Ugo Fantozzi, il ragioniere tra socialismo e gnosticismo



di Giulia Bertotto per l'AntiDiplomatico

Il destino avverso ad Ugo Fantozzi lo si intende già dal suo appellativo sempre storpiato, nessuno intende riconoscere il suo vero nome, ossia nessuno è interessato alla sua identità; d’altro canto il mancato riconoscimento è anche sintomo della sua debole personalità, incapace di affermarsi. La distorsione in “Fantocci” dimostra che non è neppure considerato una persona, suona infatti come fantoccio o pupazzo, una marionetta degli eventi. Ananke, la dea greca della necessità irreversibile, lo creò ragioniere antieroe e meno che mai di bell’aspetto. Della libertà di coscienza del genere umano, conquistata al prezzo del dolore di vivere (di lavorare e di partorire) dalla coppia adamitica, in Fantocci non c'è traccia. Sembra non poter avere alcun controllo sui fenomeni della propria esistenza, come su un set luterano. E’ così disastrato e spersonalizzato che una solenne ed esilarante voce fuori campo, parla di lui stesso in terza persona. In una memorabile scena durante una seduta di psicoterapia, lo psicologo dirà a Fantozzi: “Ma lei non ha nessun complesso di inferiorità!”, “Davvero?”, “Lei È inferiore”.

Fantozzi, personaggio letterario[1] e poi cinematografico, è uscito dalla lampada del genio di Paolo Villaggio nel 1971; il suo Mastro Geppetto dice della propria creatura: “Il mondo è fatto per la maggior parte da persone che nella vita hanno fallito. Grazie a Fantozzi ho fatto in modo che alcuni neppure si accorgessero di essere nullità. O al limite ho fatto sì che non si sentissero soli”[2].

Fantozzi, fa ridere?

Fantozzi fa ridere? Questo è soggettivo, ma possiamo dire che Villaggio si serve per lo più della figura retorica dell’iperbole, ossia dell’amplificazione esasperata di una situazione o di una caratteristica, per suscitare il riso amaro e tragicomico del suo spettatore.

Freud vedeva nell’ironia e nel motto di spirito una riduzione delle inibizioni, che consente di liberare una tensione psichica ottenendo un alleviamento del dispendio psichico già in atto e un risparmio su quello che potrebbe esprimersi[3]. L’ironia insomma è un meccanismo di difesa ma anche un sistema funzionale di economizzazione dell’energia vitale. Ridiamo di ciò che è crudele perché imbarazza la morale, di ciò che eccita perché è proibito, di ciò che fa male perché il soffrire ci appare assurdo e inspiegabile.

Fantozzi è talmente disgraziato che perfino la meteorologia è contro di lui, con quella nuvola grigia che lo insegue, e anche la fisica obbedisce alle leggi della sua rovina. Prendiamo il tempo, dio Chronos, non è uguale per tutti, meno che mai per il nostro Ugo: dopo anni di allenamento per guadagnare qualche minuto di riposo, e timbrare il cartellino alle ore 8:30, la sveglia passa, dalle ore 6:15 alle 7:51[4]. La pettinata è incorporata al tracannare il caffellatte. Il riposo è un lusso, il tempo un privilegio: il veglione di Capodanno viene festeggiato dai dipendenti in un sottoscala umido e squallido in anticipo, alle 22:30, così da permettere ai dirigenti di non sprecare il loro prezioso tempo.


“Fantozzi in paradiso”: gli tocca anche reincarnarsi

Rovesciamo la clessidra fino al 1993, quando usciva il terzultimo lungometraggio dello sceneggiatore genovese, Fantozzi in Paradiso. Una visita medica rivela al Nostro che gli restano solo sette giorni di vita, a causa di una terribile malattia polmonare. La moglie Pina, mossa a compassione, organizza un fine settimana con la desideratissima, cinica e depressa, signorina Silvani, all’insaputa del marito moribondo: “Se mo famo er week end cor morto”, risponde in un primo tempo la collega di Fantozzi a Pina. Fantozzi “è così piccolo” la rassicura Pina per convincere, a suon di quattrini, la Silvani perseguitata dai creditori, a concedersi sessualmente. Fantozzi è continuamente svirilizzato e umiliato, emblematico l’episodio dell’hooligan di Fantozzi alla riscossa (1990) quando neppure riesce a rubare uno stereo. Qui certo, si potrebbe parlare di quella concezione del maschile che vede la virilità non solo nel coraggio e nella fierezza, ma anche nella violenza e nell’arroganza. Ma ciò che in questa sede ci interessa rilevare è che Fantozzi è in qualche modo simile a tutti noi; onesto più per paura del linciaggio sociale e delle ripercussioni della legge, che in virtù di un’integrità morale e valoriale. Fantozzi non è un santo, è un oppresso.

Le sciagure del nostro personaggio cadono dal cielo, lo sorprendono dalla sua stessa casa, lo rincorrono al lavoro, lo assediano anche da dentro sé stesso.

Anche la propria labile interiorità e i suoi sentimenti lo tradiscono: quando finalmente riesce a raggiungere l'amplesso con la volgarissima e spassosissima chimera-Silvani, e lei niente di meno che, lo desidera ancora, lui scopre quello che era solo un piano di Pina per concedergli un’ultima gioia terrena. Così scalcia via la nuova conquista e commosso si precipita dalla moglie (con “l'alito fognato”). Nel mondo dell’impermanenza appena un desiderio è realizzato, già ha perso ogni valore! Perché solo un desiderio, quello della verità eterna ha una vera consistenza ontologica.

Ogni fortuna di Fantozzi è una smentita: nel momento in cui scopre che non tocca a lui morire, perché coinvolto in uno scambio di lastre tra due pazienti, e addirittura di essersi meritato il paradiso, viene cacciato. Un disguido kafkiano burocratico anche nell'Aldilà! Non può godersi la terra promessa, ma deve reincarnarsi di nuovo per via dell'iter previsto dall’amministrazione buddhista[5].

L’impiegato che ama la frittatona di cipolle deve ancora percorrere la faticosa ruota del Samsara che il Buddha ha dietro sé (in realtà quello che vediamo è Budai, Buddha sorridente ricorrente nell'iconografia cinese), non è ancora arrivato il momento nirvanico per lui, ragioniere in pieno Kaly Iuga[6]. L’epopea del perdente si ripete, lo sfruttato senza riscatto dovrà ancora reincarnarsi. Forse diventerà un bodhisattva e racconterà dall'esterno della caverna platonico-induista cosa si vede?


Al cospetto del Megadirettore Galattico, Fantozzi gnostico e socialista

Nel primo film -della fortunata saga dello sfortunato- Fantozzi viene persuaso dal collega comunista Folagra, a lanciare un sasso contro una vetrata dell'azienda, e così Ugo Fantozzi, si ritrova in un colloquio punitivo con il Megadirettore Galattico. Nella sala personale del manager, spoglia ed essenziale come una chiesa romanica, troneggia una gigantografia di San Francesco d’Assisi.

E’ un affronto ontologico, è un confronto metafisico tra due modi di abitare il mondo: il dirigente ha affermato tutto il suo ego, dominato gli altri con il suo potere, lavorato con avidità per beni materiali e il successo; mentre San Francesco ha rinunciato ai suoi averi, dimenticato sé stesso per predicare il Cristo, parlato con gli animali, chiamato Sorella la morte in segno di rinuncia al proprio ego e di obbedienza alla legge della finitezza delle creature.

L’ufficio personale del leader aziendale, apparentemente spartano, è in realtà dotato delle stravaganze di cui si vocifera in azienda. San Francesco pregava anche per i pesci e cantava il suo inno a tutte le creature, il Megadirettore ha occultato un acquario nel quale al posto dei pesci nuotano i dipendenti giudicati più meritevoli. Il personaggio è davvero galattico e cosmico: Fantozzi è qui uno gnostico perché il mondo è un posto irredimibile. In Fantozzi troviamo una mini cosmologia aziendale, un universo chiuso in cui nulla viene perdonato, niente può cambiare e nessuno può progredire dalla propria posizione di sconfitto in partenza. E il Megadirettore, che sembra un dio soprannaturale, è in realtà un demiurgo infame.

Durante l’incontro Fantozzi indossa una simbolica sciarpa rossa e chiama “Sire” quello che oggi definiremmo Ceo. I due conversano in un’atmosfera di terrore grottesco; “Non mi vorrà dire che lei è comunista?” Domanda Fantozzi per una volta audace, anche se spaventato. Il direttore risponde che si definisce un "medio progressista". “In merito alle ingiustizie cosa proporrebbe di fare, Maestà?” Lo incalza il sottoposto. Il direttore lo scansa come un insetto dalla scrivania e gli dice fintamente cortese: “prego si accomodi”, indicando un inginocchiatoio: “Pacifiche riunioni finché non saremo tutti d’accordo” è l’acuta proposta del Megadirettore per l’equità sociale. Fantozzi obietta che “così ci vorranno almeno mille anni!”, “posso aspettare, io…” risponde il diabolico amministratore. Torniamo così al tempo: chi comanda può aspettare, chi subisce è millenarista in quanto stremato.

Quello tra Fantozzi e il Megadirettore è un dialogo allegorico tra classi, tra chi obbedisce e chi comanda, tra chi è nato erede di industriale e chi figlio di operaio. E’ un dibattito politico che come insegna Marx dura da tutta la Storia, ed è un dialogo spirituale davanti al Santo di Assisi che cerca di superare nel divino le disuguaglianze imposte dalla natura e quelle plasmate dalla società.

Secondo il sociologo Domenico De Masi, Ugo Fantozzi rappresenta “Un ceto impiegatizio che non si è mai data una solida struttura di classe, che non ha mai ingaggiato lotte collettive e che ha preferito affidare a ogni impiegato, preso isolatamente, il ruolo di antagonista solitario, e perciò sconfitto in partenza, di un datore di lavoro strapotente. Un ceto abbandonato a se stesso dai partiti, strumentalizzato dai sindacati, snobbato dagli intellettuali, che vagherà da ideologia a ideologia prima di planare nel populismo e arenarsi nell’astensionismo. Paolo Villaggio è il primo - e resta l’unico per genialità creativa - a puntare la sua lente d’ingrandimento, ustoria e deformante, su questo aggregato informe di piccoloborghesi”[7].

Fantozzi non è politicamente corretto neppure nella sua visione del genere femminile: altro che body shaming, sua figlia e poi la sua nipotina sono brutte (come altro dirlo?), e l’ultima è diretta discendente di un gorilla. Forse solo Pina, figura femminile mesta e materna, ha rappresentato uno spiraglio di tenerezza e di vera umanità (“com’è umano lei” un ritornello parodistico che Fantozzi ripete ogni qual volta gli viene concessa l’ennesima umiliazione) nella vicenda fantozziana. Pina, mite e fedele, personaggio antitetico alla Silvani, sboccata ed egoista. Ma la vita sulla terra di Fantozzi è crudele e la donna amata non può essere attraente, mentre quella attraente non è amabile e neppure può essere amata.

Come lo sventurato di Simone Weil[8], Fantozzi è oggetto di scherno e mortificazione; si diceva in apertura di questo scritto, che nessuno vuole riconoscere la sua persona, porre la propria attenzione su Fantozzi. Proprio la filosofa e mistica Weil afferma che è l’attenzione per l’altro, ciò che più ci avvicina all’unione in Dio e ci allontana dalle forze divisive del male. Chi vede l’altro scorge l’Alterità Divina. Fantozzi è la vittima ma quindi è anche l’artefice, della sua condizione. Ed è solo in questa consapevolezza responsabilizzante che può trovare la sua rivincita, la sua riuscita interiore ed esteriore.

Fantozzi è socialista perché denuncia la società divisa in classi, strenuamente difesa da chi occupa i vertici di essa, ma è anche orwelliano, perché sa che nella fattoria del potere, arrivati ai posti di comando, ci si lascia andare agli istinti più ferini di sopraffazione. Ed è ispirato da un pessimismo gnostico, per cui la materia è corrotta, la vita terrena viziata alla radice e la natura umana depravata e incorreggibile. Fantozzi è un personaggio della tragedia contemporanea[9], Fantozzi è spesso demenziale e così geniale, come la creatura umana.

[1] Il libro Fantozzi (1971) che diventerà un bestseller vendendo più di un milione di copie e venendo tradotto in molte lingue facendo vincere all'autore genovese, in Unione Sovietica il premio Gogol nella sezione "migliore opera umoristica"

[2] Panorama, Intervista a Paolo Villaggio: "Sono un vero indifferente e un falso cinico. Ma monogamo"

[3] Il motto di spirito (Il motto di spirito e la sua relazione con l'inconscio; è un saggio del 1905. Il motto di spirito tratta del cosiddetto processo primario, vale a dire il complesso dei meccanismi comunicativi che caratterizzano il linguaggio dell’inconscio e che sono l’analogia, condensazione, metafora, spostamento o metonimia, ecc.

[4] Accade in Fantozzi, primo film del 1975 e selezionato tra i 100 film italiani da salvare.

[5] E’ certamente un modo letterale di interpretare i sacri testi orientali, ma è funzionale a riflettere sulla claustrofobia karmica delle creature.

[6] Paolo Villaggio, L’uguaglianza, Humana Civilitas 2020, p. 20: “Tutti siamo coinvolti in questa orrenda avventura, in questo orrore catastrofico prodotto dalla filosofia occidentale. Questo è il sospetto di Fantozzi e del pubblico italiano che va a vedere Fantozzi e ride. Questo naturalmente è il sospetto di Paolo Villaggio. Anzi, la mia è una certezza: qualcosa abbiamo sbagliato”.

[7] https://it.wikiquote.org/wiki/Ugo_Fantozzi

[8]La Weil fa del suo stesso pessimismo un oggetto di continua e instancabile riflessione. Riflessione che verte in particolare sull’assurdità e apparente inconciliabilità della sventura umana e della perfezione divina e quindi anche sull’assurdità della crocifissione e di un Dio che si sente abbandonato, di un Dio sventurato (le parole “Dio mio Dio mio perché mi hai abbandonato” sono un pozzo di interrogativi)” da https://www.pangea.news/simone-weil-enigma-sventura-bianca-cesari/. Se la sventura è inevitabile, la via mistica è l’unica da percorrere.

[9] Un Tragico Tascabile a mo’ di Ceronetti?

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