di Stato dell’aprile 2018: vero è che in quel caso il conflitto si è svolto sul territorio del Nagorno Karabakh, formalmente appartenente a Baku, non delineandosi pertanto un formale obbligo di intervento da parte degli altri componenti dell’OTSC; ciò nonostante, l’apparente indifferenza per la sorte di un Paese amico vittima dell’aggressione azera non ha certo giovato alla reputazione internazionale della Federazione, oltre a configurarsi come l’ennesima genuflessione nei confronti di Erdogan e Netanyahu (essendo il regime incarnato da Aliyev sotto il completo controllo turco-israeliano). È naturalmente possibile obiettare che in questa particolare congiuntura storica il Cremlino manifesti la necessità di conservare a tutti i costi la neutralità di Ankara, funzionale al mantenimento dello statu quo nel Mar Nero (ovvero della flotta NATO fuori dai Dardanelli); tuttavia, ancora una volta, viene da chiedersi quali siano le reali motivazioni dell’appeasement verso Tel Aviv.

L’ambiguità strategica russa sisulta del resto speculare a quella evidenziata da un importante partner regionale come l’Iran proprio in relazione alla guerra per il Nagorno Karabakh, che ha visto Teheran schierarsi inizialmente dalla parte dell’Azerbaigian per poi trasformarsi a partire dal 2021, sotto la presidenza di Ebrahim Raisi, nel maggiore sostenitore dell’integrità territoriale dell’Armenia; le ripetute inversioni di rotta nella politica estera della Repubblica Islamica come conseguenza dell’alternanza politica alla sua guida di “liberali” e “conservatori” costituiscono peraltro da decenni un grave vulnus alla stabilità delle sue alleanze ed alla stessa credibilità del suo posizionamento alternativo rispetto all’ordine unipolare imperiale: al tal proposito ci si limiterà in questa sede a rilevare la coincidenza tra la presenza di forze filo-statunitensi al governo a Teheran e gli assassinii di Soleimani, Haniyeh e Nasrallah, coincidenza d’altra parte già sottolineata da autorevoli analisti geopolitici, che non hanno esitato ad adombrare probabili complicità interne specie nell’omicidio del primo, popolarissimo in patria, legato all’ex presidente Ahmadinejad (bestia nera dei “moderati”) nonché possibile futuro candidato alla direzione del Paese. Inutile quindi sottolineare come l’eliminazione di Raisi, principale promotore assieme al Corpo delle Guardie Rivoluzionarie Islamiche della creazione di un fronte unico con Russia e Cina in chiave anti-occidentale, si sia rivelata il più grande (se non l’unico) successo colto da Israele nell’ultimo anno.

Malgrado gli ottimi risultati conseguiti dal recente vertice BRICS a Kazan' (anche al netto delle più che sospette defezioni di bin Salman e Lula, quest’ultima oltretutto accompagnata dal vergognoso veto brasiliano all’ingresso del Venezuela nell’Organizzazione), la strada verso la formazione di una “grande coalizione” multipolare appare perciò ancora lunga e costellata di ostacoli, sia in ragione dell’assenza di un collante ideologico che possa cementarne le strategie, sia soprattutto a causa delle resistenze che una decisa scelta di campo nella direzione indicata continua a provocare in estesi settori interni ai Paesi che dovrebbero rappresentarne il fulcro, settori che si configurano come delle vere e proprie quinte colonne ostili all’idea stessa di una definitiva rottura dei ponti con gli USA. Al di là delle già menzionate oscillazioni iraniane, costituisce emblematica dimostrazione di quanto appena affermato il sostegno materiale virtualmente nullo apportato dalla Cina alla cosiddetta Operazione Militare Speciale in Ucraina, un atteggiamento a cui potrebbero non essere estranei i ben noti affari d’oro di Pechino con il regime di Kiev nonché con la famiglia Biden (d’altronde, secondo Thierry Meyssan, l’inerzia di Putin in Siria sarebbe a sua volta finalizzata a costringere Xi Jinping ad abbandonare i progetti infrastrutturali nella Repubblica Araba a favore di uno spostamento sul territorio russo dei corridoi di connettività attraverso i quali si articola la Nuova via della seta) e che risulta in netto contrasto con la disponibilità nordcoreana ad inviare truppe sul fronte di Kursk: un ottimo affare, quest’ultimo, per Pyongyang, che avrà così la possibilità di mettere alla prova le proprie forze armate, senza esperienza di combattimento dal lontano 1953, in un conflitto ad alta intensità; non altrettanto, quantomeno a livello di prestigio, per Mosca, del resto alle prese con una cronica carenza di soldati che non le consente di sfruttare adeguatamente i successi conseguiti nel Donbass (problematica recentemente aggravata dalla spinosa questione della smobilitazione dei riservisti richiamati alle armi nell’autunno del 2022).

In conclusione, nel momento in cui si concepisce il grandioso disegno strategico di porre fine al dominio globale anglosassone («vaste programme», commenterebbe De Gaulle) sarebbe forse il caso di abbandonare tatticismi e meschinità assortite, elaborando un piano d’azione unitario che si dimostri all’altezza delle ambizioni e possibilmente evitando di cullarsi nella fallace quanto pericolosa illusione che la caduta del sistema unipolare sia di per sé inevitabile: seppure in fase avanzata di disfacimento (specie culturale), l’avversario appare al contrario ancora formidabile ed intenzionato a vendere molto cara la pelle. Esso può sì essere lavorato ai fianchi e indebolito giorno dopo giorno, ma non crollerà mai senza un’energica spallata; e, come insegna la storia delle rivoluzioni, quando si tratta di assestare il colpo decisivo la scelta della tempistica è fondamentale.

*Geografo, storico e segretario della sezione di Roma dell'AICVAS (Associazione Italiana Combattenti Volontari Antifascisti di Spagna),

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