di Federico Giusti ed Emiliano Gentili
È stato da poco pubblicato il nuovo rapporto sullo stato dell’occupazione lavorativa nell’Unione Europea, redatto congiuntamente dalla Commissione e dal Consiglio europei. Tale documento, però, contiene anche analisi e commenti sulle politiche intraprese dai governi nazionali in materia di lavoro e protezione sociale. Per l’appunto, quest’anno, il Governo Meloni è stato esplicitamente redarguito in quanto le politiche di contrasto alla povertà non avrebbero prodotto sortendo effetti positivi… anzi, tutt’altro.
I problemi riguardano innanzitutto il tasso di occupazione e il reddito pro-capite. Oltre a non raggiungere, entrambi, livelli adeguatiin linea con gli standard comunitari, il tasso d’occupazione presenta anche crescenti disparità di genere mentre la distribuzione del reddito, invece, sarebbe caratterizzata da crescenti disparità territoriali su base regionale (figuriamoci cosa potrebbe succedere con l’avvento della autonomia differenziata e nel caso in cui venissero istituite le “gabbie salariali”!).
Il modello di welfare statenon deve cambiare
A proposito del welfare state gli organismi europei fanno notare marcate difficoltà sul piano della protezione e dell’inclusione sociale, in particolare per via della scarsa efficacia dei sussidi statali. Su questo punto, tuttavia, si rende necessario un momento di riflessione.
Il sistema previdenziale pubblico viene(consapevolmente e progressivamente) demolito a partire dai primissimi anni ’90 del secolo scorso, minando in maniera devastante l’efficacia del sistema di protezione sociale dello Stato. La classe dirigente italiana pensava – e pensa ancora oggi – di cancellare il nostro modello di stato sociale adottando quello anglosassone, basato sull’erogazione di “sussidi”, slegati dall’attività lavorativa (i vari bonus promulgati dai governi di destra e “sinistra” possono essere intesi in questo senso)[1].L’inefficacia di questo nuovo sistema dei sussidi è stata messa in discussione dall’Ue, senza produrre tuttavia alcuna riflessione sull’opportunità di un cambiamento radicale del sistema diwelfare state. Eppure, nel documento citato si riconosce come le pensioni siano l’unica forma di sussidio in grado di ridurre la povertà: «l’impatto dei trasferimenti sociali (escluse le pensioni) sulla riduzione della povertà rimane ben al di sotto della media dell’UE»[2].
L’abbandono del Reddito di Cittadinanza ha fatto danni
Secondo gli esperti dell’Ue l'Assegno di Inclusione ha incrementato la povertà assoluta e infantile (rispettivamente di 0,8 e 0,5 punti percentuali) rispetto al regime precedente[3],che era quello del Reddito di Cittadinanza. Il Governo attuale lo ha abolito per sostituirlo con uno strumento simile, per l’appunto denominato Assegno di Inclusione[4], destinato però a una platea molto più ridotta rispetto a quella del RdC. Inoltre comporta obblighi di lavoro (generalmente “povero”) molto più stringenti e l’assegnoammontaa poco più della metà del vecchio sussidio[5].
Salari e salario minimo
Altra problematica rilevata dall’Ue concerne la politica salariale: la precarietà e la deregolamentazione del lavoro (lavoro nero, grigio, ecc.), da un lato, e dall’altro le quote stipendiali legate al miglioramento della produttività (che però non cresce), stanno determinando un certo impoverimento di larghe fasce delle classi lavoratrici. Nel documento, infatti, si legge che «la povertà lavorativa è elevata [,] legata in particolare agli alti tassi di occupazione non standard», mentre «un reddito familiare disponibile lordo pro capite relativamente basso, [è] in parte dovuto a un reddito strutturalmente basso e salari legati alla debole crescita della produttività del paese»[6].
Un recente studio della Cgil[7] parla di 5,7 milioni di dipendenti che guadagnano in media meno di 11.000€lordi annui in Italia, nonché di Ccnl che prevedono una retribuzione oraria anche di soli 5 o 6 €. Il salario medio, del resto, da noi si attesta sui 31.500 € lordi annui, mentre in Germania è di 45.500 e in Francia di 41.700. Tuttavia ciò non basta per spingere il Governo a istituire un salario minimo, a tutela proprio di quei milioni di lavoratori meno abbienti.
Un Governo, dunque, in continuità con i precedenti: la politica dei bassi salari veniva perpetrata anche in passato e in effetti, stando ai dati Ocse, il nostro paese è il solo nella Ue ad aver registrato una erosione continua del potere di acquisto negli ultimi decenni.
Viviamo in uno Stato dove per essere competitivi è preferibile ridurre i costi a carico delle aziende, piuttosto che puntare su investimenti e innovazioni; pertanto, la riduzione dei salari e dello stato sociale va messa in conto.
[1] Dal ‘900 l’Italia ha ereditato uno stato sociale fortemente lavoristico. Si pensi, oltre che al robusto sistema previdenziale, alle indennità di disoccupazione o al Tfr.
[2][Corsivo nostro] - European Commission, Directorate-General for Employment, Social Affairs and Inclusion, Joint Employment Report 2024 – Commission proposal, Publications Office of the European Union, 2023, https://data.europa.eu/doi/10.2767/17157, p. 120.
[3]Ivi, p. 142.
[4]Istituito col D.L. 48/2023.
[5]Per informazioni dettagliate si veda il nostro precedente articolo: https://www.infoaut.org/approfondimenti/menzogne-e-verita-sulla-cancellazione-del-reddito-di-cittadinanza
[6]European Commission, Directorate-General for Employment, Social Affairs and Inclusion, op. cit., p. 120.
[7]Nicolò Giangrande, La questione salariale in Italia. Un’analisi sulle cause dei bassi salari, CGIL, 7 Marzo 2024.
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