di Francesco Sirleto - La Fionda
La “splendida e misera città”, ovvero le “borgate beduine” come fonti inesauribili di ispirazione per la poesia, la narrativa e il cinema di Pier Paolo Pasolini
“Più volte nel pertugio contro il biancore/ della notte che si perdeva/ oltre le Casiline del mondo,/ sparì e riapparve la testa del destino,/ con la dolcezza ora della madre meridionale/ ora del padre alcolizzato, sempre la stessa/ testolina arruffata e polverosa, o già/ composta nella vanità di una giovinezza popolare:/ e io,/ ero coi sensi ad ascoltare/ la voce di un altro amore/ – la vita nei secoli – / che si alzava purissima nel cielo. (P. P. Pasolini, da Una disperata vitalità, nella raccolta Poesia in forma di rosa, 1964).
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Come scrisse Alberto Moravia in un celebre articolo (“Ma che cosa aveva in mente?”), pubblicato su L’Espresso del 9 novembre 1975, Pier Paolo Pasolini, immigrato a Roma nel gennaio del 1950, e venuto a contatto con la realtà sociale e umana delle borgate della periferia est della Capitale, ebbe l’opportunità di fare quella “grande scoperta” destinata a cambiargli la vita e, aggiungiamo noi, a svolgere un ruolo essenziale nella sua tragica morte. Questa grande scoperta, afferma Moravia, è “…quella del sottoproletariato, come società rivoluzionaria, analoga alle società protocristiane, ossia portatrice di un inconscio messaggio di ascetica umiltà da contrapporre alla società borghese edonista e superba. Questa scoperta corregge il comunismo, fino allora probabilmente ortodosso di Pasolini; gli dà il suo carattere definitivo. Non sarà, dunque, il suo, un comunismo di rivolta, e neppure illuministico; e ancor meno scientifico; né insomma veramente marxista. Sarà un comunismo populista, “romantico”, cioè animato da una pietà patria arcaica, un comunismo quasi mistico, radicato nella tradizione e proiettato nell’utopia”. E questo comunismo utopico, aggiunge Moravia, era caratterizzato dall’essere “sentimentale”, vale a dire irrazionale, e soprattutto intriso di contraddizioni.
Un’altra annotazione molto rilevante aggiunge Moravia, e cioè che quella scoperta determinò la nascita “… nella storia della letteratura italiana di qualche cosa di assolutamente nuovo: una poesia civile di sinistra. La poesia civile era sempre stata a destra in Italia, almeno dall’inizio dell’Ottocento a oggi, cioè da Foscolo, passando per Carducci su su fino a D’Annunzio. I poeti italiani del secolo scorso avevano sempre inteso la poesia civile in senso repressivo, trionfalistico ed eloquente. Pasolini riuscì a compiere un’operazione nuova e oltremodo difficile: il connubio della moderna poesia decadente con l’utopia socialista. … La poesia civile di Pasolini nasce … in una letteratura da tempo ancorata su posizioni conservatrici, in una società provinciale e retriva”.
A questo punto conviene interrompere la lettura dell’articolo di Moravia (anche perché nella seconda parte di esso si incomincia ad analizzare la “mutazione antropologica” alla quale quel sottoproletariato, nel quale si era imbattuto Pasolini, andò incontro a partire dagli anni sessanta, per effetto del boom economico) e cerchiamo di individuare, invece, e sia pure sinteticamente, quali furono gli effetti, sul piano artistico, di quella “grande scoperta”.
La “splendida e misera città”
E’ universalmente noto che, fin dal primo momento nel quale Pasolini fu costretto a lasciare il Friuli e a trasferirsi a Roma (gennaio 1950), la sua conoscenza della capitale d’Italia, più che con la “splendida” città costituita dai resti dell’antica e dai monumenti della Roma rinascimentale e barocca, è determinata dai contatti e dai rapporti (destinati a diventare duraturi e fertilissimi dal punto di vista artistico) che il poeta comincia ad intrattenere con la realtà sociale e urbanistica delle borgate della grande periferia che sta crescendo, disordinatamente, al di fuori delle mura aureliane. E’ la “misera” città, quindi, che, come vedremo, assume fin da subito un ruolo straordinario nella poetica e nell’ideologia pasoliniana e, sul piano formale, sul linguaggio da lui impiegato nelle opere.
Nel 1951, dopo un anno di coabitazione forzata a piazza Costaguti (nel ghetto), Pasolini e la madre si trasferiscono in una modestissima casa nella lontana borgata di Rebibbia. Da qui, dopo aver ricevuto un incarico di insegnante precario in una scuola media di Ciampino (nella quale rimarrà in servizio per tre anni), Pasolini inizia la capillare e sistematica conoscenza di tutte le borgate che, al di fuori delle mura aureliane, si estendono tra la Tiburtina e l’Appia: Pietralata, Ponte Mammolo, Tiburtino III, Gordiani, Quarticciolo, Centocelle, Pigneto, Torpignattara, Quadraro, Acquedotto Felice, Mandrione, Acqua santa, Borghetto Latino, ecc. A Torpignattara egli conosce i fratelli Citti, Sergio e Franco, che gli fecero da “maestri” nell’apprendimento del dialetto romanesco, non più quello del Belli, bensì quel miscuglio ibrido e imbastardito di romanesco e vari dialetti dell’Italia meridionale che era la lingua parlata in quell’ambiente. Il luogo che funse da scuola di linguaggio si trova in via Torpignattara n. 18, là dove sorgeva la famosa trattoria-pizzeria “L’Aquila d’oro”, da lui e dai fratelli Citti e dai loro amici frequentata per anni, ameno una volta a settimana. Inoltre, a circa un chilometro da via Torpignattara, sulla Casilina, inizia l’attuale Parco Archeologico di Centocelle (l’allora “pratone”), teatro di frequentazioni notturne del poeta.
Insomma, siamo nella periferia rappresentata nelle più famose opere pasoliniane, attraverso descrizioni di una realtà effettivamente molto difficile (le baraccopoli, le borgate “beduine”, polverose d’estate e fangose d’inverno), da lui conosciuta e amata, fortemente e profondamente, e fin nelle viscere, nella sua caoticità e materialità, nella sua corporalità, ma anche nei suoi aspetti spirituali (i sogni, i desideri, i pensieri, la voglia di riscatto di quell’umanità così misera e disperata).
L’incontro con la realtà sociale delle borgate periferiche indusse Pasolini ad approfondire le problematiche, soprattutto letterarie ed educative (imperniate, queste ultime, sul ruolo degli intellettuali in una riforma intellettuale e morale del popolo) affioranti dalle riflessioni di Antonio Gramsci, che egli aveva già incominciato a studiare fin dalla pubblicazione, nel 1948, della prima edizione dei Quaderni del carcere. L’importanza e l’esito di quest’incontro e degli studi condotti da Pasolini sono rappresentati da quella raccolta di poemetti, pubblicata da Garzanti nel 1957, che si intitola Le ceneri di Gramsci, all’interno della quale si pone, quasi come dichiarazione di poetica, il poemetto omonimo, del 1954 (frutto di una visita di Pasolini alla tomba di Gramsci nel cimitero acattolico), che dà il nome alla raccolta stessa e nel quale si esprime, con totale e solare evidenza, quella “poesia civile” di cui parla Moravia nel citato articolo del 1975.
Per poesia “civile” ma, più in generale, per letteratura “civile” o, in termini gramsciani, “nazional-popolare”, Pasolini intende una letteratura che non rimanga (come era rimasta per secoli) nella ristretta cerchia dei pochi intellettuali (la maggioranza dei quali da sempre al servizio dei potenti), ma che si apra alle classi più umili e, soprattutto, sia rappresentativa dei problemi, della vita quotidiana, delle istanze e delle rivendicazioni di queste classi, svolgendo così una funzione educativa e proponendosi quindi come formidabile strumento di riscatto sociale. Una letteratura della “marginalità”, dunque.
Niente, infatti, era più marginale dei personaggi che popolavano queste periferie, marginali perfino rispetto al modello di “masse proletarie” che il partito comunista si era creato come necessaria base sociale (nonché di militanza ed elettorale) di riferimento. Erano marginali quei Ragazzi di vita (Riccetto, Lenzetta, Caciotta, Alduccio, Begalone, Sgarone, Pecetto, ecc.) che popolavano le storie e i racconti confluiti nell’omonimo romanzo del 1955 e che, in seguito, riappariranno con altri nomi e nomignoli in Una vita violenta, del 1959. Quei personaggi (così amorali e privi di aspirazioni di rinnovamento politico, e rinchiusi in un loro asfittico piccolo mondo, tra baretti e furtarelli, e nel quale l’unica ragione di vita sembrava essere la sopravvivenza quotidiana) risultavano però “sospetti” ad una certa intellighenzia comunista (critici letterari soprattutto) che stentava ad assorbirli nella tradizionale nozione di “proletariato”. Rispetto a questi critici, autodefinitisi intellettuali organici del PCI, che si atteggiavano a ortodossi interpreti del pensiero gramsciano (un esempio tra tutti: Carlo Salinari), Pasolini si sentiva distante e portatore di una diversa visione del concetto di “classi subalterne”.
D’altra parte, soltanto un “marginale” ed “emarginato” e/o “diverso” come lo stesso Pasolini si era sentito dopo la cacciata dal Friuli e la sua discesa nell’inferno di borgate e baraccopoli costituenti la periferia est di Roma, poteva sentire in sé la scissione che si porterà dietro fino all’ultimo istante della sua vita.
La scissione, si è detto; da una parte vi è la “coscienza”, vale a dire la consapevolezza della missione di cui, come intellettuale, egli si sente investito: lo sforzo educativo nei confronti di un sottoproletariato fermo allo status naturae, nel quale prevalgono gli istinti più elementari; dall’altra l’estetica passione, anzi l’amore per una vita “proletaria” ancora pura, primigenia, agitata dal calore degli istinti. E questa sensazione di contraddittoria scissione, nella quale a prevalere non è tanto l’aspetto del magistero intellettuale, quanto piuttosto l’intima e sentimentale partecipazione e condivisione, viene mirabilmente espressa nei versi de Il pianto della scavatrice, che si apre con le parole “Solo l’amare, solo il conoscere/ conta, non l’aver amato,/ non l’aver conosciuto. Dà angoscia/ il vivere di un consumato/ amore. L’anima non cresce più”. E, nella seconda parte dello stesso poemetto, Pasolini (che, nel momento in cui scrive, ha ormai raggiunto una posizione di intellettuale borghese non più coinvolto dalla dura lotta per l’esistenza nella quale era stato costretto nei tre anni, 1951-1954, di residenza nella lontana borgata di Rebibbia) esprime la sua struggente nostalgia per la città delle borgate e dei ragazzi di vita.
Rievoca così, con versi a volte accorati e dolenti, il tempo in cui “Povero come un gatto del Colosseo,/ vivevo in una borgata tutta calce/ e polverone, lontano dalla città/ e dalla campagna, stretto ogni giorno/ in un autobus rantolante:/ e ogni andata, ogni ritorno/ era un calvario di sudore e di ansie”. Ed è proprio in contatto con quell’umanità, sottoproletaria, fatta di uomini e di ragazzi “ridenti e sporchi”, “allegri e feroci”, un’umanità di “giovani invecchiati tra i vizi di chi ha una madre dura e affamata”, non ancora “educata” alla lotta di classe per il cambiamento in senso socialista della società borghese, ma dispersa in una realtà “umile e sporca, confusa e immensa, brulicante nella meridionale periferia”, che Pasolini ha conosciuto nel profondo, innamorandosene visceralmente, la “stupenda e misera città”; quella città nella quale egli ha imparato “le piccole cose in cui la grandezza/ della vita in pace si scopre”, come, ad esempio, “andare duri e pronti nella ressa/ delle strade; rivolgersi ad un altro uomo/ senza tremare … a difendermi, a offendere, ad avere/ il mondo davanti agli occhi …/… a capire/ che pochi conoscono le passioni/ in cui io sono vissuto:/ che non mi sono fraterni, eppure sono/ fratelli proprio nell’avere passioni di uomini/”; stupenda e misera città “che mi hai fatto fare/ esperienza di quella vita/ ignota: fino a farmi scoprire/ ciò che, in ognuno, era il mondo”.
Era la medesima realtà, umana e sociale, pre-industriale e pre-capitalistica – che Pasolini, dopo averne appreso il linguaggio e le dure abitudini di vita, descriverà, con la più intensa partecipazione, a partire dal 1960, attraverso le immagini di pellicole quali Accattone, Mamma Roma, La ricotta, pellicole che hanno come sfondo i medesimi quartieri e le medesime borgate già descritte nelle raccolte poetiche e nei due grandi romanzi. Pellicole che, oltretutto, usufruiscono della collaborazione e della partecipazione dei fratelli Citti, tanto a livello di sceneggiatura (Sergio) quanto a livello di interpretazione (Franco).
Un rapporto, quello tra l’intellettuale Pasolini e i sottoproletari fratelli Citti, di fondamentale valenza pragmatica e simbolica: il poeta friulano svolge, nei confronti dei due sottoproletari romani, una funzione educativa che permette loro di crescere a livello di apprendimento e di conoscenza del mestiere cinematografico e, nello stesso tempo, di formarsi una coscienza o, per meglio dire, una complessiva “visione del mondo”; d’altra parte essi rappresentano, per il poeta, gli strumenti di mediazione tra sé e il ribollente e controverso mondo delle borgate, un mondo del quale era necessario innanzitutto impossessarsi del linguaggio e, in secondo luogo, delle vicende di degradazione e/o di tentativi di riscatto e di redenzione caratterizzanti le innumerevoli storie personali che formano la complessa e magmatica materia prima delle opere pasoliniane.
Una materia che, attraverso i versi i racconti e le immagini create da Pasolini, diventa “spirito”, cioè sentimento che fa da collante e tiene uniti, in un armonico ed estetico insieme, l’immaginazione e l’intelletto, producendo un’arte di elevatissimo livello artistico.
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