di Alessandro Somma
Il saggio di Emmanuel Todd sulla sconfitta dell’Occidente convince soprattutto nella previsione circa la fine dell’Unione europea come conseguenza del suo appoggio incondizionato alla guerra condotta dagli Stati Uniti contro la Russia. L’Unione nasce del resto come progetto atlantista, concepito per serrare le fila del mondo capitalista e affossare il costituzionalismo democratico e sociale sorto come reazione alla sconfitta del fascismo. E si sviluppa sotto forma di dispositivo neoliberale irriformabile, in quanto tale destinato a minacciare a tal punto le società europee da far apparire una loro reazione avversa come inevitabile e prima o poi destinata a produrre il disfacimento dell’Unione.
Todd trascura però le differenze tra il costituzionalismo democratico e sociale e quello liberale, e con ciò elementi fondamentali per analizzare la crisi della democrazia provocata dalla virulenza del neoliberalismo. Per contro sopravvaluta il ruolo della religione in quanto fondamento per il recupero della dimensione comunitaria indispensabile al successo del costituzionalismo: anche il neoliberalismo possiede una simile dimensione, nel cui ambito la religione ben può divenire una fonte di valori premoderni buoni solo a sostenere la modernità capitalista.
Il declino dell’Occidente e il neoliberalismo
La letteratura sul declino dell’Occidente ha una tradizione relativamente lunga. Prende corpo con il celeberrimo volume di Oswald Spengler, pubblicato alla conclusione del primo conflitto mondiale con una tesi decisamente reazionaria: il “tramonto” della civiltà occidentale veniva attribuito alla centralità assunta dal denaro alimentata dalla democrazia, tanto che lo si sarebbe potuto arrestare solo con l’avvento del cesarismo[1].
Da allora molti si sono cimentati con lo stesso tema e con sensibilità le più disparate, quindi non solo per sponsorizzare soluzioni antidemocratiche al declino dell’Occidente. Comune è però la prospettiva utilizzata, ovvero la scelta di identificarlo con la modernità in quanto progetto inscindibile da quanto siamo soliti ritenere tipicamente occidentale[2]: un ordine politico incentrato sulla democrazia e un ordine economico di matrice capitalista, a cui in molti affiancano i principi morali del cristianesimo.
Del resto l’equilibrio tra capitalismo e democrazia è sommamente instabile, innanzi tutto per la tendenza del primo a comprimere fino a sacrificare la seconda: come avvenuto con il fascismo in quanto sistema volto ad azzerare le libertà politiche per riformare le libertà economiche, ovvero a risolvere la crisi del capitalismo[3], in forme che mostrano inquietanti analogie con le fasi in cui prevale la deferenza nei confronti dell’ortodossia neoliberale. Il tutto accompagnato da un impiego della religione come fonte di valori premoderni buoni solo a sostenere la modernità capitalista, ovvero a imporre lo scontro di civiltà come feticcio agitato al fine di occultare i conflitti prodotti dal funzionamento del cosiddetto libero mercato.
Certo, la modernità e i suoi valori sono stati radicalmente ripensati per consentirle di mantenersi al passo con i tempi: ad esempio nel solco di quanto suggerito da un progetto volto al loro esplicito superamento, tanto da qualificarsi in termini di postmodernità. Quel progetto ha in particolare voluto opporre all’individualismo, al razionalismo e al produttivismo una tensione comunitaria, una attenzione per il riconoscimento e una rilettura del rapporto con la natura alternativa a quella fondata sull’antropocentrismo. Quanto si è realizzato non ha tuttavia scalfito un altro aspetto della modernità: il produttivismo. Il neoliberalismo è stato invero capace di piegare le nuove idealità al suo progetto, ad esempio rendendo il riconoscimento un catalizzatore di nuovi individualismi e nuove occasioni di mercificazione[4]. Tanto da trasformare quelle idealità in un ulteriore riscontro di quanto l’Occidente sia irriformabile e per questo inesorabilmente votato al declino.
Che il neoliberalismo sia da annoverare tra le cause prime di questa situazione viene chiarito anche nel recente volume dedicato da Emmanuel Todd alla “sconfitta dell’Occidente”[5]. Quest’ultima viene invero ricondotta a una specifica caratteristica dell’ordine economico occidentale, ovvero la sua tendenza alla finanziarizzazione efficacemente definita come “predilezione per la produzione di denaro anziché di macchinari” (12). E ciò costituisce una inevitabile espressione dell’ortodossia neoliberale, se non altro per la centralità attribuita alla libera circolazione dei capitali e per la relativa considerazione dell’investitore quale figura quasi antropologica di riferimento per la disciplina dell’ordine economico. Il tutto con conseguenza drammatiche sugli Stati nazionali, costretti a una competizione al ribasso incentrata sulla precarizzazione del lavoro e sull’abbattimento della pressione fiscale sulle imprese e con ciò sull’affossamento del welfare.
I due Occidenti e il principio di ugiaglianza
Nel saggio di Todd la finanziarizzazione dell’economia compare tra le principali cause del declino occidentale assieme al “nichilismo scaturito dallo stato zero della religione” (13). Il riferimento è più precisamente al protestantesimo, tuttavia non per le note ragioni a suo tempo individuate da Max Weber, ovvero perché riconosce nel lavoro un valore in sé[6]. Qui si allude alla circostanza per cui questa corrente del cristianesimo richiede un accesso diretto alle Sacre scritture e per questo promuove l’istruzione, alla base della diffusione dell’alfabetizzazione e con essa di un fondamentale presupposto affinché si possa “progredite a livello sia tecnologico che economico” (150).
Todd non si riferisce però al protestantesimo in generale, bensì alla variante tedesca e dunque a un credo che si reputa connotato dall’autoritarismo e dal culto intransigente della sottomissione. Di qui la scarsa predisposizione a riconoscere il principio di uguaglianza e comunque a contenere quanto discende da un modo di intendere la dottrina della predestinazione che non lascia spazio alla responsabilità individuale. Di qui anche la distinzione tra due Occidenti. Il primo è quello connotato dal “fiorire dell’istruzione e di uno sviluppo economico” certamente in linea con i fondamenti del capitalismo ma non anche con quelli della democrazia. Il secondo Occidente è quello “liberale ristretto” che interessa la Francia, il Regno Unito e gli Stati Uniti, ovvero i Paesi che hanno conosciuto “la rivoluzione liberale e democratica” (148).
Todd sottolinea che in questi ultimi Paesi l’alfabetizzazione ha alimentato “un sentimento di uguaglianza quasi metafisico tra tutti i cittadini” (156). Da ciò, forse a causa di una intransigente predilezione per le narrazioni storiche di lunga durata, non ricava però una fondamentale conseguenza: che se l’istruzione non costituisce solo un motore di sviluppo economico, allora questo deve valere altresì per l’Occidente allargato. Altrimenti detto, se l’istruzione costituisce il terreno fertile per alimentare moti emancipatori, si relativizza di molto la distinzione tra i due Occidenti, se non altro in quanto resta inevitabilmente schiacciata su accadimenti che affondano le loro radici in un passato remoto, e che soprattutto si suppone continuino a produrre i loro effetti sostanzialmente inalterati nel tempo.
Di più. Todd sembra valorizzare l’uguaglianza esclusivamente come fondamento delle democrazie liberali e comunque come il prodotto di uno “Stato nazione” (155). Questa è peraltro l’uguaglianza in senso formale, a misura di costituzionalismo liberale appunto, mentre nel patrimonio dell’Occidente ben si può annoverare l’uguaglianza in senso sostanziale: quella che risponde alle aspettative di “avvicinamento delle condizioni sociali” (157). E che e implica un ricorso più o meno ampio a politiche redistributive così come richiesto dalla maggioranza della popolazione: proprio ciò che Spengler aveva ritenuto essere la causa del tramonto dell’Occidente e che invece costituisce la sua ragion d’essere.
L’uguaglianza sostanziale è quella a misura di costituzionalismo democratico e sociale, del quale costituisce forse il principale carattere fondativo nella sua essenza di reazione al fascismo. Sappiamo infatti che quest’ultimo ha azzerato le libertà politiche per riformare quelle economiche, e che lo ha fatto in linea con quanto contemplato dal neoliberalismo: affidare allo Stato il compito di operare come “severa polizia del mercato”, ovvero quale custode del corretto funzionamento del principio di concorrenza. Un custode impegnato cioè a polverizzare il potere economico al fine di condannare gli operatori del mercato a tenere i soli comportamenti consistenti in reazioni automatiche agli stimoli del mercato.
Si badi che il tutto non concerne solo le imprese, bensì anche e soprattutto i lavoratori. Questi invero, nel momento in cui si coalizzano e dunque si organizzano in sindacati, impongono per la loro prestazione un prezzo diverso da quello risultante dal libero incontro di domanda e offerta di lavoro. Di qui la valenza del principio di uguaglianza sostanziale, per il quale lo Stato deve occuparsi di mercato non tanto per consentirne il funzionamento, bensì per difendere la società dal suo funzionamento: finalità per la quale si misura con le concentrazioni di potere economico seguendo una ricetta opposta a quella di matrice neoliberale. L’uguaglianza sostanziale, infatti, è tale perché impone ai pubblici poteri di rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale alla sua realizzazione. E questo significa contrastare la debolezza sociale agevolando la costruzione di contropoteri con cui assicurare la partecipazione all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese.
Ritroviamo questo schema nella Costituzione italiana e in tutte le Costituzioni nate dalla sconfitta del fascismo, a prescindere da quando è avvenuta: alla conclusione del secondo conflitto mondiale o a metà anni Settanta. Fa eccezione la sola Germania, ma non per volontà dei tedeschi che anzi volevano fissare nella Carta fondamentale i principi del costituzionalismo democratico e sociale. Se alla fine non fu così, fu su imposizione degli Stati Uniti[7], ovvero di un Paese che Todd ascrive all’Occidente liberale ristretto. Dovrebbe allora avere a cuore l’emancipazione sociale e invece questa viene tenuta maggiormente in considerazione in un Paese dell’Occidente allargato: a riprova di come la distinzione non sia fondamentale per comprendere il tempo presente.
Popolo vs. élite e oligarchie liberali vs democrazie autoritarie
Ciò detto, appare evidente che la democrazia si trovi da tempo “in crisi terminale”, tanto che il constatarlo “è oramai un luogo comune e condiviso” (155). Se peraltro l’identificazione delle cause della crisi della democrazia raccoglie un consenso diffuso, così non è per l’analisi delle conseguenze. Su questo aspetto il volume di Todd offre una lettura forse semplificata ma incontestabile nelle sue linee di fondo: la crisi ha prodotto una drammatica frattura tra élite che “denunciano una deriva dei popoli verso le destre xenofobe” e popolo che rinfaccia loro di “voler sprofondare in un globalismo delirante” (156).
Speculare rispetto a questo modo di rappresentare la polarizzazione del dibattito pubblico è la contrapposizione tra democrazie liberali e autocrazie. Queste ultime sono stigmatizzate dalle élite quali ispiratrici delle idealità considerate la causa degli attuali orientamenti del popolo.
Ovviamente l’archetipo dell’autocrazia è attualmente la Russia, che a scanso di equivoci Todd qualifica anch’egli come democrazia autoritaria, e più precisamente come democrazia autoritaria violenta (19). La reputa comunque una democrazia, se non altro in quanto per un verso non protegge le minoranze, ma per un altro fa lo stesso con gli oligarchi. Diversamente da quanto realizzano invece le sedicenti democrazie liberale, che a rigore non possono ritenersi democrazie perché, se da un lato sono ossessionate dalla protezione delle minoranze, dall’altro lato si limitano a tutelarne effettivamente una sola: “quella dei ricchi”. Motivo per cui, se si pensa al conflitto tra Occidente e Russia, occorrerebbe descriverlo come contrasto tra democrazie autoritarie e “oligarchie liberali” (158). Con la precisazione che queste ultime sono tali perché “le classi più istruite si ritengono intrinsecamente superiori” e “le élite si rifiutano di rappresentare il popolo” (159).
Questa lettura, pur nella sua semplicità e anzi semplificazione, è convincente. Meno convincente è la denigrazione senza appello delle modalità con cui le élite conducono il loro scontro con il popolo: attraverso “l’isterizzazione dei problemi razziali o etnici e le chiacchiere inutili su temi seri quali l’ecologia, la condizione femminile e il riscaldamento globale” (160). Sicuramente non è questo l’intento di Todd, ma non si può negare che molti giudizi dello stesso tipo sono utilizzati non tanto per denunciare le retoriche delle élite, bensì per assecondare una sorta di rigetto di istanze di per sé legittime come quelle concernenti il riconoscimento. Più precisamente: va bene denunciare i casi in cui queste ultime istanze sono agitate come alibi per denigrare le aspettative di redistribuzione, ma le cose cambiano se divengono parte di una strategia volta a negare le ragioni del riconoscimento.
Lo stato zero della religione
Si diceva che per Todd una delle principali cause di declino dell’Occidente è lo “stato zero della religione”, e in particolare di quella protestante. In verità a essere problematizzata è la caduta del cristianesimo in quanto “matrice religiosa di ogni nostra successiva credenza collettiva” (161), la cui crisi ha aperto la strada a “credenze sostitutive”: tra queste lo “Stato nazione spesso ferocemente nazionalista” (162), sul quale viene dunque proiettata una luce molto diversa da quella della sua celebrazione in quanto terreno fertile per lo sviluppo di idealità democratiche.
Emerge a questo punto una riflessione problematica sul ruolo della religione, in ultima analisi presentata come prototipo di “credenza collettiva”, o meglio come fondamento di qualsiasi idealità sorta per contrapporsi all’arido individualismo: lo “stato zero della religione ha spazzato via il sentimento nazionale, l’etica del lavoro, il concetto di una morale sociale vincolante, la capacità di sacrificarsi per la comunità” (163). La religione viene invero considerata il fondamento ultimo di idealità le più disparate, come il socialismo e il comunismo in Francia, il laburismo e il conservatorismo nel Regno Unito, la socialdemocrazia e il nazismo in Germania. Il tutto messo in discussione e anzi oramai affossato dalla globalizzazione in quanto causa della dissoluzione dello Stato nazionale e della sua sostituzione con “società atomizzate” (163).
Che la globalizzazione metta in crisi le dinamiche collettive non può essere negato, almeno nella misura in cui essa costituisce un fenomeno alimentato dall’ortodossia neoliberale, in quanto tale volta come abbiamo detto a isolare l’individuo di fronte al mercato. Altra cosa però è denigrare la dimensione individuale in quanto tale, o peggio affermare che “l’individuo può essere grande solamente all’interno di e attraverso una comunità” (165). Se non altro perché il neoliberalismo è tutt’altro che individualista: mira in ultima analisi a sciogliere l’individuo nel mercato concorrenziale, ovvero a funzionalizzare i suoi comportamenti assecondandoli se alimentano il libero incontro di domanda e offerta e reprimendoli se invece contrastano una simile finalità.
Altrimenti detto, se dissociata dalla dimensione comunitaria la liberazione del soggetto non esprime una reale forza emancipatoria[8]. Tuttavia essa non è in quanto tale salvifica perché è comunitaria anche la dimensione cui rinvia l’ortodossia neoliberale. Allo stesso modo la dimensione individuale non è in quanto tale da denigrare perché contribuisce a mettere in luce le molteplici manifestazioni di questa ortodossia e quindi a contrastarla. In particolare consente di smascherare un utilizzo della religione a cui abbiamo fatto riferimento in apertura: come collante per un comunitarismo incentrato su identità violente ed escludenti, con le quali identificare i fronti di un conflitto tra culture o etnie e soprattutto oscurare quelli concernenti il conflitto redistributivo[9].
Da un simile punto di vista non possiamo certo parlare di uno stato zero della religione, che anzi viene sempre più strumentalizzata per tentare di ricostruire una identità occidentale a partire da posizioni non certo scontate. La religione potrebbe invero essere invocata per contrastare la centralità del mercato concorrenziale cui rinvia l’ortodossia neoliberale. Viene invece utilizzata per operazioni che non la mettono in discussione il pensiero unico e anzi contribuiscono a renderlo popolare presso coloro i quali sono da annoverare tra le vittime di quell’ortodossia: come in particolare le crociate contro l’aborto o la supposta islamizzazione della società, utilizzate ad arte per alzare la cortina fumogeno al riparo della quale far proliferare l’ortodossia neoliberale.
L’Europa unita come progetto atlantista
Todd non discute a ben vedere del declino dell’Occidente, bensì dell’esito finale di questo moto, ovvero della sconfitta dell’Occidente. Questa discende dal definitivo affossamento dei valori che un tempo ha incarnato, simboleggiato fra l’altro dalla “immoralità di fronte alla questione palestinese”, del resto insostenibile da ogni punto di vista: non ultimo da quello di un dispositivo di matrice occidentale come il diritto internazionale, concepito per punire crimini contro l’umanità e prevenire il genocidio e ciò nonostante reso inservibile come argine contro “l’opera di macelleria compiuta a Gaza dallo Stato di Israele” (12).
Soprattutto, la sconfitta dell’Occidente deriva dal conflitto esploso nel 2022 con l’invasione russa dell’Ucraina, le cu basi si devono però ricercare nelle conseguenze della implosione del blocco socialista: in particolare nella volontà della Nato di espandersi verso est e di Mosca di impedire a Kiev di assecondare questi propositi. Non si intende qui riflettere sulle ragioni delle parti del conflitto, bensì su un aspetto più circoscritto su cui anche Todd si sofferma diffusamente: la sua netta contrarietà agli interessi dell’Europa unita “scomparsa appresso alla Nato oggi più che mai asservita agli Stati Uniti” (168).
Non si tratta a ben vedere di una novità. L’Europa unita nasce del resto come progetto atlantista, dal momento che prende corpo prima della vicenda indicata come fondativa del progetto: il discorso tenuto da Robert Schuman il 9 maggio 1950 per promuovere la nascita della Comunità carbosiderurgica (Ceca). Inizia invero il suo percorso con il varo del Piano per la ripresa europea annunciato il 5 giugno 1947 dal Segretario di Stato Marshall per promuovere la ricostruzione del Vecchio continente devastato dalla guerra.
Il Piano Marshall venne concepito per serrare le fila dell’Occidente capitalista nella confrontazione con il blocco socialista, e per questo fu amministrato da un ente chiamato a far rinascere l’economia europea in modo coordinato: l’Organizzazione europea di cooperazione economica (poi trasformatasi nell’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economica). E questa operò secondo lo schema dell’assistenza condizionata: i finanziamenti erano riservati ai Paesi europei disposti a fornire come contropartita l’ancoraggio agli Stati Uniti e al sistema di valori da questi promosso[10].
L’atlantismo ha poi rappresentato il collante dell’unità europea negli anni della Guerra fredda, quando Bruxelles è servita per impedire scelte politiche nazionali incompatibili con l’adesione al credo capitalista. Anche e soprattutto quando quelle scelte si fondavano su valori costituzionali, che occorreva scardinare a qualsiasi costo: la prevalenza del diritto europeo sul diritto nazionale è servita per disinnescare il costituzionalismo democratico e sociale. Il tutto ottenuto ricorrendo al medesimo meccanismo varato con il Piano Marshall, ovvero fornendo assistenza finanziaria in cambio di riforme volte a sostenere il capitalismo e nel contempo a comprimere la democrazia[11]: a scardinare la combinazione tradizionalmente evocata dall’idea di Occidente.
Ancora. La dissoluzione del blocco sovietico è stata seguita dall’allargamento della Nato, ma anche da quello dell’Unione: a sottolineare la dipendenza dell’agenda di Bruxelles da quella di Washington. Nel 2004 aderirono infatti all’Europa unita l’Estonia, la Lettonia, la Lituania, la Polonia, la Repubblica Ceca, la Slovacchia e l’Ungheria, mentre tre anni dopo è stato il turno della Bulgaria e della Romania. Il tutto non a caso accompagnato da un’altra assistenza finanziaria condizionata: quella assicurata dalla Banca europea per la ricostruzione e lo sviluppo, appositamente creata per “promuovere l’iniziativa privata e l’attività imprenditoriale nei Paesi dell’Europa centro orientale che riconoscono e applicano i principi… dell’economia di mercato”[12].
L’Ucraina tra Nato e Unione europea
Non stupisce a questo punto se l’adesione alla Nato dell’Ucraina, come si intuisce controversa e non certo scontata come alcuni vorrebbero credere e far credere, ben potrà essere rimpiazzata dall’adesione all’Unione europea. Il Paese è ufficialmente candidato e i relativi negoziati sono ufficialmente iniziati con una conferenza intergovernativa a livello ministeriale tenutasi recentemente[13], accompagnati da dichiarazioni secondo cui si sarebbero bruciate le tappe.
Eppure in passato l’Ucraina aveva già chiesto di far parte dell’Unione, e si era risposto che l’eventuale conclusione positiva dell’iter di adesione avrebbe richiesto decenni. Per aderire occorre del resto soddisfare i cosiddetti criteri di Copenhagen[14], i quali rinviano a caratteristiche dell’ordine politico ed economico che l’Ucraina è ben lontana dal possedere a prescindere dalla drammatica situazione che sta vivendo. In particolare, anche prima della guerra non si poteva certo dire che vi fossero istituzioni stabili a garanzia della democrazia, dello Stato di diritto, dei diritti umani, del rispetto e della tutela delle minoranze: se non altro dal punto di vista delle minoranze dei territori attualmente sotto occupazione russa.
Sono poi noti i danni all’economia nazionale e alla tenuta democratica prodotti dall’adesione all’Unione europea di molti tra i suoi Paesi membri. La Grecia era molto più europea dell’Ucraina, ma questo non ha impedito a Bruxelles di sanzionare le sue resistenze all’ordine capitalista con la macelleria sociale. Qualcuno pensa davvero che per Kiev l’adesione possa invece tradursi in un beneficio: che la miseria politica ed economica a cui sono condannati Paesi ben più robusti sia risparmiata per motivi umanitari a un Paese fragile e instabile da tutti i punti di vista?
Se così stanno le cose, l’unico beneficio riconducibile all’adesione dell’Ucraina all’Europa unita riguarderà gli Stati Uniti, che potranno guadagnare un fedele alleato nella loro volontà di piegare l’Europa unita alle ragioni dell’atlantismo. Qualsiasi altra lettura finirebbe per far apparire il processo di adesione come una cinica pantomima.
Dal declino al suicidio dell’Europa
Il saggio di Todd offre una chiave di lettura di queste vicende che chiama in causa le attuali preoccupazioni degli Stati Uniti, i quali avrebbero ridimensionato le proprie mire egemoniche fino a farle coincidere con il proposito di “mantenere l’impero creato all’indomani della seconda guerra mondiale” (18). Il tutto con ripercussioni sul “sistema della Nato”, trasformato in “strumento di controllo sulle élite e sugli eserciti suoi vassalli” (19).
Da un simile punto di vista vengono analizzate le sanzioni alla Russia, che nella retorica impiegata per sostenerle dovevano piegare l’economia del Paese in tempi relativamente rapidi, salvo poi essersi rivelate un clamoroso boomerang per l’Europa. E soprattutto in una ghiotta occasione di arricchimenti per gli Stati Uniti, che oltre a trarre crescenti benefici dal commercio di armamenti, possono ottenere notevoli profitti dalla vendita di gas al Vecchio continente a un prezzo decisamente superiore rispetto a quello prima praticato da Mosca.
Particolarmente danneggiata è la Germania, ovvero il Paese europeo più atlantista e comunque vicino agli Stati Uniti. Questo non ha però impedito al Paese di assistere alla rapida e drammatica cancellazione di un fondamento del suo modello di crescita economica: l’accesso all’energia ai prezzi contenuti. Il tutto ottenuto con la distruzione dei gasdotti utilizzati per importare il gas russo (343), per la quale vi sono fondati sospetti di un diretto coinvolgimento dell’Ucraina, come sostenuto da Olanda e Germania, e di Washington, almeno stando ai risultati dell’inchiesta condotta da un autorevole giornalista[15]. E la fedeltà agli Stati Uniti ha finito per mettere in crisi un altro fondamento del modello di crescita economica tedesco: le esportazioni verso la Cina, indispensabili a tenere in vita un’economia fondata sull’esportazione a causa dell’impoverimento cui l’osservanza dell’ortodossia neoliberale ha condannato i lavoratori tedeschi.
La conclusione è di quelle che appare di primo acchito azzardata e che tuttavia a una più attenta riflessione possiede una certa suggestione. Todd osserva con una sintesi ineccepibile che il Trattato di Maastricht, complice la relativa “dissoluzione spontanea delle nazioni” (175), ha definitivamente trasformato l’Europa unita in una “macchina disfunzionale” (174): espressione fin troppo edulcorata per definire gli effetti deleteri che la moneta unica ha avuto su una costruzione inizialmente compatibile con un approccio keynesiano all’ordine economico, infine trasformata in un dispositivo neoliberale irriformabile e di successo[16]. Ebbene, la collocazione dell’Unione nel conflitto tra Russia e Ucraina “esprime la speranza inconfessabile che alla fine questa guerra infinita farà esplodere tutto” (174).
La previsione di una fine dell’Occidente, che pure trae fondamento dalla sua miseria, appare azzeccata tanto quanto la previsione della fine del capitalismo. Quest’ultima è stata più volte evocata[17], e tuttavia rinvia a eventi che realisticamente si verificheranno nel “lungo periodo”: quando, come diceva Keynes rispondendo a chi celebrava la capacita dei mercati di autoregolarsi, saremo “tutti morti”[18]. Diverso è però il discorso ove riferito all’Europa unita: se l’Occidente ha i secoli contati, è plausibile che per quest’ultima i tempi dell’implosione siano decisamente più contenuti. Sarà probabilmente un salto nel buio, preferibile però alla certezza di condurre una esistenza i cui ritmi sono inevitabilmente e irrimediabilmente scanditi dal modo neoliberale di concepire lo stare insieme come società.
[1] O. Spengler, Il tramonto dell’Occidente (1918-1922), Milano, 2008.
[2] Per tutti C. Bordoni (a cura di), Il declino dell’Occidente revisited, Milano, 2018.
[3] K. Polanyi, La grande trasformazione. Le origini economiche e politiche della nostra epoca (1944), Torino, 1974.
[4] Da ultimo M. Cangiano, Guerre culturali e neoliberismo, Milano, 2021.
[5] E. Todd, La sconfitta dell’Occidente, Roma, 2024. I numeri fra parentesi nel testo si riferiscono alle pagine di questo saggio.
[6] M. Weber, L’etica protestante e lo spirito del capitalismo (1905), Milano, 1991.
[7] A. Somma, La dittatura dello spread. Germania Europa e crisi del debito, Roma, 2014.
[8] N. Preterossi, La condizione amletica dell’Occidente (8 gennaio 2025), www.lafionda.org/2025/01/08/la-condizione-amletica-delloccidente.
[9] Similmente G. Filippetta, La Repubblica senza Stato. L’esilio della Costituzione e le origini della strategia della tensione, Milano, 2024 denuncia un tradizionale utilizzo della religione per disinnescare i valori fondativi della Costituzione italiana.
[10] F. Salmoni, Piano Marshall, Recovery fund e il containment americano verso la Cina. Condizionalità,
debito e potere, in Costituzionalismo.it, 2021, 2, p. 52 ss. (www.costituzionalismo.it/wp-content/uploads/2-Fasc-3.-Salmoni.pdf).
[11] A. Somma, Il mercato delle riforme. Come l’Europa è divenuta un dispositivo neoliberale irriformabile, in E. Mostacci e A. Somma (a cura di), Dopo le crisi. Dialoghi sul futuro dell’Europa, Roma, 2021, p. 229 ss.
[12] Art. 1 Accordo istitutivo della Banca del 29 maggio 1990.
[13] Conference on accession to the European Union – Ukraine – General Eu position (21 gennaio 2024), www.consilium.europa.eu/media/hzmfw1ji/public-ad00009en24.pdf
[14] Così chiamati perché decisi in occasione del Consiglio europeo tenutosi il 21 e 22 giugno 1993 nella capitale danese e codificati nelle Conclusioni della Presidenza, Allegato II (www.consilium.europa.eu/media/21223/72929.pdf).
[15] Cfr. E. Midolo, Us bombed Nord Stream gas pipelines, claims investigative journalist Seymour Hersh (8 febbraio 2023), www.thetimes.com/article/us-bombed-nord-stream-gas-pipelines-claims-investigative-journalist-seymour-hersh-s730dnnfz
[16] A. Somma, L’Unione europea non è un progetto incompleto e neppure riformabile: è un dispositivo neoliberale di successo, in Ragion pratica, 2023, p. 161 ss.
[17] Cfr. ad es. la rassegna di G. Sivini, La fine del capitalismo. Dieci scenari, Trieste, 2016.
[18] J.M. Keynes, A Tract on Monetary Reform, London, 1923, p. 80.
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