PICCOLE NOTE
È carestia nel Nord di Gaza, lo ha dichiarato Cindy McCain, direttrice del Programma alimentare mondiale. Già, la gente muore di fame. Non un evento naturale, ma indotto dalla devastazione e dalla feroce restrizione degli aiuti umanitari imposta da Israele. Evidentemente le pressioni internazionali per favorire l’accesso agli aiuti e le rassicurazioni di Tel Aviv sul punto sono state al di sotto delle necessità reali, per restare nell’ambito dell’eufemismo.
En passant, si può ricordare come politici e media d’Occidente abbiano strillato scandalizzati quando la Russia impose restrizioni sul commercio del grano ucraino nel Mar Nero, accusando Mosca di usare la fame come arma (cosa non veritiera, come poi si è visto: l’iniziativa ha arrecato danni commerciali, ma non ha fatto dilagare la fame ). Sulla fame reale, quella imposta in maniera metodica a Gaza e che uccide persone, solo qualche cenno sfuggente. Quando c’è…
Al di là del particolare di cronaca nera, si è ancora in attesa di una risposta di Hamas all’ennesima proposta israeliana sul cessate il fuoco. Ha tempo una settimana per decidere, sotto la spada di Damocle di una campagna militare contro Rafah – che però Netanyahu continua a brandire come destino manifesto anche in caso di accordo – e altre pressioni più o meno pubbliche (ad esempio la richiesta Usa di allontanare Hamas dal Qatar in caso di risposta negativa).
In attesa, le bombe continuano a cadere su Gaza – 34.622 palestinesi uccisi e 77.867 i feriti, informa al Jazeera – dove si registra una devastazione come “non si vedeva dal 1945″, secondo Abdallah al-Dardari, assistente segretario generale delle Nazioni Unite, per l’intensità e “l’enorme” portata dei danni inflitti in così breve tempo. La ricostruzione richiederà “16 anni”, ha concluso al-Dardari (stima irenica, anche perché è da vedere se davvero affluiranno capitali).
Situazione tetra, prospettiva ancora più tetra, se non si riuscirà a evitare la campagna su Rafah, alla quale gli Stati Uniti continuano a dirsi contrari, ma con appelli che, dopo mesi di sostegno più o meno riservato al massacro dei palestinesi, risuonano sempre più ipocriti.
Certo, le rivolte nelle Università americane preoccupano la leadership dei democratici, perché sembra ripetersi lo scenario del Vietnam, con prospettive nefaste per le prossime presidenziali (il Wall Street Journal allarmava sul ripetersi dello scenario registrato con la candidatura di Hubert Humphrey nel ’68, al quale fu fatale la dialettica interna al partito tra attivisti pacifisti e colletti blu, vedi InsideOver).
Da qui la determinazione di Washington a chiudere la guerra. Ma le pressioni su Hamas perché accolga l’offerta israeliana così com’è – rinunciando alla richiesta di un cessate il fuoco duraturo – potrebbero costare care.
Infatti, dal momento che l’attuale offerta è stata propagandata dal Segretario di Stato Tony Blinken come la più “generosa” possibile da parte di Israele, e come tale impossibile da rigettare, una contro-proposta di Hamas – volta a prolungare in qualche modo la durata della tregua o a ottenere maggiori rassicurazioni- darebbe la scusa a Netanyahu e soci per accusare il nemico non volere l’intesa, aprendo il vaso di Pandora dell’invasione di Rafah.
Una campagna che Netanyahu racconta come necessaria all’eliminazione di Hamas e liberare gli ostaggi israeliani, ma che invece causerà solo la morte di questi ultimi, nuovi massacri palestinesi e non raggiungerà lo scopo dichiarato. Avrà solo un esito positivo per lui, prolungando la sua presa sullo Stato e aprendogli nuovi spazi di manovra.
Sull’impossibilità di eliminare del tutto Hamas, il New York Times: “Netanyahu ha rifiutato l’idea di un cessate il fuoco permanente e ha rilanciato la pubblica promessa di sradicare Hamas e i tanti combattenti che, secondo lui, sono attestati a Rafah – nonostante sia convinzione diffusa presso i funzionari statunitensi. che il suo obiettivo è irraggiungibile“.
Più dettagliato lo scenario descritto da Amos Harel su Haaretz, che osserva: “La tanto attesa offensiva di Rafah è stata mitizzata conferendole lo status di una [nuova] Stalingrado, ma il suo valore strategico non è certo la ‘vittoria totale’, come da propaganda”.
Infatti, scrive Harel, l’Israel Defence Force “è in grado di conquistare Rafah. La domanda è cosa otterrà con questo. [Il ministro della Difesa] Gallant e il capo di stato maggiore dell’IDF, Herzl Halevi, hanno detto a Netanyahu che un’invasione di Rafah degraderà i battaglioni e le infrastrutture dell’organizzazione, ma non porterà alla ‘vittoria totale’ su Hamas che egli ha promesso all’opinione pubblica”.
“Nel frattempo, Hamas ripristinerà le sue capacità militari e governative in altre parti della Striscia. E tra pochi mesi, dopo la conquista di Rafah, saremo di nuovo al punto di partenza: Hamas malconcio ma attivo, senza un’alternativa di governo per Gaza (in parte perché Netanyahu si rifiuta con veemenza di discuterne con gli Stati Uniti e la comunità internazionale)”.
Da notare che anche Alon Pinkas, sempre su Haaretz, aveva stigmatizzato la propaganda volta a fare della campagna di Rafah una nuova Stalingrado. Un parallelo storico dalle tante sfaccettature…
A più ampio respiro le osservazioni di Uri Misgav, sempre su Haaretz: “Andare a Rafah adesso è come andare a Masada. Masada, come la ribellione di Bar Kochba, sono simboli della follia suicida e messianica che afflisse una parte del popolo di Israele. In un terribile errore, il primo sionismo li avvolse in una falsa aura di santità ed eroismo”.
Sulle pulsioni vendicative-suicide di certo messianismo ebraico, sia laico che religioso, che idolatrano la pazzia suicida di Masada e leggono a loro modo le gesta di Sansone, rimandiamo a uno scritto di Yoav Rinon. Momento di sospensione per il mondo, in attesa della risposta di Hamas.
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