La Libia chiude i rubinetti: la resistenza che l’Italia ignora

20 Aprile 2022 13:00 Michelangelo Severgnini

“Nuovo mal di testa per Biden e Borrell. Dal sud all'est della Libia, i notabili della tribù e i lavoratori del settore petrolifero hanno chiuso i più grandi impianti petroliferi come protesta contro la frode di Dabaiba, la corruzione e l'uso dei proventi del petrolio secondo i suoi accordi e la sua volontà. I manifestanti hanno detto che i pozzi di petrolio rimarranno chiuse fino a quando Dabaiba rimarrà attaccato al potere. Il capo della Oil Corporation Sanalla estende la chiusura alla raffineria di Mellitah fino al prossimo mese (cattive notizie per l'italiana ENI). Quindi, Biden e l'UE non possono contare sul gas e sul petrolio libico, almeno per i prossimi anni. Se pensate di poter risolvere il problema mettendo al potere un nuovo premier per la Libia scelto da voi, sarebbe un grosso errore da parte vostra: non vedrete una sola goccia di petrolio”.

Non le manda a dire un nostro contatto libico a Tripoli.

Questo è quanto.

Ma che sta succedendo in Libia?

LE MILIZIE DI MISURATA SI STANNO ANNOIANDO

Come raccontato in precedenza (https://www.lantidiplomatico.it/dettnews-sorpresa_amara_per_la_nato_i_libici_hanno_fatto_la_pace_e_bashagha_il_premier/41939_45126/), il 10 febbraio scorso, Fathi Bashagha aveva ricevuto la fiducia dal parlamento libico.

In seguito alle mancate elezioni presidenziali dello scorso dicembre, cancellate su pressioni internazionali per negare a Saif Gheddafi quella maggioranza di consensi che lo avrebbe proclamato presidente della Libia, il parlamento libico si è orientato alla fiducia verso un nuovo premier, per gestire la fase di transizione.

Il voto di fiducia a Bashagha è giunto al termine di un cambio di paradigma storico in Libia, quando lo scorso dicembre l’attuale premier si è recato a Bengasi per stringere la mano al Feldmaresciallo Khalifa Haftar riconoscendo simbolicamente non solo l’autorità del parlamento (del resto unico organo eletto dal popolo in Libia in questo momento, votate nelle elezioni del lontano 2014), sia quella dell’Esercito Nazionale Libico (istituito con voto dello stesso parlamento nel maggio 2015) di cui Haftar è al comando.

Così, due mesi più tardi, è arrivato il voto di fiducia per l’uomo di Misurata, colonna portante della Fratellanza Musulmana in Libia, quella stessa Fratellanza che Haftar aveva dichiarato di voler mettere fuori legge alla vigilia della campagna militare lanciata nell’aprile del 2019. Per dire, quanto impensabile fosse questo avvicinamento.

Ma se Bashagha si è messo d’accordo con Bengasi, la coperta è rimasta corta a Tripoli. Infatti gli Stati Uniti da un lato, attraverso la propria ambasciata e l’influenza che esercitano sulla missione in Libia delle Nazioni Unite, e l’Unione Europea dall’altro, hanno più volte ribadito di continuare a riconoscere premier Abdelhamid Dabaiba, il premier uscente, quello che doveva portare il paese alle elezioni di dicembre, poi cancellate.

E così da diverse settimane Bashagha e il suo nuovo governo attendono di sapere quando Dabaiba intende lasciare le proprie stanze e quando sarà loro concesso di entrare a Tripoli.

Esattamente: entrare a Tripoli. Perché, per come stanno messe le cose, a Bashagha e ai propri ministri viene militarmente impedito l’accesso a Tripoli.

Posto che nessuno in Libia si augura una ripresa del conflitto, Bashagha può contare ragionevolmente sull’appoggio di un fronte militare ampio che oltre alle milizie di Misurata include l’Esercito Nazionale Libico di Haftar. A difendere Tripoli sono rimaste solo poche milizie e laddove non arriva la volontà dei miliziani arrivano i lauti compensi che il premier uscente Dabaiba sta elargendo alle ultime milizie rimaste fedeli per assicurarsi la loro protezione e la libertà di movimento almeno a Tripoli e sulla costa a ovest della capitale.

Bashagha attende luce verde da settimane. I suoi uomini si stanno annoiando. C’è volontà di risolvere la situazione e dare finalmente avvio al nuovo corso. Ormai tutto è deciso. Ma la luce verde ancora non arriva.

Innanzi tutto: da chi dovrebbe arrivare? Dalla Turchia. Perché non arriva? Perché incassato il sostegno dell’Esercito Nazionale di Haftar, l’uomo della Turchia in Libia sta sperimentando nuove geometrie che a livello internazionale sarebbero devastanti: la Turchia ha in campo in Libia in questo momento un pre-accordo con la Russia sul futuro del Paese nordafricano.

Per la Turchia questo accordo significa mettere le mani sulla Libia in maniera profonda e duratura.

Ma questo accordo non piace agli Stati Uniti e all’Europa.

E allora la Turchia prende tempo. Le milizie di Bashagha si annoiano alla periferia di Tripoli, spazzate dalle tempeste di sabbia che hanno investito la città ultimamente.

E nel frattempo la diplomazia turca, che vuole botte piena e moglie ubriaca, cerca il modo per insediare Bashagha a Tripoli pacificamente, per evitare non solo i malumori, ma in un prossimo futuro chissà, magari anche la rottura dei rapporti con la linea Biden in Libia.

In attesa che a livello internazionale le cose siano un po’ più chiare quindi, la Libia attende di sapere il proprio futuro.

I POZZI VENGONO CHIUSI, IL PAESE E’ PRONTO A INSORGERE

Ma mentre Bashagha attende la luce verde dalla Turchia e i le sue milizie si riparano dalle tempeste del deserto, in Libia c’è qualcuno che ha deciso di non restare a guardare.

La fine delle ostilità tra l’Esercito Nazionale Libico e le milizie di Tripoli si raggiunse nell’ottobre del 2020, quando venne siglato l'accordo Maitiq-Haftar sulla ripresa della produzione di petrolio che garantiva che le entrate non sarebbero state abusate dalla Banca Centrale Libica di Siddik al-Kabir. L’apertura di un conto di garanzia era una richiesta chiave dell'LNA e delle autorità orientali e l'insistenza che le entrate fossero equamente ripartite tra le tre regioni della Libia (Cirenaica, Tripolitania, Fezzan).

Il fatto che il premier uscente Dabaiba non voglia oggi abbandonare la sua posizione a Tripoli è legato a questa storia. Dabaiba non difende soltanto gli interessi della NATO e dell’UE, ma è l’ultimo bastione a difesa di Siddik al-Kabir, l’uomo che presiede la Banca Centrale Libica, la diligenza, insomma.

Le mosse di Kabir dietro le quinte minano costantemente la creazione di processi finanziari che possano fermare l'abuso dei proventi del petrolio da parte delle mie milizie e di altri soggetti allineati a Tripoli e alla lunga vanificano la ripartizione dei proventi del petrolio libico tra i vari soggetti del Paese.

Insomma, è la solita storia del petrolio trafugato dalla milizie di Tripoli e rivenduto a Europa e Turchia (40% ogni anno, secondo le denunce dei Libici).

E così domenica scorsa, la National Oil Corporation (NOC) della Libia ha dichiarato la forza maggiore sulle esportazioni di greggio a Mellitah dopo che i manifestanti hanno preso d'assalto il campo petrolifero El Feel e hanno impedito ai lavoratori di continuare la produzione.

La NOC ha denunciato tentativi di chiusura arbitraria dopo che un gruppo ha impedito ai lavoratori di lavorare sabato sera.

"La produzione si è fermata completamente domenica 17 aprile 2022, il che ha reso impossibile l'attuazione dei suoi obblighi contrattuali", ha aggiunto la NOC.

In particolare, i manifestanti libici hanno annunciato la chiusura del campo petrolifero El Feel e la sospensione della produzione e dell'esportazione di petrolio dal porto petrolifero di Zueitina.

In due dichiarazioni registrate, i manifestanti a Zueitina nel nord e a Ubari nel sud-ovest hanno accusato il governo di unità nazionale guidato da Abdelhamid Dabaiba di corrompere la scena politica in Libia e accendere la guerra e la divisione.

I manifestanti hanno affermato il loro sostegno alla stabilità politica e al governo libico guidato da Fathi Bashagha.

Hanno chiesto un'equa distribuzione dei proventi del petrolio a tutte le regioni libiche. Hanno inoltre chiesto la cessazione delle interferenze esterne negative e il rispetto della sovranità della Libia.

I manifestanti hanno chiesto il licenziamento del presidente della NOC, Mustafa Sanalla, e di fornire alla NOC il budget necessario per aumentare i tassi di produzione.

Sanalla infatti è stato accusato di aver commesso il crimine di dirottare i proventi del petrolio al governo di Dabaiba, in violazione delle decisioni della Camera dei Rappresentanti (HoR), il parlamento libico.

Il membro del Consiglio supremo della regione del bacino petrolifero, Salah Bumatary, in una dichiarazione al sito web "Independent Arabia" ha affermato: "La decisione di chiudere i pozzi è popolare e patriottica nel suo obiettivo; tuttavia siamo sostenitori dell'operazione dell'esercito a Tripoli, ma l'esercito non ha interferito nella nostra decisione”.

Ha poi concluso: "La mossa mira a liberare le istituzioni statali dalle lobby della corruzione e dalle bande di credito che finanziano le milizie e i gruppi terroristici”.

E per l’Italia, così come per l’UE, in Libia è notte fonda.

L’ostinazione atlantica del ministro Guerini e del ministro Di Maio ci hanno portati a essere le seconde file dello schieramento perdente in questo momento.

Ma non c’è una voce una in tutta Italia che sappia levarsi in questo frangente e affermare che gli interessi dell’Italia in Libia non stanno con la NATO. Se ci fosse ancora Enrico Mattei non ci sarebbe bisogno di ricordarlo. Qualcuno la lezione di Mattei potrebbe averla imparata, ma è probabilmente così ignorante circa la Libia, che l’inazione diventa alla fine il rifugio di chi non sa dove mettere le mani.

Intanto i pozzi per ora sono chiusi. E se dovessero aprire un giorno presto, la Turchia potrebbe decidere di forzare la mano, usare la forza per consentire a Bashagha di insediarsi a Tripoli, marcare una distanza con la NATO, offrire un’ulteriore sponda alla Russia e affermarsi come potenza incontrastata nel Mediterraneo.

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