I B-52, le elezioni USA e la "scommessa" dell'Iran



PICCOLE NOTE

L’Iran ha dichiarato che risponderà all’attacco israeliano del 26 ottobre. Ciò avviene dopo che nei giorni successivi al raid le autorità iraniane avevano minimizzato i danni subiti e, di conseguenza, lasciato intendere che la querelle poteva considerarsi chiusa.


Gli Usa minacciano Teheran

Evidentemente i danni causati dal raid israeliano sono stati maggiori di quanto Teheran aveva dichiarato pubblicamente. E, soprattutto, fa intravedere una malcelata rabbia perché Israele non è stato ai patti, cioè a quanto concordato ai massimi livelli per limitarli (su Piccolenote avevamo accennato, tra le altre cose, anche all’arrivo a Tel Aviv, in quei fatidici giorni, di una delegazione russa di alto profilo).

L’irrigidimento iraniano sembra, però, anzitutto l’esito di un braccio di ferro interno tra l’ala più dura, i Guardiani della rivoluzione, e quella moderata che fa riferimento al presidente Masoud Pezeshkian, il quale cerca comunque di trovare una via di uscita dichiarando che un eventuale cessate il fuoco a Gaza attutirebbe la risposta iraniana.

Tentativo che non sembra destinato a un esito positivo, dal momento che la tregua nella Striscia non sembra all’orizzonte, come ha dichiarato dal capo del Mossad David Barnea (di questi giorni, le rivelazioni di come Netanyahu abbia inquinato le acque per far fallire i negoziati pregressi…).

La direttrice Teheran – Tel Aviv torna dunque ad arroventarsi, con gli Stati Uniti che cercano di dissuadere l’Iran dal reagire, sia comunicando che se Teheran attaccherà non potrà più fare opera di moderazione nei confronti di Israele, sia schierando in Medio oriente i famigerati B-52.

La decisione di Washington di schierare i suoi più rodati bombardieri è un chiaro monito, dal momento che finora si era limitata a dispiegare intorno a Israele una barriera difensiva fatta di Difese aeree e caccia.

L’arrivo dei B-52 segnala che Washington sta riflettendo, e non solo riflettendo, su un’azione offensiva. In tal modo gli Stati Uniti si getterebbero apertamente nella mischia, invischiandosi in una guerra regionale dall’incerto futuro, che, va ricordato, ha il suo brodo di coltura nel genocidio che si sta consumando a Gaza.

Questo improvviso precipitare degli eventi si registra mentre l’America è distratta da una tornata elettorale mai così cruciale, cosicché resta difficile capire chi sta veramente prendendo decisioni tanto rischiose in un momento come questo. Tanto a rischio che la nuova presidenza potrebbe prendere forma già segnata da una grande guerra in corso.

La nuova presidenza, cioè, avrà solo il compito di gestirla, sempre che riesca a farlo dal momento che la gestione potrebbe essergli sottratta dagli stessi ambienti che stanno apparecchiando tale fosco futuro.

La rigidità iraniana

Quanto all’irrigidimento iraniano, sembra fondarsi sull’idea che gli Usa non si impegneranno più di tanto, perché andrebbe a nocumento della più decisiva disfida globale con Cina e Russia. E perché i suoi arsenali sono stati logorati dalla guerra ucraina.

Ma soprattutto perché Teheran ha dimostrato che il suo rinnovato arsenale bellico può infliggere ferite mortali all’acerrimo rivale regionale. Reputa, cioè, che Tel Aviv e Washington eviteranno di premere troppo sull’acceleratore proprio per evitare che Israele sia spazzato via dalla faccia della terra insieme al suo competitor.

Insomma, la scommessa di Teheran si basa sulla MAD, Mutual assured destruction, che aveva frenato le velleità dei due antagonisti globali al tempo della Guerra Fredda. Il problema è che allora i contorni e le dinamiche dei conflitti erano più chiari, riproporre tale schema nel magmatico caos mediorientale può essere un azzardo.

Resta, però, come accennato in precedenza, che la conflittualità Teheran-Tel Aviv non può essere isolata dal resto dei conflitti mediorientali. Vi appartiene e ne partecipa nel profondo, da cui la difficoltà per Teheran di frenare mentre la controparte continua la sua marcia sfrenata.

Scatenata, cioè senza alcun vincolo (grazie soprattutto al supporto dell’alleato d’oltreoceano), Tel Aviv continua imperterrita a mietere morte e distruzione all’intorno, nella speranza che lo sterminio di civili convinca i combattenti della Striscia di Gaza e del Libano a più miti consigli. Tale la dinamica intrinseca in quella che la leadership israeliana definisce pressione militare.

Sebbene tale strategia non abbia avuto alcun esito in oltre un anno di conflitto, dal momento che le stragi di civili hanno solo aumentato la determinazione dei suoi nemici, Israele continua ad applicarla, nella convinzione che dia l’esito sperato, anche perché sul campo di battaglia, nonostante i successi branditi, non riesce a conseguire i risultati prefissati (l’esercito israeliano non è riuscito ancora a entrare in Libano e a Gaza i suoi soldati continuano a essere bersagliati).

Come diceva Albert Einstein la follia è fare sempre la stessa cosa aspettando risultati diversi. Difficile dire se una guerra su grande scala contro l’Iran insieme agli americani cambierebbe tale prospettiva.

Al netto dell’uso dell’atomica, sempre possibile – con conseguenze catastrofiche ad oggi imprevedibili – piuttosto che risolvere gli attuali problemi strategici israeliani, questo eventuale sviluppo sembra destinato a moltiplicarli, associando gli Stati Uniti ancora di più all’insano destino di Israele.

Detto questo, tutto è rimandato all’esito delle elezioni americane. Forse.

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