Piccole Note
A fine dicembre le forze israeliane hanno devastato l’ultimo ospedale attivo nel Nord di Gaza, quello di Kamal Adwan, dopo aver arrestato il direttore e i medici e aver sfollato i pazienti, cacciati dalla struttura in mutande, al freddo e al gelo, sotto il tiro dei soldati.
“Un video mostra una fila di persone sprofondate nella sabbia, in mezzo alle macerie; uomini nudi con le braccia alzate, circondati dai carri armati israeliani, umiliati quanto è possibile che un essere umano possa essere umiliato”, annotava Gideon Levy.
Al suo scritto, Haaretz aggiungeva un editoriale di fuoco contro gli assalti agli ospedali della Striscia, presi di mira fin dall’inizio della guerra. “Secondo i dati delle Nazioni Unite – annotava il giornale – 1.057 operatori sanitari sono stati uccisi dall’inizio della guerra a Gaza. Il sistema sanitario è collassato a causa dell’elevato numero di vittime, della distruzione degli ospedali da parte dell’esercito e della carenza di medicinali, posti letto e personale”.
Solo uno dei tanti orrori che si stanno consumando nella Striscia, dove anche gli operatori umanitari e gli aiuti sono bersaglio del fuoco israeliano, come da denunce dell’Onu, che a stento è riuscito finora a portare soccorso alla stremata popolazione palestinese e ora allarma sulla possibilità che anche questo residuale ausilio vada a cessare per l’impossibilità di far fronte al contrasto posto in essere dalle forze israeliane. Mentre i bambini continuano a morire, quando scampano alle bombe, di stenti e di gelo (BBC).
Orrori ormai quotidiani, che si perpetuano da tempo e che il mondo stenta ormai a denunciare, quasi si fosse abituato a tale brutalità. Peraltro, l’incalzare della cronaca altrove, dagli attentati in Germania e in America alla caduta di Assad, dalla nuova controffensiva ucraina ad altro, storna l’attenzione da quello che resta il focus della crisi globale, dal quale dipende molto del futuro prossimo venturo del mondo.
Infatti, come se non bastasse, la guerra di Gaza, meglio la devastazione di Gaza, si è trasformata in altro e ancora più pericoloso per la pace globale. Perché non è più solo il messianismo a muovere la macchina da guerra israeliana, ma anche altro.
Se da principio le pulsioni messianiche hanno fatto da motore all’invasione di Gaza e alle rinnovate aggressioni contro la Cisgiordania, trasformando un’operazione volta a eliminare Hamas in una guerra di conquista della Striscia (Haaretz), quel che sta accadendo all’intorno di Israele indica una spinta a più ampio raggio, che si intreccia con tale pulsione e la rilancia.
Ne scrive Dalia Scheindlin su Haaretz in un articolo dal titolo: “Israele sta davvero costruendo un impero in Medio oriente?”. Così nel sottotitolo: “Mentre le Forze di difesa israeliane si preparano a restare per un lasso di tempo indefinito sulle alture del Golan siriane e i coloni fanno la fila per entrare a Gaza e in Libano, diventa sempre più difficile respingere i discorsi sulla costruzione di un impero israeliano”.
Questo l’incipit dell’articolo: “Nei primi mesi del 2024, un collega arabo […] chiese cosa diavolo stesse cercando di fare Israele. Israele sembrava comportarsi come l’impero musulmano in espansione dell’alto Medioevo, disse il collega con ansia, pronto a conquistare l’intero Medio Oriente”.
“Sembrava una visione paranoica o quantomeno fortemente esagerata di Israele, identificato come un aggressore espansionista malvagio. È vero che la guerra di Israele a Gaza era già oltremodo brutale all’inizio del 2024 e io speravo ardentemente in un cessate il fuoco molto prima di allora. E già a fine gennaio era chiaro che elementi radicali della coalizione al potere avevano visioni folli sull’occupazione di Gaza”.
“Tuttavia, Israele non aveva un vero piano per la conquista di territori di altri paesi. Anzitutto, i palestinesi hanno solo la sfortuna di essere nati su una terra che gli ebrei credono essere stata loro affidata dalla Bibbia. Per consenso e a motivo della Realpolitik del XX secolo, le varie anime del sionismo hanno limitato persino la loro pretesa massimalista allo storico mandato britannico della Cisgiordania”.
Ma all’invasione di Gaza è seguita la guerra in Libano con le spinte a occuparne le regioni meridionali (l’annuncio del ripiegamento israeliano non dissipa i dubbi sulla provvisorietà di tale ritiro); quindi l’invasione della Siria, non solo la conquista delle alture del Golan, che Tel Aviv ha giustificato con ragioni difensive, ma anche di una “diga chiave nella zona meridionale di Quneitra”, grazie alla quale ha preso il controllo di importanti risorse idriche del Paese confinante (The Cradle).
Nell’accennare a tale espansionismo, la Scheindlin annota come, in parallelo, la magistratura israeliana stia procedendo contro il premier israeliano. Sarebbe facile liquidare tale processo come uno spettacolo, scrive, invece è tutt’altro: per quanto debole essa sia, Netanyahu si è dovuto piegare “all’autorità dell’unica istituzione in Israele [e ad oggi nel mondo ndr.] in grado di frenarlo: la magistratura ancora indipendente”.
Più importante la conclusione della Scheindlin: “Questa non è una battaglia alla pari tra le forze dell’imperialismo e della democrazia che stanno lottando per l’anima di Israele. Se la democrazia vince la battaglia, non può continuare a essere un occupante conquistatore e vincere la guerra. Questo è un conflitto asimmetrico; se Israele non cambia rotta velocemente, la parte più debole perderà”.
Tale spinta espansionista non è circoscritta alla conquista di zone confinanti con Israele, ma a fare di Tel Aviv il dominus dell’intero Medio oriente, progetto di cui il collasso della Siria di Assad è stato un momento epifanico.
Non sfugge l’accelerazione per innescare una guerra contro Teheran, ma anche le spinte sottotraccia, in combinato disposto con altre nazioni (le solite), per innescare un regime-change in Egitto, percepito come un competitor regionale.
Lo si deduce da un articolo di Nagham Zbeedat su Haaretz, nel quale si annota che “un’ondata di disordini sta prendendo piede online, mentre l’hashtag ‘È il tuo turno, dittatore’, rivolto al presidente egiziano Abdel Fattah al-Sissi, sta spopolando sui social media arabi”, innescando tensioni e paure al Cairo.
Non solo, Israele sta aiutando il Somaliland a ottenere l’indipendenza dalla Somalia, dalla quale da tempo si è reso autonomo, e il riconoscimento ufficiale da parte della comunità internazionale per potervi porre una base navale e controllare così il Golfo di Aden, sul Mar Rosso, dove transita il 12% del commercio globale. A Bibi non basta essere re, vuole diventare imperatore, un progetto che evidentemente suscita consensi e attira sponsor che ne incrementano la forza.
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