In memoria di “Auschwitz” - versi

di Elzarett Viktoriya Kinevard

Prologo

Il 27 gennaio 1945, 80 anni fa, le truppe dell’Armata Rossa irruppero nell’area del campo di concentramento nazista di Auschwitz e liberarono i prigionieri che vi erano rimasti. L’area di una piccola città polacca, ribattezzata Auschwitz dai tedeschi, divenne il luogo di uno dei peggiori massacri della storia umana. Lì morirono più di un milione di persone: uomini, donne, anziani e bambini.
Nel campo di concentramento di Auschwitz furono liberate circa 1.200 persone, 5.800 a Birkenau, circa 600 a Monowitz. Molti di loro erano in uno stato di estremo esaurimento e morirono presto, nonostante le cure mediche fornite loro. Tra i detenuti c’erano sia prigionieri di guerra sovietici, che cittadini di Polonia, Francia, Italia, Ungheria e altri paesi. Le testimonianze agghiaccianti dei prigionieri liberati e ciò che videro i soldati sovietici che entrarono nel campo di Auschwitz mostrarono al mondo intero il livello di mostruosità, inimmaginabile da mente umana, della macchina di sterminio nazista.

La poesia è quella forza misteriosa che ha il potere di donare immortalità ai pensieri dell’uomo, facendo sì che questi possano diventare eterni.
La poesia “Auschwitz” della giovane poetessa russa Elzarett Viktoriya Kinevard, presa dalla raccolta “Voennaya Tetrad’” (Quaderno di guerra) nel suo libro “Izbrannye Stikhotvoreniya” (Poesie scelte) è dedicata ai caduti del campo di concentramento di Auschwitz.
La poesia “Auschwitz” è stata concepita sotto forma di monologo dei prigionieri deceduti, che raccontano dall’aldilà all’uomo di oggi l’importanza della pace sulla Terra e la fine dei conflitti.
Come diceva Pablo Neruda “La poesia è un atto di pace”.

Auschwitz
Ci portarono e ci spinsero dentro
Coi bambini che urlavano nelle baracche,
E alle mie spalle gridavano:
“Avanti, ebreo, nemico insopportabile!”
Avevo sedici anni allora,
Quando vi arrivai.
Oh, che cosa terribile, che cosa ripugnante.
Vagammo per quei posti!
Posso parlare apertamente:
Ora sono uno Spirito incorporeo.
Nell’aldilà senza dimenticare
Tutto il peso dei ceffoni passati.
Mi ricordo:
Polonia. Giornate nuvolose.
Un edificio in mattoni senza gioia.
Qui la terra per l’eternità conserva
La sofferenza e la crudeltà del Reich.
Qui ogni pietra in terra
Vide la potenza della cattiveria umana
E vidi, come in una nera foschia
Bruciare la carne viva della fronte.
E la pietra ricorda le ombre della paura,
Conservando tracce di lacrime di sangue,
Senza dimenticare l’odore del fumo
Dagli alti camini a forma di croce.
E preghiere troppo forti,
In una folla di bambini singhiozzanti
E vidi molti visi percossi
E qui ricordo tante privazioni.
Qui ogni pietra vide tutto:
Mani gettate in un impeto
E la disperazione sul viso
E il vento del doloroso distacco.
Occhi… Occhi… dappertutto!
Occhi malati e spaventosi!
Persone dietro un ammasso di reticolato,
Soldati privati della ragione...
Bambini... e piccoli e grandicelli,
E i vecchi e le povere madri
E i tedeschi alti e dalle labbra sottili,
Ridere del candore delle ossa...
Molti giorni luminosi sono già passati,
Ma solo qui si conserva il dolore.
Auschwitz è un regno di ombre,
Dove per l’eternità dorme malvagia la quiete.
Qui le pietre piangono nell’orrore mortale,
Incapaci di scacciare la sofferenza,
Come già piansero le persone
Nel fuoco dei silenziosi edifici grigi.
E ricordando quei giorni,
Prego solo per una cosa:
Oh uomini!
Che i vostri sogni siano luminosi,
Serbate le gesta del paese
E vi supplico - che il nostro mondo
Non sia più in preda alla guerra!

(2013)

(Prologo e traduzione dei versi a cura di Eliseo Bertolasi)


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