di Federico Giusti
Il Pnrr rappresenta una occasione per rilanciare l’economia capitalista? Le ricette neokeynesiane oggi non sono l’antidoto per salvare un sistema immodificabile come quello capitalistico. Proviamo allora a ragionare in termini di classe per restituire credibilità ad una proposta di cambiamento reale
La produttività non cresce se il capitale si investe in bar, ristoranti e speculazione immobiliare, lo diceva Sylos Labini decenni fa per indirizzare gli investimenti verso produzioni e tecnologie avanzate e non verso il turismo, il piccolo commercio.
L'unica politica oggi in mano agli Stati è quella del lavoro e da tempo avviene all'insegna della precarietà.
La politica monetaria e quella fiscale non sono più nelle mani dello Stato o, meglio, la riduzione alle tre aliquote fiscali oggi esistenti rappresenta pur sempre una scelta dei Governi e dello Stato ma su imposizione del capitale europeo ed internazionale.
Una parte rilevante del Pil dalla quota salari è stata spostata al capitale e alle rendite e serviva un sistema fiscale di abbattimento delle tasse per i redditi elevati e i governi di centro sinistra, tecnici e di destra hanno puntualmente obbedito.
Il salario non cresce, diminuisce la quota salario del PIL, cancellare il reddito di cittadinanza era indispensabile per imporre condizioni lavorative precarie e peggiorative.
Le grandi aziende che hanno fatturati enorme e utilizzano tecnologie avanzate presentano margini di profitto sempre maggiori, hanno sovente pochi lavoratori e quindi meno tasse e oneri fiscali, negli ultimi 30 anni la aliquota sui capitali è stata dimezzata e questa riduzione ha determinato minori fondi al welfare, ogni paese ha abbassato le tasse proprio per attirare le multinazionali e assecondare le politiche della BCE e del FMI.
Il potere contrattuale in Italia è eroso dalla precarietà, il 65% dei giovani assunti hanno contratto precari, la media dei paesi Ocse è attorno al 25%.
Precarietà, part time involontario sono i mali che affliggono il lavoro e impoveriscono i salari reali.
Pensiamo a un lavoratore con 800 euro di busta paga, tra 30 anni avrà una pensione inferiore alla soglia di povertà.
Spesso si parla di arricchimento delle nazioni dell'Est europeo dopo il crollo del Muro di Berlino, ebbene se guardiamo al potere di acquisto reale, alla fine degli anni novanta o nel decennio successivo questi lavoratori stavano peggio di quanto esisteva il socialismo reale.
Dagli anni Ottanta ad oggi non è scomparsa la politica industriale italiana ma si è indirizzata verso politiche orizzontali a favore di tutte le imprese senza alcuna selezione a monte degli aiuti di stato che a livello Ue hanno per altro subito una forte contrazione.
Oggi, con il PNRR, la Ue sta rivedendo queste politiche di aiuto pubblico alle imprese con politiche selettive al posto di quelle orizzontali.
E su questo cambiamento si consuma lo scontro politico in vista delle prossime elezioni per il Parlamento europeo.
L'Italia a livello innovativo è in grave ritardo, le statistiche dicono che il pubblico in termini innovativi ha speso sempre meno presentandosi come grande ammortizzatore sociale per tenere in vista aziende progressivamente marginalizzate dai cicli produttivi.
Le imprese italiane fanno ricerca, solo quelle più grandi ovviamente, ma in misura inferiore a quanto accade in altri paesi Ue.
Negli ultimi 30 anni la situazione non è cambiata e per alcuni paesi la sfida del PNRR potrebbe rappresentare l'occasione per una svolta nelle politiche di ricerca, di sviluppo e di produzione di tecnologie avanzate.
Chi sono "gli animali" industriali italiani?
Le politiche industriali andranno quindi ripensate e soggette a una selettività dei finanziamenti sapendo che una eventualità del genere potrebbe alimentare la spirale della disoccupazione. I fondi destinati alle società di consulenza sono cresciuti ma questi soldi non sono serviti alla ripresa occupazionale e produttiva.
Anche i finanziamenti destinati alla ricerca andrebbero ripensati perché spesso finiscono con l'essere governate da esigenze di natura politica e clientelare. Chi decide allora cosa produrre e dove investire? E' una domanda dirimente alla quale rispondere.
Chiudiamo sulla necessità di ragionare in termini di classe ogni qual volta si parla di economica, fiscalità, politica industriale.
Non siamo certo noi a volere salvare il capitalismo per affermare una economia diversa da quella del profitto, una economia dei produttori che veda protagonista la forza lavoro. E la imposizione del dogma della produttività è stata costruita per aumentare le prestazioni lavorative a costo zero, accrescere lo sfruttamento, precarizzando il lavoro e peggiorando le nostre condizioni di vita per rafforzare al contempo il potere economico e politico del capitale.
La lotta di classe nasce nei luoghi di lavoro, nella lotta sociale, queste lotte ci sono ma vengono o represse o vilipese come resistenza di un vecchio mondo che non vuole capitolare.
La classica narrazione giustificazionista dell'esistente. La partecipazione dello stato all'economia non è una analisi di classe ma solo una prospettiva neokeynesiana che in certi contesti storici è stata pensata come soluzione di sinistra per ricomporre le contraddizioni capitaliste a vantaggio delle classi subalterne. Molte aziende oggi statali sono a tutti gli effetti private, basta allora la proprietà pubblica o l’azionariato pubblico? Noi pensiamo di no.
Urge aggredire il carattere regressivo del sistema di tassazione, banalmente, ma fino ad un certo punto, potremmo asserire che le tasse in Italia le pagano quanti hanno meno risorse. Da qui l'urgenza di un sistema di tassazione antitetico a quello esistente e portato avanti indistintamente dai governi di centro sinistra, tecnici e di destra. Abbiamo le tasse sull'eredità e sui grandi capitali più bassi, una speculazione immobiliare da aggredire con gli espropri pubblici.
Serve una nuova scala mobile, una fiscalità che ripristini le vecchie aliquote fiscali, una ripubblicizzazione della sanità privata a favore di quella pubblica, analogo discorso vale per l'istruzione.
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