di Leonardo Persia
In una baita di montagna abbastanza isolata, vicino a Grenoble, un uomo, Samuel (Samuel Theis) precipita dalla finestra e muore. Incidente? Suicidio? Omicidio? Imputata, in quest’ultimo caso, è la moglie Sandra (Sandra Hüller), scrittrice di successo. A scoprire il cadavere, riverso sulla neve con un po’ di sangue attorno, è il figlio Daniel (Milo Machado Graner), ragazzo ipovedente, a spasso con il cane.
Anatomia di una caduta è un thriller senza suspense, immerso nella placidità innevata del paesaggio. Quando si trasferisce in tribunale, diventa un dramma giudiziario dall’atipico dibattimento. Vi si affrontano insolite questioni come lo specifico letterario, la misoginia dell’hip-hop e il politically correct. A testimoniare intervengono riprese video, pennette USB, diverse immagini mentali e un cane che, classicamente, svolge la funzione di psicopompo, conducendo ai morti e alle loro voci. Quando infine si giunge alla risoluzione del mistero, non c’è alcuna soddisfazione o catarsi e i dubbi permangono. Probabile che la verità non sia quella. La regista Justine Triet, premiata a Cannes con l’opera in questione, ama disattendere le attese dello spettatore, mescolando e demolendo i generi, operazione già svolta nelle tre opere precedenti, apparentemente lontane dal film che l’ha infine rivelata.
La battaglia di Solferino (2013) alternava competizioni elettorali a conflitti di coppia. Al centro della vicenda era una giornalista televisiva piena di dubbi. La situazione delle due bimbe affidate a un baby sitter si ripeteva nel successivo Tutti gli uomini di Victoria (2016), incentrato sulle inquietudini esistenziali e sentimentali di un’avvocata. Una volta di più, la forma commedia si disperdeva in un bizzarro mischiume e cuore e carriera procedevano uniti e contrastanti. Accentando ulteriormente le eccentricità, Sybil (2019) cambiava il mestiere a una psicoterapeuta insoddisfatta, trasformandola in scrittrice manipolatrice.
Sembrerebbe quasi che ogni film della regista approfondisca il precedente, replicando luoghi e situazioni già affrontati. Pure nel suo ultimo c’è una scrittrice. E un aspirante scrittore, suo marito, che però non riesce nell’intento: il che gli crea un’acuta frustrazione e un senso di rivalità con l’affermata coniuge. Quando la donna viene accusata di omicidio, le giunge in soccorso Vincent (Swann Arlaud), un avvocato di sua conoscenza. Victoria, a sua volta, interveniva a difendere l’amico accusato di stupro e violenza nei confronti di una ex. Ugualmente, nell’aula del tribunale dell’altro film si parlava dei rapporti tra scrittura e realtà e la tecnologia (uno smartphone) assurgeva a testimone. Nel processo veniva coinvolto un cane (un dalmata al posto dell’attuale border collie), persino uno scimpanzé, autore di scatti da telefonino.
Una sorta di smitizzazione delle cose caratterizza tutti questi film. I luoghi di giustizia, con la loro pretesa di far luce, vengono dissacrati con assortite stravaganze. Nessuna obiettività sembra appartenere alle immagini. E altrettanto irrisa è la scrittura, costretta a perdere la sua aura sacra. In Sybil, la protagonista sfruttava i casi di una sua paziente per costruire il suo best-seller. L’ex marito di Victoria, un blogger, inveiva con perfidia contro personaggi ricalcati sulla vecchia consorte. Adesso l’accusata scippa allo sposo un’idea del romanzo che non ingrana. Inoltre, si sarebbe servita di altre figure familiari, trasformandole in fiction, come gli rimprovera un aggressivo procuratore generale (Antoine Reinartz), che s’illude di rintracciare la colpevolezza della donna nei suoi impietosi scritti sulla vita matrimoniale. Gli si obietta però che, secondo questa logica, Stephen King sarebbe un serial killer.
La menzione allo scrittore americano non è casuale. Anatomia di una caduta parafrasa Shining, libro (1977) e film (1980). Persino il cinema, e il proprio cinema, sembra dirci l’autrice, succhia idee, testi, luoghi. Il posto isolato, la neve, la difficoltà a scrivere. “All work and no play makes Jack a dull boy”. La mancanza d’ispirazione e di successo, un’ossessione che sottrae ogni levità, rende pazzo il protagonista defunto, lo annienta. Che sia incidente, suicidio o assassinio, la sua fine lo congela in un frame di caduta. Precipitandolo cioè dall’alto in basso, portato e sconfitto dal proprio peso, da un inappagamento insostenibile. Il senso di oppressione dell’uomo viene mostrato dalla registrazione di una lite con la moglie, un battibecco bergmaniano magistralmente condotto da Triet. In Sybil, la regista si era servita del modello Persona (1966), capolavoro di Bergman, nel descrivere la graduale osmosi tra vampira e vampirizzata, tra scrittrice e cavia. In tutti i modi, lì come qui ognuno assorbe l’altro; il raggiungimento del Sé, del vero appare un’utopia. Quel Sé evidenziato, nel film precedente, dallo spostarsi nelle isole Eolie. Stromboli, Lipari, luoghi densi di memoria cinematografica: Rossellini, Antonioni. Per riferire di una donna che si svela (come, mutatis mutandis, già Ingrid Bergman) o palesare un giallo senza soluzione (la scomparsa di Anna/Lea Massari ne L’avventura, 1960). La lezione dei blow up antonioniani, delle riflessioni audio e video, nella società dello spettacolo, si ripresenta anche stavolta, più esplicita ed estesa.
Ma torniamo a Shining. A padre, madre e figlio, al complesso di Edipo. È Samuel che ha causato, incidentalmente, la cecità del piccolo Daniel. Questo è il suo rovello, forse il vero motivo delle sue inquietudini. Il bambino è dalla parte della madre. Lo attesta la sua testimonianza, probabilmente falsa, per scagionare l’incolpata. Il piccolo ripete le parole del genitore che, visualizzato, parla con la voce del figlio. Affacciandosi alla finestra dalla quale il padre è caduto, si ode il Preludio in mi minore di Chopin (op. 28, n°4), già eseguito al pianoforte insieme alla mamma. Shining, soprattutto il film di Kubrick, infinitamente superiore al romanzo, esplorava il concetto freudiano del perturbante, il cosiddetto unheimlich, il non familiare del familiare. Quindi, in tribunale, ci si concentra su Daniel all’ascolto delle crudezze verbali dei genitori. In Tutti gli uomini di Victoria, le due bambine porgevano orecchio alle chiacchiere sconce della madre con un amico.
Daniel, etimologicamente, diventa il giudice Dio. Lo era pure il figlio di Jack Torrance, che si chiamava Danny. Come quello, anche Daniel veste rosso e blu ed è dotato di chioma a caschetto. L’assistente sociale affidatale (Jehnny Beth) ha quasi le fattezze del bimbo, ne costituisce una replica adulta e femminile. Si tratta forse di un omaggio alle gemelle di Shining? Alla gemellarità che regola il film?
Sin dal titolo, Anatomie d’une chute riecheggia infatti Anatomy of a Murder (1959), il film di Otto Preminger, tratto dal romanzo di Robert Traver (1958). In entrambi i casi, ci si serve della forma di thriller giudiziario per esplorare la vita di coppia, il tema dell’inafferrabilità del vero, l’impossibilità dei fatti, l’affermarsi definitivo di un’interpretazione comunque non definitiva. Alle mutandine sparite del vecchio film, dove non si capiva se ci fosse stato o no uno stupro, nella stessa misura in cui adesso non si comprende se sia avvenuto o meno un omicidio, Triet aveva già reso omaggio in Tutti gli uomini di Vittoria.
La dissezione del titolo viene espressa anche attraverso una scomposizione di situazioni e personaggi, che appaiono spezzati, interrotti o menomati. L’incipit del film mostra un’intervista irrealizzata: è impossibile dichiarare, accertare, verificare. Triet vanifica allo stesso modo gli sforzi processuali. Quando Sandra obietta a Vincent di non aver ucciso il marito, l’altro osserva che “non è questo il punto”. Non importa la verità, come si evince da un’altra battuta. Occorre soltanto una verità di comodo che pacifichi le inquietudini di tutti. Per questo giornalisti e lugulei risultano appaiati. E per questo dalla giornalista televisiva del film d’esordio si passa alla donna di legge e poi alle scrittrici, come in un unico testo. Ogni personaggio racconta una verità mai assoluta, forse tutti mentono. Ciascuno vede ciò che vuole o ciò che può. A proposito, in questo film tanto stilisticamente asciutto quanto tematicamente stratificato, è impossibile identificarsi con chicchessia. Nessuno è esente da colpa, tutti sono vittime.
Ognuno risulta intrappolato in un’immagine, quella di uno sguardo altrui. Durante il processo, la macchina da presa panoramica attorno a Daniel, a destra, a sinistra, a seconda dell’interlocutore, degli occhi su di lui puntati. Si è dentro un copione prestabilito, addirittura in una lingua che non è la propria. Sia Sandra (tedesca) che Samuel (francese), conosciutisi a Londra, parlano inglese. L’idioma alieno allude a codici differenti, a modalità estranee. Marito e moglie, fondamentalmente, recitano. Lo sguardo può essere inumano (telecamere, registrazioni meccaniche), ma sempre troppo umano nel pretendere un reale a cui è impossibile attingere.
Lo esplicita una lunga sequenza di soggettive esemplari. L’inquadratura di Sandra al telefono precede quella di Daniel al pianoforte, scorto da lei attraverso il vetro. Uno stacco mostra un tablet appoggiato sul piano, da cui emerge un filmato del padre defunto, come guardato o, meglio, sentito dal figlio: nell’inquadratura è presente il braccio del bimbo. Un altro stacco ci porta a Sandra, assorta nei suoi pensieri, che accenna a un sorriso. Al quale sembra rispondere, per virtù di montaggio, un sorriso del defunto marito, cioè l’immagine da file, che ha riempito l’intero schermo, figura evocata da lei in una specie d’impossibile controcampo mentale dove si ricongiunge la famiglia (Samuel guarda fisso, quindi a sinistra; come se si rivolgesse prima al figlio, poi alla madre). L’inquadratura successiva consiste nella figura ravvicinata di Daniel, che uno zoom avvicina ancor più, deformandone il primo piano. Il bimbo, interrogato, è dentro l’occhio di una telecamera. A casa c’è la polizia, intenta a ricostruire l’accaduto attraverso una rozza messinscena degli avvenimenti. Le riprese appartengono all’ordine pubblico, alla legge. Le immagini diventano rozze e sbilanciate, sovraesposte e traballanti. In tutti i sensi, non riescono a essere salde, a esprimere alcunché.
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