"Sonderweg": alle radici del cosmo russo

di Daniele Lanza

STRUMENTI DI NAVIGAZIONE [cap.1]

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Noi non capiamo loro. Loro non capiscono noi. Cose tanto piccole da sfuggire o viceversa tanto immense da non poter essere inquadrate, per la ragione opposta.

Troppo lontani e troppo vicini, irrecuperabile la giusta distanza per stabilire qualcosa di nitido nel campo visivo (nella comprensione cioè): le linee si confondono, tutto diventa indistinto e in quella nebbia ognuno, attraverso il proprio prisma, vede solo la superficie di quanto viene mostrato, o peggio gli si materializza cosa desidera. Come in mezzo al mare, siamo privi degli strumenti per stabilire coordinate di quanto si vede o decrittare correttamente i messaggi che ci pervengono dal mondo esterno: la mancanza di questi strumenti di navigazione ci rende ciechi (convinti di vedere) e pertanto è da qui che occorre partire. Come indispensabile anteprima vorrei quindi proporne due: “SONDERWEG” e “EXCEPTIONALISM”, rispettivamente A e B.

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A - “Sentiero speciale” o sonderweg: è il significato della parola scelta come titolo.

Può rendersi in tanti altri modi (“cammino separato”, “via distinta”, etc.), ma in generale è finalizzata ad esprimere il concetto di un percorso storico a parte per un determinato popolo.

L’espressione si riferisce a un modo di pensare che attecchisce nel corso del secolo XIX nella cornice del nascente stato pan tedesco, soprattutto tra le sue élite aristocratiche e borghesi, diventando parte centrale del discorso politico conservatore tedesco e in generale di un’epoca.

L’idea terrà banco, come si dice, per oltre un secolo, accompagnando il paese per una lunga finestra di tempo a cavallo tra il XIX e XX secolo, vale a dire da prima della sua unità nazionale legale, per arrivare al suo apogeo nazionalistico e quindi declino a seguito dei conflitti mondiali che ne determinano il disfacimento. In realtà anche dopo il ridimensionamento dello stato tedesco post-bellico che ne vede la scomparsa dall’arena del gioco delle grandi potenze, il concetto viene ancora una volta ripreso nella sfera intellettuale - inquadrato a posteriori sotto il termine “Sonderweg” – , stavolta finalizzato a intense riflessioni sul passato dello stato germanico, sul suo presente e sul suo futuro.

Cosa si intende per percorso separato o cammino speciale?

Una traiettoria storica di sviluppo che non ha a che fare con il mainstream delle altre nazionalità circostanti (che nel caso tedesco significa l’ensemble degli stati europei occidentali, cui si aggiungerà il nord America anglosassone, il quale poi a sua volta ne diverrà l’epicentro nell’ultimo secolo trascorso: “occidente” come lo si intende oggi). Lo stato tedesco delle origini – non la democrazia liberale odierna, ma la Germania prussiana estintasi con l’ultimo conflitto mondiale – malgrado per potenza e prestigio si collocasse allo zenit del vecchio continente, recava in sé la singolare tendenza a non omologarsi completamente con l’occidente di cui nominalmente faceva indubitabilmente parte: l’evoluzione sociopolitica prussiana – cuore della statalità germanica – tanto si distanziava dall’oriente slavo (quest’ultimo sì ritenuto estraneo agli occidentali) quanto dall’occidente atlantico e coloniale. C’è senz’altro del vero in questo considerando come veniva definito lo stato prussiano del tempo (“Non uno stato dotato di un esercito, bensì esercito dotato di uno stato”): la Prussia, forte della propria tradizione storica e dilatata territorialmente sino a formare uno stato imperiale pan germanico, si lancia alla conquista del mondo, senza potere (né tantomeno volere) risolvere l’intima anomalia di non appartenere del tutto a nessuna delle due dimensioni politiche e morali (OVEST-EST) riconosciute dal pensiero politico/filosofico coevo.

Una TERZA VIA si dirà, sempre a ragione, imprevedibile ed irripetibile, unica nel suo genere: la parabola storica tedesca nel tempo si rivelerà, come ben sappiamo, oltremodo infelice. Il concetto di fondo, tuttavia, resta attuale poiché a prescindere dal suo contesto di origine, esso è potenzialmente universale, potendo teoricamente applicarsi a qualsiasi altro stato, etnia, o gruppo umano o società (o persino al singolo individuo, su scala atomistica) il quale riconosca sé stesso come separato e distinto rispetto al proprio ambiente di teorica appartenenza. NON necessariamente un sonderweg comporta l’aggressione nei confronti di stati vicini, precisiamo: sebbene il concetto abbia costituito l’essenza del nazionalismo germanico, ogni contesto nazionale è un caso a parte, non esattamente comparabile. Un cammino speciale può intendersi anche come volontà conservativa e quindi DIFENSIVA di una specificità senza necessariamente passare all’aggressione (benché in fin dei conti il concetto di difesa e quanto possa estendersi sia un enigma)

Dovrebbe riguardarci questo prologo di filosofia politica?

Purtroppo, sì, perché in fondo è tutto. Il codice d’accesso all’enigma cui Vladimir Putin pone il mondo intero, si colloca nell’inafferrabile spazio che il “sentiero distinto” spiana di fronte a sé. Siamo di fronte all’unica chiave di lettura che possa condurci a una visione globale del fenomeno.

B - “Exceptionalism” ossia “eccezionalismo”: termine coniato dalla politologia contemporanea per indicare il credo nel fondamento non ordinario di un determinato stato nazionale che è espressione diretta di identità.

Il concetto in sé può applicarsi anche a molte altre forme di aggregazione umana (qualsiasi in teoria), ma è nella sfera politologica che trova il suo utilizzo più diffuso e la ragione è naturale: maggiore è l’ampiezza e la profondità di un patto tra persone, maggiore sarà la solennità, che vi si vorrà attribuire. Essendo lo STATO la massima forma di unione tra persone – riunite in tale alveo sotto denominazione giuridica di “cittadini” – è dunque il soggetto più idoneo a processi di sacralizzazione: altrimenti non può essere, considerata la potestà legale che vanta nei confronti dei propri contraenti (cioè la cittadinanza sulla quale esercita autorità giudiziaria e conseguente monopolio della forza), un potere che va giustificato con accorto ausilio di logica e psicologia. La questione della legittimità e del prestigio è fondamentale tanto nella politica interna, quanto in quella esterna ovvero agli occhi di popoli e governanti stranieri.

La civiltà giuridica ha visto dall’antichità fino all’ultimo secolo una tendenza costante, quello della “sfida intellettuale” tra gli stati – in primis quelli più grandi e potenti – finalizzata a darsi un maggiore spessore morale nell’arena geopolitica, ancor prima di venire alle armi sul campo : formule, rituali, appellativi e titoli magniloquenti, sfarzo, araldica e tutto quello di cui ci hanno informato i manuali sin dai banchi di scuola.

La necessità di fondamento morale è direttamente proporzionale all’ambizione della macchina (stato) in questione. Chi pretende di agire al di fuori degli schemi e dei limiti nel gruppo dei pari ha bisogno di motivazioni di ordine altissimo: solo questo può conferire un diritto superiore che autorizzi forza ed affermazione.

Nell’età premoderna l’elemento della fede (monoteismi abramitici per Europa e vicino oriente) è poderoso, sebbene tenda poi a ridimensionarsi gradualmente dalla prima età moderna in avanti – con l’affermarsi degli stati centralizzati e quindi una nazionalizzazione del principio di legittimità - fino ai prodromi di quella contemporanea che coincide con la Rivoluzione francese. Tralasciando l’analisi di ere remote e difficilmente comparabili e focalizzandoci invece sulla finestra cronologica bisecolare (1800-2000) che genera le strutture della società come la conosciamo oggi, possiamo individuare nella FRANCIA del 1789 il primo grande esempio di eccezionalismo: il vulcano di furore rivoluzionario della repubblica e i suoi ideali per la società a venire è la SORGENTE prima del fenomeno di cui parliamo. La Germania nazista è un altro esempio più prossimo e noi e fin troppo noto, tanto quanto l’esperimento socialista nella Russia bolscevica.

Gli STATI UNITI D’AMERICA costituiscono il maggiore modello tuttora esistente: del tutto analogo al caso francese (le due rivoluzioni nazionali sono cronologicamente molto vicine nell’ultimo ¼ del XVIII sec.), ne condivide in sostanza la carica messianica e universale di fede nel progresso e nella libertà (il proprio modello del concetto di eccezionalismo), ma pervasa di uno spirito protestante/puritano di fondo che rimedia alla frattura con la fede dei rivoluzionari francesi. Forse non ci si rende del tutto conto che lo stato a stelle e strisce è costituzionalmente il medesimo di allora, malgrado secoli di rivoluzione materiale e progresso sociale: a differenza dello stato francese, il cui status “eccezionale” verrà materialmente e psicologicamente ridimensionato da innumerevoli guerre contro i potenti vicini europei (la Francia degli ultimi 100 anni è sì una potenza, ma non più una superpotenza ), quello statunitense nel suo isolamento transoceanico non conosce sconfitta militare o umiliazione capace di piegarlo e ha continuato la propria evoluzione per conto proprio senza subire nessun confronto diretto (invasioni) che lo relativizzi. Questo è un elemento importante che si prega ti tenere a mente.

Significa in parole semplici che mentre l’ideale universale francese è oramai storia dei manuali (un vulcano spento), quello americano è arrivato al XXI secolo ancora attivo.

In ultima istanza l’Eccezionalismo è strettamente correlato al Sonderweg: ne è la linfa vitale, la ragione d’essere.

Maggiore è la dose di eccezionalità che uno stato si convince di avere, maggiore sarà fondata l’esistenza di un cammino separato che lo caratterizzi dagli altri.

Ha senso questo lungo excursus sulla dimensione morale degli stati per capire la situazione attuale? Assolutamente.

Entrambe le coordinate descritte sono parte indelebile della civilizzazione russa che andremo ad analizzare per coglierne il senso di fondo.

Alle radici del cosmo russo - TERZA ROMA [cap.2]

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Forti degli "strumenti di navigazione" fin qui acquisiti (cap.1) possiamo iniziare ad analizzare.

Esiste un fattore banale che immancabilmente confonde l’osservatore.

La sembianza fisica, la sagoma geografica fuori scala dello stato russo quasi sempre distrae l’occhio dell’inesperto rendendo meno scontato di quanto sembri capire COSA sta osservando, decrittandone la natura. E’ come se il nucleo storico/spirituale del paese risultasse annegato nella massa territoriale cucita attorno a sé in questi secoli. Occorre allora far sbiadire il contorno di quel lunghissimo confine che dalla Polonia va fino alla Cina e regredire sino a qualcosa di assai più minuscolo che tuttavia ne contiene il DNA: Bisanzio, rifondata in terra slava e capitanata da un suo principe - superstite tra i RUS - è per l’appunto la cellula che stiamo cercando.

Si tratta quindi di analizzarla con gli strumenti che abbiamo pazientemente assimilato fin qui.

La genesi dunque, quella Mosca tardo medievale (1450-1500) che, metaforicamente, si illumina come una fiaccola della cristianità nel vuoto di una landa remota punteggiata di torme turcomanne a cavallo, sulle macerie di quanto svariati secoli prima era stata la RUS - passato arcadico e irraggiungibile, età d’oro perduta - ora da lungo tempo smembrata, sfigurata sotto la duplice pressione di scimitarre tatare ad est o spade teutoniche e polacche da ovest, vede solo nemici - ad ogni punto cardinale - insidie in ogni angolo o, in alternativa, il nulla. Nessun alleato: troppo lontani i principi russi, troppo distanti dall’umanità (in ottica eurocentrica), nessuna convenienza a spingersi fino a quelle contrade sconosciute, nemmeno i pontefici della santa madre chiesa a Roma hanno volontà di intervenire e se lo fanno, peggio ancora, autorizzando crociate verso il nord, finiscono col favorire la penetrazione germanica dell’ordine teutonico nel cui mirino, dopo i pagani del Baltico, finiscono i russi stessi (!) a momenti bersaglio e vittima della crociata anziché soggetto da salvare.

Questa è la cornice entro cui scocca la scintilla. La gravità del contesto oltrepassa la soglia oltre la quale si innesca il meccanismo di difesa e la porta all’estremo opposto: Mosca allora non è più semplicemente un elemento qualsiasi della cristianità, ma ne è il suo fulcro! Costantinopoli spiritualmente, abbandona la sua base terrena sul Bosforo – occupata dall’Islam dal 1454 - e si reincarna a questa nuova latitudine. Il concetto di TERZA ROMA è uno dei pilastri ideologici (diremmo con mentalità odierna) dell’aggregazione politica pan-russa attorno ai sovrani moscoviti tra il XV e il XVI secolo; è al cuore del mito fondativo dello stato unificato degli slavi orientali che verrà (che conosciamo col nome di zarato di Russia). E’singolare notare l’ampiezza del disegno rispetto alla materia di cui si dispone nel momento in cui lo si tratteggia: nell’Anno Domini 1492, quando per la prima volta viene espressa formalmente l’idea dal metropolita di Mosca che parla del sovrano in carica (Ivan III) come del “nuovo Costantino”, uno stato unificato ancora nemmeno esiste sebbene se ne intraveda la rapida formazione. In pratica ancora non c’è un regno sul terreno, che già si adotta la mitologia di un IMPERO, trionfo dell’idea sulla materia: la prima precede di molto la seconda in questo caso, ne prepara il terreno, la costringe ad assumere le sembianze di una visione. Farebbe quasi sorridere – quanto un gattino che si vede leone, riflesso in uno specchio – non fosse che conosciamo già l’esito storico di lungo corso.

Sogni,visioni, mitologie, idee, Bisanzio e Roma, pontefici e imperatori…cribbio con COSA mai abbiamo a che fare?! Con qualcosa di “eccezionale”, nella misura in cui non risponde e si adegua ai normali meccanismi e regole degli altri stati (non completamente): entità eletta dal cielo che si muove al di fuori dei ritmi e degli spazi della realtà materiale. La santa chiesa di Roma si disinteressa di cosa accade ai cristiani slavi lasciati al loro destino? Non c’è problema: lo stato moscovita non ha bisogno di Roma, “diventa” esso stesso Roma (pardon, Bisanzio) e su tale fondamento messianico la crociata se la fanno da soli da quel momento in poi, facendo capitolare uno ad uno inesorabilmente tutti i potentati turco tatari adiacenti, dai più prossimi fino ai più distanti. Lo zarato di Mosca (ora “di Russia”) nello spazio di mezzo secolo – la vita di Ivan il Terribile – diventa un titano fagocitando più terra di quanta ne abbia l’Europa messa assieme e non si ferma alle barriere geografiche convenzionali: varca la soglia degli Urali dando inizio al processo di conquista dell’Asia boreale che si snoderà per i 3 secoli successivi.

La Russia delle età a venire vedrà cambiare più volte forma, colori e parole d’ordine a seconda del momento, ma la sostanza alla base rimane il principato moscovita delle origini: rivestito di volta in volta, eppure sempre il medesimo. Spogliato di tutti i dettagli, orpelli estetici e superstizioni della propria era remota, ridotto ad un’essenza che tuttavia mantiene e che si mantiene distinta dalla comunità di regni – grandi e piccoli – del resto d’Europa. Un grande e misterioso vicino alle porte orientali del nostro continente, i cui abitanti sono nell’aspetto simili agli europei, eppure, non lo saranno considerati mai (non del tutto).

L’identità messianica e ultraterrena del regno di IVAN IV – lo zarato di Russia che irradia la propria cristianità bizantina ad ovest e ad est di Mosca, ponendo le basi per l’impero territoriale che si vedrà in seguito – si ridimensiona, si standardizza nel corso del secolo seguente. Il 600 in effetti vede una successione di eventi chiave: la conclusione storica della dinastia rurikide (che governava sin dall’era RUS) che segna la definitiva cesura con l’era medievale e che tuttavia determina a sua volta un drammatico vuoto di potere alla base del collasso politico del regno agli inizi del secolo. I 15 anni di assenza di un vero monarca (squarciata la Russia dal conflitto dinastico) causano uno stato di debolezza tale da facilitare un’invasione polacca su larga scala che metterà a rischio l’esistenza stessa di uno stato russo (gli eventi del 1612, uno dei frangenti più critici per la nazione, parte integrante del discorso patriottico ancora oggi). Più avanti, verso la metà del secolo 40 anni dopo, si decide per lo strappo, il “raskol” che ridisegna la chiesa ortodossa russa riportandola su un binario di ordinarietà e compatibilità con la comunità delle altre chiese ortodosse, omologandola ad esse in un momento in cui era necessaria una vera comunità con esse in vista di espansioni territoriali e legami politici con altri popoli ortodossi. In parole altre l’edificio spirituale/statale dello zarato tardomedievale si aggiorna ai tempi, perdendo formalmente parte della propria eccezionalità. In realtà si tratta solo di un’impressione dal momento che siamo invece di fronte al primo esempio (un primo momento) di adattamento fisiologico dello stato al differente contesto in cui si viene a trovare: l’esteriorità si evolve, ed anche vistosamente a costo di affrontare perdite di consenso in modo da non danneggiare con eventuali rigidità gli interessi dell’intera macchina.

Ricapitolando : lo stato russo si genera in circostanze uniche e drammatiche di isolamento sin dall’era remota, per necessità autonomo da qualsiasi forza esterna a sé stesso: isolamento sacralizzato dall’elemento della fede che fa dello stato una vera e propria patria dello spirito ancor prima che della materia: uno “spazio dello spirito” dotato nel tempo di sagoma geografica ciclopica che pare corrispondere fisicamente alle ambizioni millenaristiche dell’ortodossia (a sua volta debitrice – come una capsula temporale - di quell’universalismo ellenistico inaugurato da Alessandro il macedone, che è il contraltare dell’universalismo latino che permea la chiesa cattolico romana). Ragionando in termini assolutamente astratti, come vuole la filosofia della storia, si potrebbe intravedere un grandioso e tragico filo conduttore che dagli abissi dell’antichità macedone vede l’affermarsi del concetto di impero universale di taglio greco come embrione capace di sopravvivere alla latinità (la quale vi si sovrappone senza poter cancellare il substrato) e trasfigurato da questa fino a “riformularsi” sotto le sembianze di impero romano d’oriente, liquefatto il quale – sotto la spinta degli eventi storici – si ricompone, come già detto, più a settentrione tra gli slavi allora ancora circondati da entità tatare.

L’imprevisto della storia sta nel fatto che quello che era allora un modesto regno di ambizioni regionali (zarato moscovita), vede invece un successo di conquiste territoriali che ne demoltiplica la prospettiva fino alla scala transcontinentale: in pratica quella che sul momento poteva sembrare una eccentrica sopravvivenza dell’ideale imperiale bizantino (in contesto decisamente improbabile) diventa invece una realtà per i secoli a venire, rimettendo per così dire tutto in gioco, quando da una prospettiva occidentale e romana un’idea di potenza ortodossa poteva sembrare storicamente concluso e per sempre.

La bizantinità sopravvive infiltrandosi nel dna statale russo che sopravvive a tutt’oggi malgrado centinaia di anni di intemperie.

Alle radici del cosmo russo: 1721-1921 DAI VASCELLI DI PIETRO ALLA CORRENTE ELETTRICA DI LENIN [cap.3]

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Il nostro “spazio sacro” pian piano sbiadisce con l’avanzare dell’età di mezzo della storia europea.

Siamo di fronte a un secondo momento, ancor più stravolgente, quando ritroviamo la riforma epocale orchestrata da Pietro il grande (primo ¼ del XVIII secolo), che sembrerebbe violare il canone di fondo del cosmo russo in quanto comparto geoculturale caratterizzato e distinto da quello occidentale. In effetti l’identità pienamente europea scelta dal nuovo zar è qualcosa di emblematico che contrasta radicalmente col concetto di Russia vigente al suo tempo, con la sua immagine prestabilita, qualcosa che esce fuori dalla storia (nel senso di uscire fuori del proprio destino naturale).

La questione ontologica che le riforme petrine schiudono è oggetto di riflessione sia nel momento in cui vengono messe in atto, sia nelle fasi storiche successive quando diverranno oggetti di studio, nonché - tra i circoli intellettuali - quesito accademico ai massimi sistemi in merito all’identità russa.

Le stesse correnti conservatrici e patriottiche contemporanee possono avere qualche frizione in merito: i più tradizionalisti sostenitori dell’idea eurasista sottolineano l’acuta contraddizione, lo strappo con una tradizione di autoctonia rispetto all’occidente, che si ricuce simbolicamente col ritorno della capitale in Mosca, sprofondata nello heartland russo, all’indomani della rivoluzione d’ottobre. Gli oppositori viceversa sostengono la scelta di Pietro il grande in favore della patria più forte che generò con le sue scelte. Nota oltremodo agli specialisti di filologia slava e filosofi la cesura morale mai sanata tra “occidentalisti” e “slavofili” che incendia il discorso culturale del XIX secolo nell’impero zarista: i primi sono favorevoli ad un’apertura nei confronti del mondo esterno, mentre i secondi mostrano invece un atteggiamento strenuamente conservatore in merito al nucleo di civilizzazione russa da preservare dalla minaccia di idee aliene ad esso. Per proporre un’analogia efficace che renda l’entità del contrasto si può affermare che mentre in occidente nell’impero kaiseriano contemporaneo infuriava la kulturkampf tra l’identità prussiana sostenuta da Bismark e l’influenza ecclesiastica cattolica, nel contesto russo imperiale tale battaglia di cultura concerneva il rapporto tra occidente e Russia ossia il tema esistenziale in merito all’identità russa

Ad essere sinceri tale diatriba perde senso se si adotta un criterio d’analisi di corso ancor più lungo – cioè se si considera la bisecolare parentesi imperiale russa in un più grande continuum che copre il mezzo millennio che arriva ai giorni nostri – e considerando una straordinaria elasticità mentale tipica degli antichi imperi: la Russia imperiale occidentalizzata di Pietro il grande, per quanto in antitesi con la tradizione autoctona è anch’essa a modo suo una estesissima e particolare fase di transizione del cosmo slavo orientale adottata al fine di SOPRAVVIVERE alle sfide della modernità, che un sovrano molto acuto già intuiva. Pietro il grande viaggiò fuori del suo paese, la Russia profonda, rendendosi conto – assai più dei suoi predecessori – di quanto fosse inadeguato il paese alla sfida che si sarebbe posta nel secolo entrante (1700): optò pertanto per una soluzione estrema, simile ad una terapia d’urto come adattare forzatamente il paese ai metodi e alle consuetudini dei suoi rivali d’occidente (che già allora si percepiva avrebbero presto controllato il globo). Diventare simili al proprio nemico, imparare da lui ed assumerne le armi proprio per evitare di esserne travolti un giorno: farlo meglio e il più presto possibile prima che sia troppo tardi (la stessa cosa che il Giappone imperiale tentò di fare a metà 800 per difendersi da europei e americani che bussavano alle porte! La Cina lo ha fatto a partire dal 900. La Russia semplicemente decise di farlo I-II secoli prima).

Siamo di fronte ad una vera contraddizione in termini: una Russia che accetta l’estremo sacrificio di trasformarsi dalle fondamenta al fine di sopravvivere e rimanere sé stessa o perlomeno mantenere un suo nucleo inalterato. L’identità russa consegnata al mondo dalle riforme petrine, cela dunque un dilemma: l’operazione di occidentalizzazione ha successo e la Russia recupera in qualche modo un’ideale imperiale (più standardizzato e razionalizzato) ma il prezzo estremo sta nell’allontanarsi dal suo alveo d’origine. La Russia si innova e si fortifica ma a costo di prendere a modello gli stati europei la cui civilizzazione è rivale a quella slavo orientale: il paradosso è una sopravvivenza assicurata assumendo la forma e le abitudini dell’avversario il cui modello si vuole evitare.

La contraddizione viene eliminata, spazzata via quando ancora altri 2 secoli più tardi un’onda sismica bussa alla porta nel 1917.

Si entra quindi nel secolo veloce (‘900): il paese, malgrado le centinaia d’anni d’espansione territoriale è nuovamente in situazione di drammatica inadeguatezza rispetto al mondo circostante che incalza e in particolare rispetto a quel “golden standard” che è l’occidente europeo (ed americano ora). La Russia imperiale agli inizi del XX secolo sta annegando infatti: prima nazione bianca ad essere sconfitta sul campo da un paese asiatico emergente (Giappone, 1904), percorsa da disordini, che infine si lancia nella mischia di quella grande guerra globale in gestazione da quasi 50 anni in Europa (la chiamiamo Prima guerra mondiale). Il conflitto che è la tomba della società liberale europea, per quanto riguarda la Russia significa la potenziale disgregazione di quanto si era costruito nelle centinaia di anni passati: il rapido disfacimento totale e la potenziale liquefazione della patria (in un contesto moderno di penetrazione sempre più rapida del pensiero occidentale) a rischio di perdersi definitivamente.

Eppure, no: guarda caso anche in tale frangente disperato accade qualcosa (accade sempre “qualcosa” come in base ad un indecifrabile equilibrio della storia). La Russia profonda si solleva, abbraccia la rivoluzione popolare (1917), scagliandosi con vigore mai visto contro tutti i suoi nemici, interni ed esterni: le antiche nobiltà di stampo germanico - che costellavano l’aristocrazia imperiale – scompaiono, la dinastia imperiale viene eliminata, la capitale lascia le sponde del Baltico per tornare ad essere un punto nel cuore della Russia centrale. In generale cala una cortina di separazione tra il cosmo russo e il resto d’Europa che sembrava esser stata superata alle soglie dell’era contemporanea, quando si pensava (probabilmente) che più nulla oramai poteva tener separati i popoli in impermeabile isolamento.

E’ come se la parte più profonda del paese (il popolo slavo essenzialmente), dopo secoli di torpore, si fosse decisa a rovesciare tutto e tutti, liberandosi di quella sovrastruttura imperiale che un tempo era stata la sorgente di forza del paese, ma che ora ne era al contrario la catena che ne intralciava lo sviluppo relegandolo allo stato di arretratezza che ne sanciva la sconfitta, come la grande guerra aveva insegnato. Tempo dunque di tornare a quell’autonomia di pensiero, quell’autosufficienza che esisteva in un tempo remoto ormai dimenticato sotto l’egida dinamica del verbo socialista: insolita, ma efficace l’affinità tra l’ideologia socialista e l’antica mentalità slava (poco prona al mercantilismo e capitalismo anglosassoni) e in parole semplici il marxismo-leninismo poteva ben rappresentare la nuova e più appropriata veste di quel nucleo di civilizzazione autonoma ed esprimerne il messaggio alternativo con il linguaggio e l’energia adatta ai tempi correnti.

Anche in questo caso – come al tempo di Pietro il grande – a casi estremi, estremi rimedi: la frattura tra passato e presente è totale, la faglia di divisione con l’anacronistico passato è profonda. Come vorranno i teorici della Rivoluzione d’ottobre (di ieri e di oggi), essa costituisce un evento che “esce fuori della storia” ovvero fuori della routine convenzionale del destino che aveva accompagnato la storia dell’umanità fino a quel momento, per inaugurare una nuova umanità

Perlomeno questo avrebbe voluto la retorica comunista. La rivoluzione socialista dei bolscevichi “esce” dalla storia esattamente come ne “esce” la rivoluzione imperiale di Pietro il grande tanto tempo prima: la ragione e le circostanze sono le medesime del resto. Si tratta di SALVARE il grande paese e il suo cuore dal potere delle forze esterne ad esso, rafforzandolo, modernizzandolo con misure draconiane, anche a scapito del consenso…modernizzare il corpo della nazione anche contro la sua volontà per il suo stesso bene (con la speranza che un giorno ringrazierà, come un giovanotto inesperto che dopo grida ed urla un giorno riconoscerà la saggezza del proprio educatore di un tempo). Prodigiosi saranno gli effetti del 1917, riportando una civilizzazione russa in decadenza di nuovo nel novero delle potenze planetarie del secolo XX. Tanto si potrebbe dire sulla rivoluzione socialista che la Russia fa propria, ma più di ogni cosa questo: nell’invertire il trend di decadenza dell’impero recupera quell’eccezionalità perduta, che era la fede ortodossa dei primi tsar dal XVI sec in avanti, sacrificata in nome di un più moderno, ma secolarizzato spirito imperiale da Pietro il grande nel XVIII. L’era socialista (almeno nelle premesse) non soltanto si sbarazza di un vestito ormai anacronistico come l’impero, ma addirittura lo supera tornando In UN CERTO SENSO alla carica universale della cristianità di Bisanzio (debitrice alla lontana dell’ellenismo stesso) in quel faro dei popoli che era l’entità sovietica, provvista di ineguagliabile ideale di giustizia sociale ed internazionalismo (…). L’Unione Sovietica torna ad incarnare una “patria dello spirito” come era quella di secoli addietro, anche se in differente ed inimmaginabile guisa: i bolscevichi in tale prospettiva (eterodossa per i più) i veri ed autentici salvatori della patria che ne ristabiliscono il destino naturale sotto la guida di Lenin, mentre i bianchi si ritrovano nello sgradito ruolo di falsi nazionalisti, combattenti a sostegno di una Russia (occidentalizzata) che non è quella reale, che deraglia dalla sua prerogativa “autoctona”.

Lungi dall’essere eterno il faro dei popoli tuttavia.

L’esperimento socialista sovietico si arena all’improvviso dopo sette decadi, riportando nuovamente al disfacimento della patria come 70 anni prima: riparte quel moto di disgregazione che lo stato nato dalla rivoluzione bolscevica aveva arrestato per buona parte del secolo XX.

Tempo di perestroika, Gorbachev e quindi Eltsin (si sa pressoché tutto) e quel tragitto che ci porta sino a noi oggi.

Mi sono addossato la responsabilità di dare al lettore una visione globale delle cose (obiettivo arrogante più che ambizioso, eppure le circostanze autorizzano almeno un tentativo). Cerchiamo di andare al punto della situazione e cerchiamo di concludere Torniamo idealmente all’incipit di questa serie di capitoli, con il prossimo e conclusivo… SONDERWEG -

Alle radici del cosmo russo: CICLI DELLA STORIA. FINE [cap.4]

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COSA è la Russia? Cosa NON è?

Quello che chiamiamo “Russia” e che identifichiamo con i confini politico amministrativi tratteggiati sulle carte non è quanto pensiamo o meglio, lo è solo in parte. La Russia – l’entità unitaria panrussa emersa nella prima età moderna, sopravvissuta sino ad oggi attraverso innumerevoli mutazioni – sebbene ovviamente detenga lo status legale di stato, non lo è nella stessa accezione in cui lo sono i suoi analoghi europei ad occidente e questo per ragioni di fondo che a loro volta sollevano quesiti ultimi, come la natura e il significato dello Stato stesso – in generale – e il suo rapporto con la società.

Per rimarcare la distanza tra il modello russo e gli stati europei si cita normalmente la dimensione geografica non comparabile naturalmente (che la Russia non sia uno stato nazionale in senso europeo è lapalissiano), ma nel fare questo si sorvola un elemento che ha più a che fare con la metafisica che con il materiale: l’analisi filosofica ha suggerito che altro non si tratti che di Costantinopoli, metafisicamente eiettata dal Bosforo e riemersa oltre 1000 km a nord nel cuore della pianura slavo orientale, entro i piccoli confini di un principato russo: a quest’ultimo, inizialmente minuscolo depositario simbolico della tradizione greca, le circostanze storiche permettono però di ingigantirsi all’inverosimile riproponendo l’impero bizantino (o quello ellenistico di Alessandro addirittura, per essere visionari all’iperbole) idealmente traslato su differenti coordinate geografiche.

Benché le circostanze e quindi le strutture materiali mutino con l’andare del tempo, il substrato concettuale “universale” (che è il proprio SONDERWEG e al tempo stesso eccezionalità) tende a persistere, ridipingendosi di era in era a seconda del caso (con le tendenze o ideologie del momento): l’andamento imponderabile degli eventi porta lo stato russo ad allontanarsi e scollarsi talvolta dalla propria “unicità” o “eccezionalità” per poi tornarvi inevitabilmente come per una legge della fisica, allorché questa distanza dal sonderweg diventi intollerabile. Abbiamo dunque a che fare con un fenomeno analizzabile col metro della storia di lunghissimo corso: l’andamento ciclico di una civilizzazione. L’andamento ciclico della storia russa si percepisce alla luce dei passaggi che si sono visti nei capitoli precedenti: la Terza Roma si affievolisce si secolarizza (non riesce a far fronte alla secolarizzazione che investe tutto l’emisfero europeo) lasciando sul terreno un già grande aggregato territoriale che però è troppo fragile per affrontare le sfide dell’era nuova. Serve pertanto un nuovo “credo secolare” che Pietro il grande fornisce al paese trasformando il vecchio zarato in IMPERO RUSSO: Pietro Romanov che probabilmente realizzava la vulnerabilità del vecchio stato, bene memore del quasi annullamento agli inizi del secolo stesso per opera dei polacchi, decide dunque per un ritorno al concetto di “eccezionale” che si stava perdendo, tramite la sua idea di stato. Recuperare l’eccezionalità è una zona di passaggio TRAUMATICA, dal momento che per alterare l’andamento storico in corso occorrono misure radicali: così come quasi due secoli avanti Ivan il terribile carica con ideali messianici il proprio giovane zarato lanciandolo in imprese per l’epoca titaniche, Pietro il grande a sua volta sfigura il volto della società russa del suo tempo, ne attua una metamorfosi di prima grandezza consegnandola temporaneamente all’occidente.

Quando l’impero è oramai decadente e non può più servire allo scopo di difendere la sacralità dello spazio russo da interferenze esterne (ma anzi si va verso il collasso e lo smembramento territoriale) allora tutto si rimette in moto: in questo frangente una forza si interpone per impedirne la fine e questa è rappresentata dai bolscevichi stessi che invertono dalle fondamenta il moto di decomposizione dello stato russo (bramato dai suoi rivali). Nel riportare la capitale da San Pietroburgo a MOSCA, simbolicamente pongono fine non solo alla parentesi imperiale, ma anche alla parentesi OCCIDENTALE del paese, recuperando in un solo colpo non soltanto un’ideale universale (nell’ideologia socialista) , ma anche recuperando il destino distaccato dall’occidente della civilizzazione russa: il sonderweg, il cammino separato (in questo caso nei confronti dell’occidente) è recuperato nella cortina di ferro che cala attorno al primo stato socialista al mondo (perlomeno in prospettiva nazionalista e “autoctonista” si può interpretare così la dinamica).

Il processo rivoluzionario con quanto consegue, è il cataclisma che si abbatte sulla società russa della prima metà del 900, eppure anche questo in un’ottica patriottica è un male necessario: polverizzare i muri del presente, tramite una purificazione militare – per quanto traumatico - onde evitare che la sua decadenza trascini nel baratro finale (pathos dell’avvicendarsi di crepuscolo e rinascita).

Questo cammino ci porta i nostri giorni: l’era sovietica che per buona parte del secolo puntella il paese, si dissolve aprendo la strada allo spettro della disintegrazione territoriale impedita 70 anni prima. Non solo è in gioco la Russia “estesa” ovvero il suo hinterland di repubbliche post-sovietiche, ma ora lo stesso HEARTLAND è a rischio: a rischio di smarrire sé stesso, come ebbro di idee estranee alla propria tradizione ancestrale nell’era della comunicazione di massa, della globalizzazione, che agiscono come veicoli formidabili della dominanza occidentale sulla cultura planetaria con tempistiche di rapidità sconosciuta al passato.

Ancora una volta la storia si ripete dunque! Come al tempo di Ivan IV, come al tempo di Pietro il Grande, come al tempo della Rivoluzione d’ottobre, assistiamo ad un momento di grave crisi non solo dello stato russo, ma della stessa IDEA RUSSA ovvero in quanto civilizzazione a sé stante. La tragedia del decennio Ieltsiniano seguita da un “salvatore” nel ventennio a seguire non è dunque strana, ma al contrario segue perfettamente la logica di riassestamento del “destino”: varcata la soglia critica, si mette in moto qualcosa che si muove in direzione opposta per salvaguardare il “nucleo” della civiltà.

Vladimir Putin risulta quindi essere una di quelle enigmatiche (o tragiche) figure, quali statisti o sovrani che loro malgrado si trovano in fasi di passaggio: di coloro che trovano dietro sé macerie e dinnanzi a sé l’ignoto, dovendo farvi fronte con i mezzi che hanno. Se una spiegazione (non giustificazione) si potesse trovare per l’attuale presidente di Russia si potrebbe dire che è una persona ordinaria in circostanze (per il proprio paese) NON ordinarie: e disgraziatamente non si può far fronte a circostanze straordinarie con mezzi ordinari. In ottica russa nazionalista e considerato il contesto altro non sarebbe che uno strumento della storia, cui è affidato l’arduo compito di restaurare il giusto sentiero per la propria civiltà rimettendone in sesto la struttura materiale che si chiama stato.

La “creatura” in questione – al di là della formalità giuridica – NON è uno stato nazionale e nemmeno uno stato multietnico (come si vantano d’essere i più moderni stati d’occidente): è uno stato sovranazionale ovvero sé stesso ed al tempo medesimo più di questo, definendosi proprio in quella che per noi è una contraddizione in termini (ma la stessa tradizione cristiana non vede forse tre entità in una sola??). Si può evitare di sprofondare nella trappola semantica semplicemente superandola ed arrivando alla comprensione che quella russa è una forma di civilizzazione indipendente, a sé stante. Quella cui abbiamo assistito in questo ultimo mese tra Russia e Ucraina NON è una guerra tra due stati, ma una guerra CIVILE (interna alla “sopranazionalità” russa) e l’attrito trasformatosi in seconda guerra fredda tra paesi dell’occidente e Mosca NON è un conflitto tra stati (come la storia della diplomazia ci direbbe) bensì un confronto di civiltà: quella occidentale di stampo latino e germanico – immensa e frammentata in una moltitudine di stati e lingue diverse, mentre dall’altro quella russa di stampo bizantino, entità più limitata demograficamente ed economicamente, ma altrettanto grande geograficamente, unificata politicamente e linguisticamente e non priva di risorse naturali ed alleati (soprattutto). Questo il corretto modo – benché troppo astratto per molti - di leggere le cose.

Il presidente legale (Vladimir Putin) dello spazio territoriale coincidente con tale civilizzazione ha come deciso – consapevolmente o meno – di assumersi un complesso ruolo storico che lo inserisce nel solco dei predecessori in quell’andamento ciclico che abbiamo tentato di descrivere. Una sfida molto ambiziosa considerato il grado di permeabilità del mondo odierno rispetto a secoli ed anche solo generazioni passate: COME ritornare al proprio sonderweg nel XXI secolo? L’unica cosa certa, osservando l’andamento ciclico è che produrre il riavvicinamento comporta fiumi di sangue o in ogni caso un sacrificio collettivo di entità non calcolabile.

Il Sonderweg è in buona parte idea: reggerà la società russa al prezzo richiesto per tornare all’”idea” rinunciando al bene materiale che la generazione di apertura al mondo esterno ha portato? Non occorre perdersi in una diatriba “idea-materia” degna di Platone e Aristotele per carità (!), basti riflettere più concretamente sulla determinazione che caratterizza ogni suo passo a partire dall’inizio del conflitto: l’indifferenza riguardo lo scollegamento della Russia da molti benefit offerti dalla civiltà del consumo e della rete internet (dai fast food ai social network) è prova lampante di un atteggiamento particolare…non si odia l’occidente, ma se ne può fare a meno. Forse si invita a farne a meno: non si negano le comodità occidentali al proprio popolo, ma si ottiene che sia l’occidente a toglierle ottenendo così un doppio vantaggio: l’influenza materiale occidentale si attenua e non si potrà incolpare (direttamente) lo stato russo per questo (dall’esterno si dirà che è la Russia ad aver iniziato il conflitto, meritandosi la risposta, ma da una prospettiva interna non è così: la popolazione , che in generale supporta il proprio stato, se non il governo, attribuirà la colpa alla negatività occidentale contro i russi. Si incolperà il mondo esterno e non la Russia in sé). In sintesi, efficace e dura come la pietra: nemmeno la minaccia di uno scollegamento totale dall’internet globale pare aver sortito un effetto significativo, nei giorni peggiori.

Concludiamo.

Riguardo il presidente concluderemmo che oramai – prossimo alla pensione – si è addossato un ruolo che va ben oltre la vita mortale di alcuno, fuori misura. Ha rinunciato ad un comune successore preferendo invece prendere una decisione storica che avrà obbligatoriamente riflessi su qualsiasi successore avrà mai: ha rimesso in moto la catena degli eventi, ha prodotto un’alterazione nello scorrimento temporale (per parlare come in fantascienza) della storia per il secolo in questione. Questa la sua eredità a prescindere da come vada.

Vladimir Putin è un uomo profondamente solo, non compreso né dai nemici e nemmeno dagli amici, da coloro che ne sostengono le cause per pura fedeltà, dalla folla urlante che pure lo applaude per fisiologico trasporto patriottico, ma senza capire l’essenza intima delle sue ragioni. Un uomo che lascia ai suoi successori un enigmatico vuoto: COME farà la Russia a difendere il proprio nucleo vitale e il binario prestabilito (sonderweg) nel contesto globalizzato del XXI secolo? Quale energia si utilizzerà per rendere coesa la società? Ideologia? Fede dinastica? Fede religiosa? Tutte sono esaurite storicamente e nulla di nuovo è stato proposto: il VUOTO è il peggiore nemico della Russia (non gli USA o la Nato), la più macroscopica lacuna che nemmeno l’uomo “del destino” ha potuto per ora modificare: l’assenza di un verbo materiale attraverso il quale l’idea russa possa reincarnarsi come nei secoli passati, di volta in volta. Nessun nuovo anello dell’andamento ciclico è stato forgiato per questa fase di passaggio: possiamo quindi concludere che Putin nello scegliere uno “stato di cose” (o ritorno al sonderweg) anziché un successore in carne ed ossa ha optato per una variante grandiosa nell’uscire di scena…solo che al momento è monca. Come un regista che ha una grande sceneggiatura, ma di fatto scarso budget per realizzarlo sullo schermo (per metterla così).

I cicli passati sono analizzabili, ma quelli futuri sono imponderabili. Il XXI secolo vedrà.

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