di Federico Giusti
La disuguaglianza in Italia, risultato della diseguale distribuzione dei redditi, è maggiore nel nostro paese rispetto ad altri paesi Ue, questa disparità inizia a manifestarsi con i primi anni novanta tra privatizzazioni e esternalizzazioni dei servizi pubblici con il ricorso ad appalti e subappalti.
La crescita delle disuguaglianze non è stata costante nel corso degli ultimi 35 anni, in alcuni periodi sembrava avere subito un certo rallentamento ma sono proprio le due crisi, nel 2008 e nel periodo pandemico, a determinarne la crescita con il diffuso calo del potere di acquisto delle classi sociali.
L’Italia è tra i paesi Ue ove le disuguaglianze sono maggiormente cresciute, gli aumenti salariali sono stati differenziati, e in gran parte inferiori al reale costo della vita, i ceti più abbienti registrano aumenti decisamente maggiori (in percentuale) degli altri. La borghesia è diventata più ricca nell’ultimo trentennio, invariata la condizione di vita della piccola borghesia, tra gli autonomi registriamo un diffuso impoverimento mentre la classe operaia presenta condizioni peggiori del passato alle prese com’è con la perdita del potere di acquisto e diffusa precarizzazione.
Se guardiamo alle retribuzioni effettive, operai e pensionati, rispetto a 40 anni fa, sono tuttavia più distribuiti in alcune face di reddito, molte partite iva scendono verso il basso come le famiglie monoreddito o alle prese con contratti part time, la mobilità sociale vale molto più verso il basso che verso l’alto stando almeno ai dati forniti dalla Banca d’Italia. E prova ne sia anche la tendenza diffusa a raggiungere lo stesso livello di istruzione dei nostri padri, rispetto a 40 anni fa diplomati e laureati sono senza dubbio cresciuti di numero ma intanto sono lontani i tempi in cui la scolarizzazione era premessa per la mobilità sociale verso l’alto, per migliorare le condizioni di lavoro e di retribuzione.
L’ equivoco di fondo è rappresentato da una ricostruzione delle classi sociali in base solo ai consumi e agli stili di vita evitando di relazionarsi con le caratteristiche proprie del modo di produzione capitalista, nei fatti invece, accumulandosi redditi e ricchezze nelle mani di pochi, sono cresciute le famiglie povere risucchiando in questa condizione anche settori della piccola borghesia.
La fine del sogno italiano di diventare classe media arriva a metà degli anni settanta, dopo la crisi petrolifera e la politica dei sacrifici anche se trascorreranno altri anni prima di prendere atto di questa situazione.
Il reddito condiziona le scelte di vita, le spese per l’istruzione per molti anni sono state decisamente basse per molte fasce sociali ma non per le elites che hanno operato investimenti per consentire ai loro figli di acquisire competenze importanti e richieste dal mercato.
L’indebolimento della scuola pubblica ha giocato un ruolo determinante anche nella mancata mobilità sociale, eppure è stata proprio la cultura meritocratica ad illudere moltie di potere accedere alla mobilità sociale. La cultura del merito è stata una formidabile arma ideologica utilizzata all’occorrenza anche per ridurre il potere di acquisto e di contrattazione nella Pubblica amministrazione (la famigerata performance) ma anche uno strumento di controllo sociale per ridurre ai minimi termini la conflittualità (a tal riguardo un ruolo determinante è stato giocato dalla involuzione concertativa dei sindacati).
In ogni caso nelle famiglie con minor grado di istruzione la condizione economica è decisamente peggiore e il collegamento tra bassa scolarizzazione e condizione di vita precaria è ancora oggi valido perché titolo di studio e professione sono ancora oggi connessi.
Ma appartenere alla classe popolare ancora oggi significa accedere a scuole superiori di rango professionale e i livelli di istruzione dipendono sempre più dai redditi familiari posseduti. E analogo discorso potremmo fare per i non occupati, l’esercito industriale di riserva e gli esclusi dal mondo lavorativo sono per lo più o senza istruzione o in possesso di titoli di studio bassi. Pensiamo alla svolta green dell’economia o all’avvento della digitalizzazione per capire che nei prossimi anni avremo un aumento dei disoccupati soprattutto nelle fasce popolari della popolazione anche in virtù del fallimento riscontrato dalle politiche attive del lavoro, di orientamento e formazione.
E per quanto le donne siano svantaggiate rispetto agli uomini nel mercato del lavoro (contratti part time o precari, paghe inferiori) conta più molto la classe del genere, il divario di classe potrà essersi ridotto ma rimane comunque elevato.
Le statistiche ufficiali sulla disoccupazione non sono di aiuto se risultano occupati anche quanti hanno lavorato pochissimi giorni nell’arco dell’anno, fatto sta che i dati Eurostat fotografano la fascia di età dai 25 ai 34 anni come quella caratterizzata dall’elevato numero di persone che non studiano e risultano disoccupate.
Poi un capitolo a parte meriterebbe il divario territoriale e una analisi di classe se ricondotta alle tre aree del paese (Nord, cento, sud e isole) potrebbe anche assumere connotati diverse da una valutazione relativa all’intera nazione. Ma qui entrano anche in gioco i fenomeni migratori che continuano ad essere molto presenti nelle aree meridionali, fatto sta che un eventuale ritorno al sistema delle gabbie salariali determinerebbe condizioni retributive e di vita ancor peggiori nelle aree meno industriali e povere del paese.
Rispetto a 40 o 50 anni fa nel Sud la presenza della piccola e media borghesia continua ad essere inferiore rispetto ad altre aree geografiche.
Le classi sono da tempo scomparse nel discorso pubblico, lo Stato leggero ha sacrificato le politiche attive del lavoro senza per altro ampliare i confini del welfare adattandoli ai nuovi bisogni sociali.
I rapporti di dominio tuttavia non sono mutati, è entrato invece in crisi il conflitto distributivo sul quale si erano soffermati in ambito politico e sindacale. Non è quindi la divisione in classe ad essere scomparsa ma debbono invece essere aggiornate le interpretazioni delle classi stesse alla luce dei cambiamenti produttivi.
E’ invece entrata in crisi la rappresentanza politica e sindacale delle classi popolari in anni nei quali è stato demonizzato il conflitto sociale e quello tra capitale e lavoro soffermandosi invece sulla crisi di identità con la feroce ristrutturazione dell’apparato produttivo che ha visto spostare gli operai dalle fabbriche ai magazzini della logistica e del terziario.
La malsana idea della società liquida è stata perdente, il fascino verso le classi medio alte ha portato a intraprendere percorsi di riduzione del welfare e sistemi fiscali dominati dalla riduzione delle aliquote fiscali.
Ma complessivamente, per chiudere il nostro ragionamento, la classe operaia non è scomparsa, le classi medie sono senza dubbio cresciute come del resto i divari sociali dentro alcuni processi di cambiamento da interpretare non solo in chiave sociologica ma per aggiornare invece la nostra analisi delle classe sociali dalle quali urge invece ripartire.
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