“Io capitano”, il film di Garrone, è un falso storico

di Michelangelo Severgnini


“L'Oscar si vince con la bandiera a stelle e strisce, cambiando la realtà”.

Parafrasando la celebre frase di Mario Monicelli, potremmo dire: “Il Leone d’oro si vince con la bandiera blu stellata, cambiando la realtà”.

E che valga a questo punto di buon auspicio per la vittoria del Leone d’Oro per il film “Io Capitano” diretto da Matteo Garrone, se non altro.

In estrema sintesi questo lavoro è un falso storico, perché, ispirandosi alla realtà, la stravolge e soprattutto ne occulta i significati e i nessi reali che le danno forma e la riformula all’interno di una narrazione fiabesca, per altro ampiamente in voga già da un paio di decenni, che non è nemmeno edulcorazione: è puro depistaggio delle coscienze. A che pro? Al fine di lasciare tutto così com’è, per il compiacimento e la soddisfazione di Mamma Europa.

Non sono nemmeno in grado di dare un giudizio estetico al film, perché non c’è corrispondenza tra scelte artistiche e significati espressi. Pertanto lo sfoggio estetico tutt’al più è un esercizio pirotecnico. L’arte è un’altra cosa.

Non sono nemmeno in grado di immaginare la reazione che provoca nello spettatore medio. I pochi spettatori presenti in sala del resto non mi hanno aiutato in questo: muti dall’inizio alla fine non mi sembra abbiano lasciato la sala delusi, ma nemmeno entusiasti.

Durante tutto il film appaiono qua e là spaccati realistici (segno che almeno qualcuno tra gli sceneggiatori ha fatto lo sforzo per informarsi), alternati a momenti verosimili per quanto improbabili e a lacune clamorose, personaggi della storia vera che nella storia finta non ci sono, spariti, come per effetto di un gioco di prestigio.

Il primo gioco di prestigio sta nelle righe di presentazione: “un’odissea contemporanea”. No, signori, l’Odissea racconta di come Ulisse dopo tante peripezie faccia ritorno a Itaca, la sua patria. L’Odissea quindi è tutta un’altra storia.

Ad ogni modo, sin dai primi minuti mi ha dato fastidio riscontrare come la storia fosse raccontata attraverso le tecniche narrative tipiche di una racconto costruito intorno alla figura dell’eroe, come da manuale del provetto sceneggiatore.

Compare subito la missione: raggiungere l’Europa. Compaiono subito i (numerosi) guardiani della soglia (la madre che gli proibisce di partire, il migrante di ritorno che gli sconsiglia di partire). Ma lui, il ragazzino senegalese del film, Seydou, siccome è un eroe, non si lascia condizionare e si lancia nell’avventura.

Se queste tecniche andavano bene per l’Edipo di Sofocle, o persino per l’Orlando dell’Ariosto, o chessò, per un Rocky Balboa, francamente applicate ad un ragazzino minorenne che nella realtà non è un eroe ma una vittima, rappresenta una scelta di cattivo gusto che mi ha messo di traverso il film sin dall’inizio. E’ pornografia fatta su un minorenne.

E infatti, perché lo spettatore si affezioni a considerare il protagonista del film come un eroe, ecco che il primo grande personaggio della storia reale viene omesso dalla storia finta: l’adescatore.

I ragazzini non sono adescati nel film, al contrario, tutti provano a fermarli, ma loro testardi.

Nell’unica scena in cui i ragazzini scrollano un cellulare in Senegal, per esempio, è per vedere i video e le notizie sull’Italia, come a dire: con un Paese così bello, è normale che tutto il mondo rischi la pelle per raggiungerci!

Il trafficante lo devono andare a cercare come fosse peggio di uno spacciatore: è una persona che si nasconde, che lavora in incognito, raggiunto fisicamente attraverso un passaparola.

Il trafficante non è un adescatore nel film, è un facilitatore, un complice, un alleato da scovare.

Tutto falso.

L’adescatore africano è il perno su cui è stato costruito il fenomeno della migrazione ed è raggiungibile facilmente su internet dagli sventurati, su pagine social appositamente dedicate e impunite.

E’ inverosimile quando al momento della partenza il trafficante senegalese augura buon viaggio e soprattutto dice: “mandatemi i saluti quando sarete in Europa”.

L’adescatore nella storia reale è in combutta con le milizie libiche. E’ lui che va a cercare i ragazzini, perché convincere un ragazzino a raggiungere la Libia è suo interesse, perché anche lui prenderà una parte dei soldi estorti dai Libici. Come? Andandoli a ritirare a mano dalla famiglia del ragazzo partito quando questi sarà sotto i ferri della tortura in Libia.

Però, se nel film esistesse il personaggio dell’adescatore e il nostro protagonista si facesse adescare, allora non sarebbe più un eroe. Sarebbe una vittima, un illuso caduto nella trappola.

Ma niente. Per noi Europei la “tratta di esseri umani”, quando se ne parla, è un servizio al viaggiatore, non una trappola ordita dalle mafie per adescare ragazzini e renderli schiavi.

Si giunge quindi in Libia. Il ragazzino si vede preso da alcuni soldati e portato in una prigione. La prigione però è un edificio governativo, quando al contrario si tratta di enormi capannoni dove i migranti sono stipati tutti insieme come polli d’allevamento. Il kapò senegalese, l’adulto africano che collabora con le milizie libiche per mediare linguisticamente con i ragazzi, confida loro che quelle non sono milizie, non è il governo, è una mafia generica.

E quindi come possono essere in un edificio governativo? Ma tralasciamo le contraddizioni di scrittura, che sono l’ultimo dei problemi. Evidentemente in questa scena si è palesata l’esigenza di non offendere il cosiddetto governo di Tripoli, che sono amici nostri. Loro escono puliti da questa scena, come dal resto del film.

Ne escono puliti perché sono un altro personaggio mancante nella storia finta.

Per non parlare delle legittime autorità libiche e del parlamento di Bengasi: niente virgola niente.

Che dal 2014 la democrazia in Libia sia esautorata e usurpata da un governo criminale e illegittimo nel film non si dice. Ma è il minimo. Questa storia non sta nemmeno sui giornali italiani.

Arriva il momento della tortura. Il kapò senegalese chiede chi ha “il numero”, il numero di telefono per chiamare la famiglia e farsi mandare i soldi del riscatto. Chi ce l’ha da una parte, chi non ce l’ha dall’altra. Ma questa non è la dinamica raccontata dai migranti-schiavi in Libia.

Numeri di telefono innanzi tutto non ce ne sono. Ormai ci si comunica attraverso internet. Chiamate internazionali ancora meno. Si comunica attraverso Facebook o Whatsapp. Basta requisire il telefono dei ragazzi e si risale ai contatti. E li si chiama d’ufficio. La tortura avviene a prescindere.

Ma lui è un eroe e quindi affronta la tortura perché rifiuta di comunicare il numero di telefono della madre.

Questa scena del tutto inverosimile stravolge il senso della vicenda, perché la tortura non serve per procurarsi il numero dei famigliari del ragazzo, ma per indurre gli stessi famigliari a consegnare i soldi del riscatto al più presto.

Alla fine si arriva a Tripoli. Il ragazzino si mette a lavorare su un cantiere edile (con il casco protettivo in testa!!!), fa il muratore e riesce a mettere da parte i soldi per imbarcarsi.

Ma nessuno produce reddito a Tripoli! Chi lavora lo fa in stato di semi-schiavitù, non si racimolano che spiccioli. Chi riesce a pagare ancora un altro trafficante per la traversata è chi ha a casa una famiglia in grado di inviare altri soldi. Gli altri restano a terra, in trappola: 600.000 migranti-schiavi bloccati da anni!!!

Inoltre imbarcarsi clandestinamente dalla Libia non è cosa che si può decidere oggi e partire domani. I dati ci dicono che 1 ogni 20 migranti presenti in Tripolitania ogni anno raggiunge l’Italia. Questa percezione della Libia paese di transito è fasulla. La Libia è per quasi tutti ormai paese di destinazione, nel senso che il viaggio finisce lì, in trappola, manodopera gratuita per le milizie di Tripoli fino a data ignota.

E quei pochi che riescono a raggiungere l’Italia lo fanno dopo anni.

Ad ogni modo, si parte.

L’imbarcazione è un classico peschereccio a fine carriera. Ma da una decina d’anni, da quando le milizie hanno preso il controllo della Tripolitania e da quando le Ong sono attive in mare, si parte quasi sempre con gommone sgonfio. Il gommone sgonfio non è in grado di raggiungere l’Italia da solo. Si affloscia e va a fondo dopo poche ore. Pertanto non un eroe, ma un folle si imbarcherebbe senza aver avuto dal trafficante l’assicurazione di trovare una nave delle Ong ad attenderli.

Ma in questo caso, inverosimile ma non impossibile, l’imbarcazione è un un peschereccio.

Ad un certo punto, nell’oscurità della notte in mare aperto, un momento di verità del film. Appaiono delle luci all’orizzonte, scambiate all’inizio erroneamente per l’Italia (effettivamente questa esperienza capita a diversi che provano la traversata dalla Libia). Ma non è l’Italia. Sono le luci delle piattaforme offshore di gas e petrolio. Sono diverse, disseminate nel mare davanti a Tripoli. Anche gli 8 miliardi portati dalla Meloni a Tripoli lo scorso gennaio sono per aprirne un’altra. Verosimilmente nel film si tratta della piattaforma di “Bouri Field”, gestita al 50% da Eni e 50% dal Noc, la società di Stato libica.

Attenzione: forse che il film voglia alludere alla connessione tra migrazione e petrolio? Macché. L’imbarcazione con i migranti sfila al lato della piattaforma in una sensazionale sequenza che però non dice quello che dovrebbe.

Anzi, già che ci siamo, diciamola tutta. La famigerata e cosiddetta guardia costiera libica finanziata e addestrata dall’Italia, è soltanto la guardia costiera di Tripoli, quella che risponde a un governo non eletto e criminale.

In Italia però si omette sempre di raccontare che come la addestriamo noi, la addestrano anche i Turchi, i Francesi, gli Inglesi, a volte persino i Tedeschi. Perché quella guardia costiera non è lì per fermare i migranti, ma per controllare e garantire il passaggio illegale di petrolio libico. Ecco perché tutti i governi la finanziano e la equipaggiano.

Ci siamo. L’Italia è vicina. Si lanciano le richieste di soccorso attraverso il telefono satellitare fornito dal trafficante, ma nessuno risponde. E qui tutti a pensare: “ah, se ci fossero le Ong a salvarli”. Un momento. Ma anche le Ong sono personaggio assente nella storia finta.

Così come il gommone sgonfio: assente. Perché le partenze con i gommoni sgonfi sono al 50% concordate con le Ong e il 50% concordate con la guardia costiera libica che li va a prendere per riportarli terra, torturarli ed estorcere altro denaro (consegnato sempre a mano dalla famiglia alla mafia locale nel paese di partenza).

Finalmente compare terra all’orizzonte. Un elicottero delle autorità italiane sorvola l’imbarcazione, l’euforia scoppia sui volti dei migranti. In primo piano c’è lui, Seydou: il nostro eroe ce l’ha fatta.

Scoppia in un urlo, gridando “Io capitano”. A parte che gli stessi trafficanti per primi avvisano i ragazzi che appena vedono gli “Italiani” devono buttare a mare la bussola e nessuno deve farsi vedere al timone altrimenti una legge assurda condanna a diversi anni di carcere chi semplicemente si trova con le mani sul timone pur essendo un migrante come tutti gli altri. Ma no, lui invece, il nostro ragazzino, rivendica di essere il capitano: del tutto inverosimile!

Però è stupendo come l’ultima scena di questo film si concluda con un urlo, esattamente come nel film “L’Urlo”. In effetti le due inquadrature finali sono simili. Primo piano sull’urlante e sfondo di deserto per “L’Urlo” e sfondo di mare per “Io capitano”.

Ma l’analogia finisce qui. Perché sono due urli completamente diversi.

L’urlo de “L’Urlo” è l’urlo di ripudio di un occidentale nel momento in cui, al termine del film, si rende conto del meccanismo di manipolazione e di condizionamento di massa che ha dirottato la coscienza di un intero continente a suon di falsità.

L’urlo di “Io capitano” è un urlo di guerra, un urlo di vittoria, un urlo di estasi.

E’ l’urlo del dipendente da eroina nel momento in cui la sostanza divampa nel vene. E l’urlo della vittima che ancora non si è accorta della trappola in cui si è messa da sola. E’ l’urlo dello schiavo che una volta messosi alla guida della nave negriera che lo sta portando nel luogo di schiavitù non ha altra possibilità se non credere che quella sarà la sua salvezza.

E’ un urlo di gioia che presto, come direbbe Collodi, si trasforma in raglio. Sono tutti partiti cercando il paese dei balocchi e presto si risveglieranno schiavi.

Eroi pertanto non sono coloro che raggiungono l’Italia. Eroi sono coloro che si sono accorti dell’inganno, che sono tornati a casa, che come Oyiza Hope denunciano gli adescatori (assenti nel film), che combattono le mafie dei propri paesi che sono in combutta con le milizie di Tripoli alle quali assicurano sempre ragazzini freschi.

Loro, i migranti di ritorno, sono i veri eroi della storia vera, ma anche loro sono assenti dalla storia finta.

E così, sforbiciando tutti i personaggi scomodi e aggiungendo un po’ di fantasia e belle inquadrature (musica mediocre però), ecco confezionato un film accomodante, una bella narrazione fiabesca, un inno alla supremazia bianca ed europea.

Gli ingredienti giusti per vincere il Festival di Venezia.

Mentre per la storia vera, quella raccontata ne “L’Urlo”, il premio è la censura.

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