Lo spirito olimpico di Parigi? La mia esperienza allo Stade de France con la bandiera palestinese


di Gianluca Staderini

Parigi, 26 luglio 2024



Parigi sembra tornata alla stagione di lockdown e coprifuoco. In realtà viene il sacrosanto dubbio che, come tutto il mondo, non ne sia mai davvero uscita, vittima anch’essa di una svolta tecno-repressiva irreversibile.

Le strade della capitale francese sono invase da decine di migliaia di poliziotti (si parla di oltre 55.000 agenti arrivati da ogni angolo del Paese per affiancare le forze dell’ordine del posto e quelle internazionali) armati con fucili d’assalto e avanguardistici dispositivi per la guerriglia urbana.



Ci sono quelli della Polizia Nazionale, la Gendarmeria, squadre speciali d’ogni tipo e polizie di mezzo mondo arrivate coi loro mezzi. Presidiano ogni strada del centro città, tra blocchi di cemento e transenne che impediscono qualsiasi libero movimento tra le strade. Vista la loro giovane età sembrano ragazzini appena usciti da una festa in maschera per la quale hanno scelto un discutibile abito da marines in zona di guerra. Purtroppo, però, non siamo dentro un videogioco sparatutto, siamo nella Parigi che ospita i Giochi Olimpici 2024.

E’ la concretizzazione del fronte interno di guerra. Per muoverti in centro città, anche solo per ammirare la Torre Eiffel o Notre Dame, hai bisogno di un qr code da mostrare ai varchi disseminati in ogni dove. Hanno diritto al qr code solo i possessori degli eventi sportivi e solo per l’area del loro svolgimento.



Già perché Macron ha voluto che i Giochi si svolgessero in giro per Parigi, a macchia di leopardo. I ticket costano mediamente attorno ai 900 euro ad evento, salvo i più economici, quelli per assistere alle gare di tennis da tavolo, che si attestano a “soli” 400 euro. Se non hai il ticket non puoi muoverti. Se non hai il ticket non puoi neppure usufruire delle corsie stradali speciali sulle vie ad alto scorrimento, indicate dalla scritta sul cemento “Paris 2024”, che consentono di sfrecciare indisturbati accanto agli infiniti incolonnamenti di parigini che non hanno “l’urgenza” di correre ad assistere ai giochi. Le strade speciali, come quelle riservate ai coloni che occupano la Palestina nella Cisgiordania.



Mentre continua incessante il brusio dei tre elicotteri di polizia che, giorno e notte, volteggiano su Parigi, arriviamo a Saint-Denis, una delle banlieue parigine più note. Qui si respira l’aria di sempre, se non fosse per quel muro di blindati delle forze dell’ordine che si erge in fondo alla strada, al di là del canale e dei suoi attraversamenti.

Anche qui, per passare la linea di blindati e ragazzini poliziotti armati fino ai denti, devi esibire il qr code. Ce l’abbiamo. Grazie ad un concorso ad estrazione abbiamo ottenuto gratuitamente i nostri biglietti per le qualificazioni di “rugby a 7”. Passiamo il varco e ci uniamo a tifosi festanti. Oggi giocano i padroni di casa, les bleus.

La quasi totalità del pubblico è qui per questo. Leggiamo il regolamento su cosa sia lecito fare e cosa no all’interno della struttura. Vi sono decine di regole, per lo più classiche come “è vietato introdurre materiale esplosivo” ma, tra le tante, ci colpisce l’ultima, la più dettagliata: “è vietato esporre bandiere maggiori ad 1x2 metri e bandiere di Paesi non partecipanti ai Giochi, bandiere (attuali o storiche) di, e altri simboli che possano essere associati a, paesi i cui atleti sono autorizzati a partecipare esclusivamente come atleti individuali neutrali”. Evidentemente il Comitato Olimpico si è ben adoperato per redigere una norma anti Russia ma non capiamo se questa dicitura contorta possa essere estesa alla Palestina, nonostante vi sia la squadra olimpica palestinese ai giochi. Evidentemente, però, questa norma puzza.



Dopo vari controlli entriamo nello Stade de France. 80.000 posti, lo Stadio più grande di Francia, inaugurato nel 1998 per i mondiali di calcio. Sembra di essere passati in un altro mondo. Qui la polizia c’è ma non si vede. Dalla banlieue al mondo olimpico attraverso un muro di guardie. Qui tutto luccica a tratti. La musica del dj di turno viene ininterrottamente sparata a tutto volume e sui megaschermi si alternano i volti di gente che, appena inquadrata, balla, ride e si diverte a favor di camera. In modo così esagerato ed eccessivo, da risultare falso e posticcio. Il mondo insta-tik-tok sembra aver trovato il suo regno ideale. Un pubblico di figurine che si accende al passar della telecamera. Il colpo d’occhio “cromatico” è però davvero imressionante. In un Paese come la Francia, in cui, nonostante si dichiari non esistano statistiche etniche, appena il 40% della popolazione è bianca, ci troviamo dentro uno stadio quasi completamente riempito da bianchi. Eccezion fatta per tutti i lavoratori, dalla sicurezza ai bar passando per i servizi igienici, che, invece, sono per la quasi totalità non bianchi. D’altronde in un un mondo da 900 euro ad evento l’accesso ai figli della colonizzazione non può che essere dalla porta di servizio. Egalitè.

Nella prima partita gioca l’Argentina. Lo Stade de France si accende con insulti e ululati. I fischi coprono ogni movimento dei giocatori blanco-celeste. Il pubblico di figurine si è improvvisamente acceso e se la ride oltraggiando gli argentini. Chiediamo il perché. “Perché gli argentini insultarono Mbappè!” ci dicono alcuni bleus. Mbappè, nero, nato nella banlieue di Bondy, proprio lì fuori, esattamente tra gli esclusi dallo show. In questo tilt contano solo gli attriti calcistici che invadono il rugby olimpico. Con buona pace del cosiddetto spirito olimpico.

L’Argentina, per la cronaca, vince.

E’ il turno di Francia contro Stati Uniti. All’ingresso dei giocatori in campo, mentre lo Stade de France si alza in piedi per intonare Allez les Bleus pensiamo sia il momento in cui si debba in qualche modo ricordare quello che questi paesi, e non solo, stanno facendo a favore del genocidio in atto per mano sionista.

Ci alziamo in piedi e, senza proferir parola, apriamo la bandiera della Palestina che abbiamo nello zaino. Restiamo così, in silenzio, solo a voler ricordare, anche al circo che abbiamo davanti agli occhi, con un minuscolo gesto, un Popolo fiero che lotta per la propria esistenza proprio mentre il mondo si concentra sullo show. La gente attorno a noi sembra non avere alcuna reazione.

La partita ha inizio. Abbassiamo la bandiera palestinese e ci sediamo. Nello stadio vediamo sventolare la bandiera del Tibet, quelle di diversi club e compare anche un’apprezzatissima Ikurrina. Ci torna alla mente il regolamento olimpico per l’accesso delle bandiere che abbiamo letto poco prima, confidiamo che se non hanno problema queste, non dovrebbero a maggior ragione averne quelle di un Paese partecipante, ma sappiamo che non sarà così. Pochi minuti e ne abbiamo la conferma.

Arriva un addetto alla sicurezza che ci invita a seguirlo. Un distinto signore poco dietro di noi solidarizza con l’impeccabile intervento di repressione.

“Siete stati individuati dalle telecamere di sicurezza. Dobbiamo condurvi dalla Polizia Nazionale.”

Ad attenderci fuori dalla struttura, assieme agli steward dello stadio, ci sono cinque agenti di polizia in borghese che, dopo essersi qualificati, ci chiedono in quale lingua vogliamo comunicare. Inglese o francese. Ci sembra già tanto perché, nonostante la portate dell’evento, l’intera organizzazione conosce solo il francese. Iniziano le domande di rito ma la prima è quanto mai minacciosa: “Siete mai stati arrestati?”. Poi le perquisizioni. Minuziose, per non dire invadenti. Noi siamo in due, loro una decina in tutto. Il problema, ovviamente, è la bandiera. Gli diciamo che non abbiamo violato alcun regolamento. Gli mostriamo che lo conosciamo e che sappiamo esattamente cosa stiamo dicendo. Non sanno cosa rispondere. Poi, mentre attendiamo che si svolgano tutti i controlli sui nostri documenti, cominciamo pian piano a capire. La bandiera palestinese può essere una provocazione per il pubblico, ci dicono. Gli chiediamo in che modo e se anche quella israeliana possa essere percepita come tale. Non rispondono. Continuiamo ad incalzarli mentre la situazione si fa surreale. Non sanno neppure loro cosa stanno facendo. E’ una farsa anche questa, come tutto il resto dello show a cui stiamo prendendo parte.

Alla fine il responsabile della polizia che ci trattiene dice: “La bandiera della Palestina è contro lo spirito olimpico. Non dipende dalla prefettura ma dal Comitato Olimpico. Son loro che ci hanno detto di fermarvi, son loro che decidono il da farsi.”

In realtà hanno ragione loro. E anche noi lo siamo. La bandiera palestinese è contro lo spirito olimpico, proprio come lo son stati i guanti neri di Smith e Carlos, la spilla di Peter Norman o le parole di Mohammed Alì. E allora ci auguriamo che anche in questa Olimpiade si possa respirare la stessa mancanza di spirito olimpico, che sia gli atleti che il pubblico riescano a sfondare questo spirito olimpico che in questi giorni riempie la nauseabonda vetrina entro cui ci hanno rinchiuso tutti. Ci auguriamo che la causa palestinese abbia la meglio anche qui. Noi, nel nostro piccolo, abbiamo portato un pezzetto di Palestina nello Stade de France, nel primo giorno dei Giochi Olimpici di Parigi 2024. Con buona pace dello spirito.

Alla fine della giornata, su concessione del Comitato Olimpico, ci hanno lasciati andare.

La bandiera della Palestina non gliel’abbiamo lasciata.

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