Siamo passati, come prevedibile e in effetti ampiamente previsto, da un’emergenza all’altra: la macchina mediatica emergenzialista ormai è perfettamente oleata e a farne le spese è ovviamente il racconto di chi soffre, di chi finisce schiacciato e stritolato.
L’attuale incertezza piomba sul sistema produttivo di mezzo mondo e lo fa traballare: a cedere saranno per primi gli ultimi, chi già era compromesso, chi per primo non è stato aiutato nei cupi mesi che hanno preceduto l’attuale contesto.
Perderemo altri posti di lavoro, tanti posti di lavoro, e la narrazione della “flessibilità” avrà gioco facile: in Italia e altrove. Ci diranno che in guerra (siamo in guerra da anni ormai, a sentire la propaganda) tutti devono fare dei sacrifici e se questo comporta l’esplosione di ulteriore e più profonda precarietà, pazienza.
La dinamica riguarda l’aria europea, certamente, ma non solo: leggo decine di mail di lavoratori che mi informano della decisione di grandi gruppi internazionali di estromettere lavoratrici e lavoratori russi dalle imprese. A pagare sono sempre gli stessi: gli attori più deboli del mondo del lavoro.
Che ci sia qualcosa di gravissimo in corso è ovviamente innegabile: francamente nutro stupore e spaesamento (anche sdegno) dinanzi alla volontà di alcuni di non condannare quanto stia accadendo in Ucraina (lo stesso sdegno che provavo quando si negavano ben altri crimini, con attori diversi, tra cui noi come protagonisti). Tuttavia, ciò che più colpisce è la reazione mediatica “ad orologeria”: la narrazione cala, come un immenso tappeto che cancella tutto quello che c’era prima, compreso ciò che la stessa narrazione aveva messo in piedi in precedenza sulla crisi sanitaria (e che in piedi in effetti non ci stava per nulla).
E il dibattito si polarizza, in parte ci caschiamo anche noi, comincia un conflitto dialettico ferocissimo che finisce col distoglierci dal problema di fondo: ciò che non vogliono farci vedere, ciò che ci tengono abilmente nascosto. Una ristrutturazione capitalistica senza precedenti.
All’inizio della crisi sanitaria in molti lo affermavano a ragione: non era il principio (perché di danni ne già erano stati fatti moltissimi), ma certamente era l’apertura di una fase di radicale rivoluzione capitalistica. Ora ci siamo in mezzo e ci stiamo dentro fino al collo.
Ci chiederanno sacrifici, tantissimi sacrifici, e la “crisi” (io ci sono cresciuto con questa parola che mi rimbomba nella testa) continuerà ancora per molto molto tempo. La crisi indurrà facili trasformazioni, altre trasformazioni, con una ricetta che è sempre la stessa e che non cambierà: togliere a chi ha poco per dare a chi ha molto.
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Ho scritto “Contro lo smart working”, Laterza 2021 (https://www.laterza.it/scheda-libro/?isbn=9788858144442) e “Pretendi il lavoro! L'alienazione ai tempi degli algoritmi”, GOG 2019 (https://www.gogedizioni.it/prodotto/pretendi-il-lavoro/)
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