Nel 2011 il presidente statunitense Obama, con il forte sostegno del segretario al Dipartimento di Stato Hillary Clinton, aveva enunciato con grande enfasi l'avvio del Pivot to Asia: prima a Canberra e poi alla base militare di Darwin in Australia aveva dichiarato la "Regione Asia Pacifico" come "priorità assoluta" della politica di sicurezza statunitense, tanto che "con la maggior parte delle potenze nucleari del mondo e circa metà dell'umanità, l'Asia definirà in larga misura se il secolo a venire sarà caratterizzato da conflitti o cooperazione, sofferenze inutili o progresso umano". Ufficialmente veniva lanciato il guanto di sfida alla Cina popolare, allora potenza regionale in prorompente crescita. Da allora è passato oltre un decennio ma la tematica di fondo non è cambiata tanto che anche con la presidenza Trump l'obiettivo dell'accerchiamento economico-militare ai danni di Pechino è stato chiaramente formulato.
L'espressione trumpiana "preservare la pace attraverso la forza" si accompagnava a dure accuse nei confronti della potenza asiatica, ormai divenuta globale anche attraverso il progetto della Nuova via della Seta (2013), su tutte quella di essere una potenza revisionista in grado ormai di plasmare il mondo imponendo valori antitetici a quelli liberali e democratici dell'egemonia a stelle e strisce e di minacciare la sovranità dei Paesi vicini.
Tale progetto, che richiama all'ordine i tradizionali alleati dell'area, avrebbe come architettura multilaterale da un lato alleanze vere e proprie come l'Aukus, il patto di sicurezza trilaterale tra Australia, Regno Unito e Stati Uniti (settembre 2021) che si vorrebbe in qualche modo estendere a Canada, Nuova Zelanda e Corea del Sud e che punta su di una stretta collaborazione/condivisione in materia di tecnologia di difesa navale (fornitura all'Australia della tecnologia necessaria alla costruzione di sottomarini a propulsione nucleare), e dall'altro una piattaforma di dialogo quale il Quad (Stati Uniti, Giappone, India e Australia) creato nel 2007 e riportato in vita nel 2017.
Soffermiamoci su quest'ultima struttura. Al di là del fatto che il breve elenco menziona un Paese, quale l'India, che non solo fa parte del gruppo dei Brics ma che da sempre, pur in posizione di altalenante conflittualità con la Cina popolare, rivendica una postura diplomatica di indipendenza e autonomia dai blocchi di alleanze e mantiene stretti rapporti con la Russia, vi troviamo il Giappone che negli ultimi anni - con maggiore accelerazione durante il governo del premier Shinzo Abe - più si è speso per la prospettiva di un'alleanza asiatica in funzione anti-cinese e allineata con Washington. In tempi recenti il capo del governo Shigeru Ishiba - nei giorni scorsi uscito dalle elezioni politiche senza chiara maggioranza - ha reso pubblica, attraverso un lungo articolo pubblicato per l'Hudson Institute, la necessità di creare un sistema di autodifesa collettivo in Asia, su modello della Nato. Queste alcune delle sue parole: "L'Ucraina di oggi è l'Asia di domani. Sostituendo la Russia con la Cina e l'Ucraina con Taiwan, l'assenza di un sistema di autodifesa collettiva come la Nato in Asia significa che è probabile che scoppini guerre perché non c'è alcun obbligo di difesa reciproca. In queste circostanze la creazione di una versione asiatica della Nato è essenziale per scoraggiare la Cina". Prosegue poi: "Attualmente nella regione Indo-Pacifico, il Quad è stato elevato a livello di vertice e nel settembre 2021 è stato creato l'Aukus. Inoltre il rapporto in materia di sicurezza tra Giappone, Stati Uniti e Corea del Sud si è approfondito è istituzionalizzato attraverso regolari vertici, formazione congiunta e condivisione di informazioni, rendendo le alleanze bilaterali sempre più simili a un'alleanza trilaterale".
Si tratta dell'intelaiatura originaria da estendere progressivamente di cui abbiamo parlato sopra. Dal cielo dell'intenzioni tuttavia si deve pur scendere per affrontare il concreto terreno dei rapporti internazionali. Come scritto prima da un lato questo progetto sconta la recente debacle elettorale subita da Ishiba, dall'altro si scontra con le reticenze di diversi Paesi del Sud-Est asiatico, tutt'altro che favorevoli ad imbarcarsi in rapporti di alleanza esclusivi e impegnativi. Si pensi a quanto dichiarato dal ministro degli Esteri malese Hassan, secondo il quale un'alleanza di questo tipo sarebbe in contraddizione con i principi di inclusività e apertura che caratterizzano l'Asean". A sua volta il collega indiano Jaishankar ha ribadito che "non siamo mai stati alleati di nessun Paese e non abbiamo in mente questo tipo di architettura strategica". Sono parole che trovano ampio riscontro nell'area come sottolineano diversi osservatori e studiosi, tra cui segnalo Benjiamin Ho, professore associato presso la S. Rajaratnam School of International Studies di Singapore per il quale se da una parte è vista con favore una maggiore partecipazione del Giappone in materia di sicurezza, dall'altra "l'idea di una Nato asiatica non è qualcosa che sosterrebbero". Per Titli Basu (Università Jawahrlal Nehru) le posizioni del premier giapponese "hanno fatto cilecca a livello regionale" visto che non sono state oggetto di riflessione al recente vertice dell'Asean, tanto che il suo ministro degli Esteri Takeshi ha dovuto calmare i timori di molti suoi colleghi parlando di un'idea "da prendere in considerazione a lungo termine". Che ad oggi ci si trovi di fronte a un progetto privo di respiro lo suggerisce pure il fatto che la stessa Tokyo - Abe fino a Ishiba - ondeggia tra posizioni contrastanti tanto che Pechino è vista come ineludibile partner economico con la quale tessere, a sua volta, una proficua convergenza di interessi.
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