di Michelangelo Severgnini
In questi giorni, 20 anni fa esatti, mi trovavo a Baghdad. Un contatto all’interno dell’ong “Terres des hommes”, mi aveva permesso di usufruire della loro missione come base d’appoggio per recarmi in loco e fare un cosa antica, quanto semplice: raccogliere le opinioni dei locali.
In quei mesi l’allora ministro degli Esteri italiano, Franco Frattini, centro-destra, andava affermando che l’Italia mandava truppe in Iraq perché ce lo chiedevano gli Iracheni, per proteggerli dai tentativi del vecchio regime di riprendere il potere.
Però, chi li aveva mai sentiti parlare gli Iracheni? Non c’erano i social ancora. Internet era ad uso di pochi. E i ministri occidentali avevano buon gioco a riportare notizie dal campo non vere.
Quando mi si presentò l’occasione di andare fisicamente a Baghdad, non ci pensai due volte. Volevo sapere dagli Iracheni stessi, se desiderassero la presenza di truppe straniere sul loro territorio e se fossero contenti della caduta di Saddam Hussein.
Ne parlo oggi, perché sono 20 anni tondi tondi da quei giorni. E perché sento sia giunto il momento di ripercorrere quella stagione.
BAGHDAD, UNA CITTA’ CHIAMATA INFERNO
Nel luglio 2004 Baghdad era un inferno. Non solo per gli oltre 50 gradi che si raggiungevano di giorno. L’invasione degli americani e della “coalizione dei volenterosi” era avvenuta già da più di un anno ormai.
Dopo le prime fasi confuse, seguite ad una rapida capitolazione delle forze militari irachene nella primavera 2003, nell’aprile 2004 era avvenuto qualcosa che aveva per sempre cambiato la faccia al conflitto. C’era stato l’assedio di Fallujah.
Una città profondamente religiosa, a maggioranza sunnita, molto legata al precedente regime, chiede agli americani di non entrare in città, perché e forze di polizia locali sarebbero state in grado di garantire l’ordine. Viceversa, avrebbero considerato la presenza delle truppe americane come un’occupazione.
Durante una manifestazione di cittadini iracheni, gli americani avevano aperto il fuoco, provocando la morte di centinaia di persone.
Fu un punto di non ritorno.
Da quel giorno si scatenò il caos.
Ogni cittadino occidentale era sotto tiro, che fosse un giornalista, un operatore umanitario o un mercenario. Non da parte dei cittadini iracheni, sempre ospitali. Da parte dei servizi di sicurezza di chissà chi. Con il passaporto di un cittadino occidentale in Iraq in quei mesi si facevano bei soldi.
Si chiedevano riscatti. Qualcuno fu decapitato.
Di contro, a Baghdad ormai non passava giorno senza che almeno un’autobomba non scoppiasse. Autori ignoti. Ma gli Iracheni morivano come mosche.
MIMETIZZARSI TRA GLI IRACHENI
In questo contesto arrivai a Baghdad, deciso a confondermi tra gli Iracheni come unica strategia per difendere la mia incolumità.
E non fu una cattiva idea. Niente body-guard, niente caschi e pettorine, niente alberghi occidentali. Niente che potesse attirare l’attenzione su di me. Attraverso la missione di “Terres des hommes” potevo contare su una bella cerchia di persone locali di fiducia, altre ne conobbi una volta lì sul posto.
E così cominciai a girare per Baghdad come se nulla fosse, per incontrare personaggi iracheni di diversa estrazione politica, religiosa, etnica. Non di rado, protetto dalla squadra di lavoro da cui ero attorniato, fatta di cittadini iracheni, mi ero permesso anche di intervistare gente comune in mezzo alla strada.
La strategia era questa: il cameraman per definizione è l’unico che comunque sta muto e non ha bisogno di parlare. Così la gente pensava fossi anch’io un iracheno, perché noi ci presentavamo come una troupe dell’università di Baghdad.
Tutto questo materiale è raccolto nel documentario “…e il Tigri placido scorre - istantanee dalla Baghdad occupata” (2004, 70’): https://www.youtube.com/watch?
OCCUPAZIONE: UNA PAROLA IMPARATA A BAGHDAD
Non ero lì per fare scoop, per rischiare la pelle, per avere qualcosa di scottante da rivendere una volta a casa, per far arrivare il mio nome sulle prime pagine dei giornali a seguito di un rapimento.
Come detto, ero lì per incontrare gli Iracheni e farmi raccontare la situazione da loro.
Io esco da quella scuola: il citizen journalism. E’ importante denunciare i crimini, com’è riuscito a fare Julian Assange anni dopo.
Ma non meno importante è incontrare la gente, raccogliere la loro visione sul campo, i loro bisogni, le loro denunce.
Fare una fotografia in movimento di quei mesi, partendo dal punto di vista degli Iracheni, mi pareva una cosa non secondaria.
Andò a finire che in quelle settimane imparai una nuova parola araba: , al-aihtilal, occupazione.
L’hanno ripetuta tutti coloro con cui ho parlato: imam sunniti e sciiti, cristiani, gente di strada e personaggi con incarichi pubblici, giovani come persone mature.
A furia di sentire questa parola, l’ho imparata, dal tanto che era presente nei loro discorsi.
Questa era la risposta che cercavo. Gli Iracheni vedevano la presenza militare straniera come un’occupazione, come un’azione di forza sopra le loro teste.
Non era scontato. Ne derivava che i martiri di Nassiriyah non fossero martiri. E allora, come oggi, non si poteva dire.
Non si poteva dire che la responsabilità della loro morte è a carico dei politici e dei generali italiani che li hanno mandati a occupare un altro paese. Non si poteva dire che chi ha compiuto quella strage l’ha fatto per resistenza e non per terrorismo.
Allora, come oggi, non si poteva dire.
Proprio come oggi non si può dire che l’attacco del 7 ottobre a Israele sia stato un atto di resistenza.
Non si può dire.
UNA DISTRIBUZIONE IN GRANDE STILE (CHE POI SALTO’)
Quando tornai in Italia questo materiale suscitò subito molto interesse. Nelle settimane successive fu rapita a Baghdad la giornalista del Manifesto, Giuliana Sgrena, la cui liberazione ha comportato l’uccisione del dirigente del Sismi, Nicola Calipari.
Qualche settimana più tardi furono rapite altre due operatrici italiane, poi liberate.
Fu rapito e ucciso invece il giornalista Enzo Baldoni.
Insomma, non solo avevo portato a casa la pelle, ma con me c’era anche del materiale interessante.
Quello fu anche di fatto il primo documentario da me realizzato con strumentazione professionale. Insomma, c’era interesse.
Nei mesi successivi al mio ritorno, una volta montato in tempi brevi il documentario, ancor prima di uscire, era già finito sulla scrivania di molte persone.
Si stava parlando ormai apertamente di un’uscita nelle edicole in concerto tra il Manifesto, Carta, L’Unità e Liberazione.
Tutti e 4 i direttori di queste testate avevano già visto il documentario e si erano dichiarate interessate ad una distribuzione congiunta.
Pierluigi Sullo, allora direttore del settimanale Carta (che aveva già pubblicato il mio primo documentario l’anno precedente, “Il ritorno degli Aarch - i villaggi della Cabilia scuotono l’Algeria”), scrisse un editoriale in cui già preannunciava il fatto e raccontava ai lettori i punti salienti del lavoro, ovviamente entusiasta di quel materiale.
LA CHIAMATA
Qualche giorno più tardi ricevetti una chiamata da “Terres des hommes”, la Ong che mi aveva concesso supporto logistico a Baghdad e che in qualche modo risultava come co-produttrice del lavoro.
Mi recai nel loro ufficio di Milano e il discorso che mi fecero, nell’autunno 2004, fu più o meno questo.
“Stupendo il documentario, complimenti. Tuttavia speriamo ci siano ancora margini per cambiare il titolo, o meglio il sottotitolo. Perché vedi, quella in Iraq non è più un’occupazione di fatto, a partire dalla risoluzione ONU 1483 del 22 maggio 2003. Quindi continuare a definirla un’occupazione sarebbe un giudizio politico e non la descrizione dei fatti. Giudizio politico legittimo e condivisibile, per altro. Ma non possiamo permetterci di fare politica. O meglio, non possiamo utilizzare i fondi per la missione in Iraq per fare politica. E’ ciò che sta scritto nel contratto con il fondo dell’Unione Europea che sostiene la nostra missione. Ci consente di co-produrre documentari o materiale divulgativo, purché non contravvenga alle linee guida. Una di queste è quella di non esprimere giudizi politici. E la formula “Baghdad occupata”, purtroppo lo è”.
Guardai questo dirigente di “Terres des hommes” con gli occhi sgranati e le orecchie tese. L’unica parola che aveva un senso, “occupazione”, che avevo persino imparato a pronunciare in arabo dal tanto che le mie orecchie l’avevano sentita, veniva messa all’indice. E allora che dobbiamo dire con questo documentario se non possiamo usare la parola chiave?
“No, all’interno del documentario gli Iracheni sono liberi di esprimere la loro opinione, ovviamente, e di parlare liberamente. Ma nel titolo quella parola non ci deve essere”, mi dissero.
La censura delle Ong nei confronti del mio lavoro cominciò quel giorno.
20 ANNI DI CENSURA
Io ovviamente non cambiai il titolo. E così saltò la distribuzione con il Manifesto, Carta, l‘Unità e Liberazione.
Il documentario venne proiettato decine di volte nel corso dell’anno successivo, in eventi organizzati spontaneamente sul territorio italiano.
Da quel giorno mi fu chiaro che la sinistra in Italia e in Europa non fosse più all’interno di una dinamica di conflitto, ma all’interno di un gioco di ruoli.
Il presidente di “Terres des hommes” in quegli anni, Raffaele Salinari, era una penna sovente ospitata sulle pagine del Manifesto e di altre riviste di sinistra.
L’avanguardia del ragionamento politico da quel periodo in poi fu portata avanti da pensatori che per dare un nome alle cose avrebbero dovuto prima consultare gli standard della community.
Anche per questo a distanza di tanti anni ho sentito il bisogno oggi di realizzare un documentario come “Il crollo - diario genovese di quei giorni del 20001 al G8”. Per tracciare una traiettoria della sinistra italiana non a partire dalle pagine dei giornali, ma seguendo quelle parole non dette che hanno fatto più danni della guerra.
“Il crollo” è disponibile on demand a questo link: https://vimeo.com/ondemand/
Qui il trailer: https://www.youtube.com/watch?
di Alessandro Orsini* Risposta, molto rispettosa, a Liliana Segre. Il dibattito sul genocidio a Gaza, reale o presunto che sia, non può prescindere dalle scienze sociali. Nel suo...
di Giuseppe Masala per l'AntiDiplomatico In più di una circostanza ho scritto che oltre agli USA a vivere una situazione estremamente complessa in materia di conti con l'estero (debito/credito...
di Alessandro Orsini* Il Corriere della Sera oggi si entusiasma per la caduta del rublo. Lasciatemi spiegare la situazione chiaramente. Se andasse in bancarotta, la Russia distruggerebbe...
di Clara Statello per l'AntiDiplomatico Esattamente una settimana fa, il premier ungherese Viktor Orban, di ritorno da un incontro con Donald Trump a Mar-a-Lago, annunciava che queste sarebbero...
Copyright L'Antidiplomatico 2015 all rights reserved
L'AntiDiplomatico è una testata registrata in data 08/09/2015 presso il Tribunale civile di Roma al n° 162/2015 del registro di stampa