di Fabrizio Poggi per l'AntiDiplomatico
E così, alla mezzanotte dello scorso 15 settembre, la Commissione europea ha tolto l'embargo verso la UE ai prodotti agricoli ucraini, non esaudendo la richiesta di Polonia, Slovacchia, Ungheria, Romania e Bulgaria di prorogarlo a tutto il 2023.
Come risposta, questi ultimi paesi - a quanto pare, meno la Bulgaria, che chiede però compensazioni alla UE; incerta la posizione romena - hanno deciso di vietare per proprio conto l'importazione nei propri territori di diversi tipi di produzione agricola ucraina. Il Ministro polacco per lo sviluppo, Waldemar Buda, ancora prima del 15 settembre, aveva addirittura minacciato di prorogare l'embargo in Polonia a tempo indeterminato, mentre il primo ministro Mateusz Morawiecki si è spinto a proclamare che Varsavia «non starà ad ascoltare Berlino, Von der Leyen, Tusk o Weber! Noi facciamo questo perché è nell'interesse dell'agricoltore polacco».
Vai a sapere fino a che punto ci creda davvero, o se si tratti di semplice campagna elettorale per il voto del 15 ottobre, con le previsioni che danno in forte rimonta sul “PiS” il raggruppamento partitico di “Coalizione civica”, dell'ex primo ministro e ex presidente del Consiglio europeo Donald Tusk. In queste condizioni, il partito di governo “PiS” va alla ricerca di alleati e sembra poterli trovare nella “Confederazione” che, nonostante sia etichettata come “filo-russa”, è piuttosto “anti-ucraina”: chiede la fine dell'accoglienza per i profughi ucraini ed esige l'embargo, per l'appunto, sui prodotti ucraini. E, a quanto pare, il grosso degli agricoltori polacchi farebbe riferimento proprio a “Confederazione”. Un alleato prezioso per il governo.
Ora, Bruxelles ha sì decretato la fine dell'embargo, ma ha anche fissato un termine di 30 giorni perché Kiev elabori «misure legislative in grado di evitare un brusco aumento delle forniture di grano»: guarda caso, osserva RIA Novosti, 30 giorni portano per l'appunto alla data delle elezioni polacche, dopo di che, «sperano a Bruxelles, il conflitto andrà a calare». E, sotto sotto, non è escluso che, passato il 15 ottobre, anche Duda, Morawiecki & Co. sperino in un acquietarsi della faccenda, specialmente all'interno.
Per quanto riguarda gli altri vicini dell'Ucraina, ecco che la Moldavia euroatlantica promette - per quello che vale, in numeri assoluti, la propria capacità logistica - di consentire il transito dei prodotti ucraini e, nonostante le proteste dei propri agricoltori, non proclama alcun divieto.
Slovacchia e Ungheria prorogano l'embargo a tutto il 2023; poi si vedrà. Viktor Orban ha aggiunto che «Noi importiamo frumento dall'Ucraina, ma esso non finisce in Africa. Al contrario, i trader europei, invece di comprare il nostro frumento, comprano quello vilio ucraino, così che i poveri bambini africani non ne vedono nemmeno un chilo. Siamo dunque in presenza a un imbroglio... e in ciò non ci sono interessi europei, rumeni, polacchi, ungheresi, slovacchi, ma piuttosto interessi americani».
Da copione il piagnisteo ucraino, che parla di “coltellata alla schiena da parte del «nostro principale alleato politico-militare», che ha bloccato l'esportazione di cereali ucraini; «davvero degli ottimi alleati: se ci trattano così col grano, figuriamoci su altri problemi», si lamentano i golpisti di Kiev. Gli agricoltori ucraini, afferma il canale “Rezident”, sono di fatto condannati alla bancarotta: è in forse la nuova semina e, per la prima volta in vent'anni, l'agricoltura è diventata non redditizia a causa dei prezzi raddoppiati per carburante e fertilizzanti. Si potrebbe chieder loro: golpisti di Kiev, vi ricordate dell'embargo sui fertilizzanti russi?
La vice premier golpista per la cosiddetta “Eurointegrazione” Ol'ga Stefanišina, ha invece singhiozzato che Kiev, in condizioni di guerra, si sarebbe attesa un «comportamento diverso» di Varsavia.
Al contrario, come osserva RIA, la famosa “amicizia ucro-polacca” si è trasformata in un'aperta guerra commerciale. È però possibilissimo che Bruxelles adotti ora severe misure contro i paesi che hanno deciso l'embargo per proprio conto e, in caso estremo, che la Corte europea lo dichiari nullo. A quel punto, passate le elezioni polacche, Morawiecki, Duda e tutto il “PiS” potranno ben dire agli agricoltori polacchi di aver fatto “tutto il possibile” per loro, ma che Bruxelles ha deciso diversamente e bisogna rassegnarsi. Come si dice: passata la festa gabbato lo santo.
Peggio ancora, osserva RIA, se l'Ucraina entrasse davvero nella UE, come sostenevano un tempo i suoi più strenui difensori, cioè i polacchi, a quel punto come si metterebbe con gli embarghi sulla produzione ucraina? Varsavia sembra metter le mani avanti e dice chiaro e tondo di non essere d'accordo con l'ammissione dell'Ucraina, fino a che non verranno elaborate non meglio precisate "rigorose condizioni" a protezione del mercato polacco. Ma, in «caso di eliminazione di confini e barriere doganali», scrive RIA, l'unico modo di «proteggere il mercato agricolo polacco sarebbe l'eliminazione degli agricoltori ucraini».
Ora, considerato che il grosso della produzione agricola polacca è in mano a ben note multinazionali agroalimentari straniere, sembra legittimo qualche dubbio che sia davvero l'agricoltura ucraina a essere in pericolo. Ma, la cosa non è proprio dietro l'angolo.
Di converso, la Russia è ora il principale esportatore mondiale di frumento; nella tabella, le previsioni per l'export 2023-'24 in milioni di tonnellate: al primo posto la Russia, seguita da UE, Canada, Australia, USA e Argentina. I maggiori acquirenti di frumento russo sono oggi Egitto, Turchia, Arabia Saudita, Iran e Algeria. Quanto a produzione, nel 2022, il raccolto in Russia aveva raggiunto quasi 154 milioni di tonnellate; per il 2023, le previsioni si fermano a circa 123 milioni. A oggi, Mosca avrebbe già esportato prodotti per 28 miliardi di dollari; ma, una produzione così massiccia, porta con sé bassi prezzi del grano: dai 13 $ per bushel del 2022, ai 6 $ di quest'anno. Arkadij Zlocevskij, presidente dell'Unione granaria russa, dice a Komsomo'lskaja Pravda che «la politica delle sanzioni esercita una pressione piuttosto pesante sui prezzi». La Russia è il fornitore numero uno sul mercato mondiale; ma «la nostra quota è solo del 20%: se superassimo il 50%, allora tutto dipenderebbe da noi. Il nostro 20%, invece, può essere rimpiazzato, ed è proprio a questo che puntano i nostri concorrenti. Il calo dei prezzi è iniziato la scorsa stagione; i produttori mondiali hanno infatti esteso le aree produttive e aumentato gli investimenti».
Sembra dire tutto il contrario Bloomberg: Mosca non ha molti concorrenti e può stabilire il prezzo del grano; a arriva ad allarmare il proprio pubblico scrivendo che «Il Cremlino cerca di inasprire i controlli sull'export di grano russo» per controllare l'intero mercato mondiale. Se è davvero così, si chiede Svobodnaja Pressa, non conviene allora alla Russia tenere di scorta una parte del grano, per venderlo poi a prezzo maggiore? Secondo l'economista Nikita Maslennikov, non è il caso di decretare un limite all'esportazione, perché in un mercato così esteso come quello del grano, la reazione si diffonderebbe su altri mercati, a partire dall'allevamento del bestiame. Qualsiasi «aumento artificiale dei prezzi è negativo per l'economia globale; è un ulteriore fattore che spinge le banche centrali a inasprire la politica creditizia». Per la Russia, ciò significherebbe un ulteriore rallentamento dell'economia mondiale, con la conseguenza che «noi perderemmo nell'export, il rublo si indebolirebbe, aumenterebbero i prezzi e si inasprirebbe la politica monetaria».
In questo senso, le affermazioni di Bloomberg non «sono che “un'istantanea occasionale” per il fatto che non abbiamo subito perdite significative» dalla fine della Black Sea Grain Initiative. Di fatto, afferma ancora Maslennikov, l'attuale aumento di prezzo dei prodotti da forno in molte regioni russe, non dipende da un aumento del prezzo del grano: è semmai dovuto al trasporto e alla logistica, allo stato delle basi di stoccaggio e anche alla crisi del carburante, con un alto rischio di non poter completare i raccolti.
Insomma, ancora una volta, con rapporti borghesi, è il “dio mercato” a dettare le regole: i monopoli più forti stritolano i produttori più deboli, oppure li ingurgitano per allargare la circonferenza della propria pancia. Per essi, i confini, polacchi o ucraini che siano, non costituiscono che un “inconveniente” da appianare con “scelte liberali europeiste”.
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