Massimo Troisi, cosa ci siamo persi?

19 Febbraio 2023 00:01 Francesco Guadagni

Oggi, è il suo settantesimo compleanno, ma Massimo Troisi ci lasciò quasi trent’anni fa, a 41 anni, il 4 giugno del 1994, una perdita incalcolabile dal punto di vista umano, artistico e anche politico.

Chi lo ha conosciuto e apprezzato in vita e per quelli nati dopo la sua morte non ha bisogno delle ricorrenze, Troisi, come Eduardo, Totò come la musica di Pino Daniele è sempre presente.

Per l’attore e regista nato a San Giorgio a Cremano si pensa all’età della sua prematura scomparsa. Cosa avrebbe fatto, detto, quali film interpretato. Immaginate solo un attimo se Eduardo de Filippo fosse morto a 41 anni. Non avremmo visto capolavori come Filumena Marturano, Napoli milionaria, Questi Fantasmi, Gli Esami non finiscono mai. E Totò? Avremmo visto solo due film: Fermo con le mani e Animali pazzi degli oltre cento che ha girato.

Troisi ci ha lasciato delle perle di comicità e di riflessione nei suoi film come nei suoi sketch e interventi televisivi.

I temi dei suoi film, anche se di solito incentrati su tematiche amorose, non sono mai banali.

L’ultimo Troisi ci stava dando una nuova consapevolezza che già avevamo intravisto nel Postino tratto dall’omonimo libro di Antonio Skarmeta, che trattava del rapporto di amicizia, poetico e politico del Poeta cileno Pablo Neruda con un giovane postino.

Sulla funzione della sua arte comica, in un’intervista rilasciata poco tempo prima di morire, vediamo un Troisi maturare una nuova consapevolezza, un fattore poco considerato dalla critica.

Infatti, dopo la censura subita al Festival di Sanremo, Troisi maturò l’idea che era meglio evitare di fare satira politica: “Evito di fare satira politica perché se ti limiti a dire che Fanfani è corto e Andreotti è gobbo, ti limiti a fare il loro gioco. Ti metti la coscienza a posto e aiuti la DC ad apparire più democratica solo perché ti fa passare le battute.”

Come potete vedere nell’intervista, non fra le più citate, Troisi ammette di aver fatto confusione “tra la comicità accettata, di stato, quella che passava in televisione… e lo penso ancora. Se un regime ti permette di giocare sicuramente ci guadagna qualcosa.” Allo stesso tempo ricordava: “Però bastava andare in un teatro, vedere Dario Fo e vedere che comunque si poteva fare satira politica dicendo cose molto più indigeste.”

Il nostro caro Massimo anche su altri percorsi della sua vita, ad una domanda precisa, ‘Se non avessi fatto l’attore?’, risponde con meno leggerezza e serenità come era consueto fare, traspare una certa amarezza. “Se non avessi fatto l’attore? Meglio non rispondere perché potrei essere condannato per apologia di reato”.

Comunque, la motivazione delle tematiche del suo cinema, che superficialmente potrebbe essere considerato solo da “comico dei sentimenti” come etichettato dalla critica, lascia spiazzati. Per lui la rabbia ne vedere che comunque si denunciassero delle storture che avvenivano in Italia senza che avvenisse nulla, provocava non un gesto eroico, una reazione, ma la contrazione dei suoi personaggi che volevano isolarsi da tutto.

Vedendo però, che c’erano stati dei riscontri a certe denunce lo portava, anzi, forse in seguito lo avrebbero portato a fare un cinema diverso.

Il Postino era già il cammino di un nuovo Troisi, l’esilio di Neruda in quanto comunista, l’ostracismo dei comunisti nei primi anni del potere democristiano, le manganellate della polizia dell’allora Ministro Scelba che uccidono il protagonista furono poi tutti fattori che non favorirono la vittoria di un premio Oscar, nonostante cinque candidature, fra le quali per il Miglior Attore e Miglior regista, tranne per la meravigliosa colonna sonora firmata da Luis Bacalov e Sergio Endrigo.

Qualcuno, grazie a quella che il regista Mario Monicelli definì la mascalzonata dei carri armati americani che entrano nel campo di concentramento, anziché di quelli sovietici, permisero un trionfo agli Oscar. Ogni riferimento a Roberto Benigni e al film La vita è bella non è affatto casuale.

Dei settanta anni di Troisi, resta, dunque, il forte rimpianto di cosa avrebbe potuto ancora regalarci e soprattutto, ci dà la consapevolezza per la sua statura umana e culturale, della sua unicità. Come per Diego Armando Maradona, Pier Paolo Pasolini, vale anche per Massimo Troisi, quello che disse il regista Paolo Sorrentino all’indomani della morte del Pibe de Oro: “Non smetteremo mai di piangere.”

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