di Giulia Bertotto per l’AntiDiplomatico
Federico Greco è autore, regista e montatore di film e documentari. PIIGS e C’era una volta in Italia con Adriano Cutraro e Mirko Melchiorre sono i suoi gioielli di inchiesta e denuncia. Greco ha insegnato tra l’altro presso l’Università La Sapienza e l’Accademia di Belle Arti di Perugia. Tra i suoi lavori come regista e autore, spesso in collaborazione, figurano: Stanley and Us (il documentario su Stanley Kubrick), Il mistero di Lovecraft (un mockumentary horror). Ha scritto di cinema per le maggiori testate italiane, tra cui Cineforum e Musica! di Repubblica. Ha pubblicato tre libri sul cinema: due legati ai suoi lavori: Stanley and Us (2008) e PIIGS (2020), e un saggio su Guerre stellari, Star Wars – La poetica di George Lucas, per La nave di Teseo.
Con amaro sarcasmo si definisce anche “regista di film horror indipendenti”, vista la fase storica surreale e autodistruttiva in cui siamo immersi e lo sfascio della sinistra italiana. Lo abbiamo intervistato per parlare dei profondi legami tra Cinema e società, immaginario comune e propaganda di guerra. In un momento in cui la normalizzazione delle minacce belliche e dei massacri si fa spersonalizzante e sembra meno reale della pellicola (che oggi nemmeno si usa più…).
L’INTERVISTA A FEDERICO GRECO
Ottolina Tv ha inaugurato da poco una nuova rassegna condotta da lei, “Desaparecinema- i film che non avete visto e quello che non avete visto nei film” nella quale esamina con maestria e ironia anche film indipendenti poco conosciuti o censurati. Ci dica due registi o film che lei apprezza ma che sono stati ostracizzati o non hanno trovato luce nelle sale?
Il quarto episodio della mia rubrica su Ottolina TV è dedicato a Luigi Magni, che io amo molto, straordinario affabulatore di rivoluzioni (mancate) ambientate nella Roma papalina. Magni “non serviva a nessuno” perché non si era allineato e questo è forse uno dei motivi per cui, nonostante alcuni dei suoi film abbiano avuto un enorme successo di pubblico (per esempio “Nell’anno del signore”), la critica italiana sostanzialmente lo ignora. Dava fastidio, e lo dà ancora di più adesso che è scomparso. Infatti è scomparso anche dai radar mainstream di celebrazioni e ricordi, che vengono regalati ormai a chiunque. Magni criticava il potere ma anche il popolo, e ancor di più i “ribelli”, spesso descritti come nobili borghesi annoiati. Un po’ come molti oggi, sedicenti militanti “de sinistra”: scendono al supermercato sotto casa e scelgono sugli scaffali la “battaglia” quotidiana più fattibile, più innocua, quella che si può combattere dal divano e che non mette in discussione i privilegi acquisiti. Basta che sia sufficiente a ripulirsi la coscienza. Oggi, come dice un filosofo contemporaneo (che sarà nel nostro prossimo film, sulla scuola), Miguel Benasayag, “da un lato c’è l’idea messianica, spesso declinata in tono populista, che arriverà una rivoluzione che cambierà tutto, dall’altro, invece, c’è l’individualismo neoliberista”. I personaggi di Magni sono tutt’altro che questo, ma soprattutto appartengono a un periodo in cui esisteva un “conflitto” verticale Noi-Loro, e quindi una possibilità di rete e comunione orizzontale, invece che – come oggi – solo uno scontro orizzontale (tra poveri) che vanifica il senso e la possibilità di qualunque ribellione, e quindi una pioggia verticale di merda che cala dall’alto (il vero significato della “trickle down economics”).
C’è anche un regista che porta il suo stesso cognome che lei stima molto...
Sì, un destino simile a quello di Magni, ancora più drammatico, è toccato ad Emidio Greco, un regista spesso sconosciuto anche agli addetti ai lavori. Eppure Greco, che mi aveva regalato una bellissima amicizia, era un formidabile direttore di attori e un colto e corrosivo fustigatore della classe borghese. Uno dei film che più ho amato tra i suoi, oltre a una pellicola di fantascienza, “L’invenzione di Morel”, è “Il consiglio d’Egitto”, tratto da Sciascia, con Silvio Orlando e Tommaso Ragno all’apice della loro carriera. Ragno interpreta Francesco Paolo Di Blasi, definito “il solo credente nella religione illuministica che possa annoverarsi nella Sicilia settecentesca". Di Blasi era stato folgorato dalla rivoluzione francese e tentò una congiura per instaurare la repubblica siciliana, ma fu tradito, arrestato, torturato e decapitato. Un capolavoro da ogni punto di vista, eppure se andate sulla sua pagina Wikipedia non vi sono dedicate che poche righe. A “Barbie”, bruttissimo mega spot della Mattel spacciato per cinema, Wikipedia dedica un romanzo. Un film straordinario ma che ha avuto zero visibilità è l’esordio di Davide Manuli, “Girotondo, giro intorno al mondo” (1998), ultraindipendente, costato intorno ai 25.000 euro, vietato ai 18 anni, girato senza alcun permesso e senza una lira, regolarizzato anni dopo per uscire al cinema grazie alla Pablo di Gianluca Arcopinto. Sulla scia del cinema indipendente USA degli anni 90 (Jarmush, Rodriguez, Van Sant). Nel 1998 fui uno dei pochissimi a recensirlo e ne rimasi folgorato.
In che stato versa il cinema italiano? Sembra che vi sia una sorta di unica malattia degradante che contagia ogni colonna della Cultura ma anche della vita sociale: la Politica, la Sanità, la Scuola. Non è un caso che lei si sia occupato di tutte e tre le istituzioni?
Il cinema italiano, e quello del decadente sedicente impero occidentale, può definirsi con un termine molto preciso: innocuo, che è la cosa peggiore che si possa dire dell'arte. Basterebbe questo per descriverne la tragica parabola discendente. Autori come Magni, Petri, Monicelli, Rosi, Leone, i Taviani… che scrivevano storie dalle quali il pubblico usciva bastonato, non hanno più patria in una cinematografia che una volta, negli anni ’60, era una vera e propria industria di respiro internazionale (invidiataci da tutto il mondo) e che oggi è completamente assente dai mercati mondiali, a parte qualche brutta serie tv RAI e goffe serie Netflix su attori porno. Da una parte è stato sferrato un attacco politico, culturale e normativo al cinema indipendente, che ha sempre meno opportunità di ottenere finanziamenti pubblici (e nessuna possibilità di trovare finanziamenti privati, a meno che il regista stesso non abbia ricevuto qualche cospicua eredità o non appartenga alla classe dei privilegiati); dall’altra i conglomerati mediatici globali stanno comprando le case di produzione italiane e appiattiscono tutto in nome del mercato, oltre che drenare profitti dall'Italia verso i paradisi fiscali (spesso dentro l’Ue). Inoltre, peggio di quanto abbiano fatto Mediaset e Medusa negli anni 80 e 90 e il duopolio con la RAI di regime, oggi Netflix sta imponendo stili, contenuti e modalità produttive standardizzati e banali.
Ci sono aspetti economici non in secondo piano a contribuire a questo stato di cose?
Sì, perché il tutto va a braccetto con la finanziarizzazione sempre più pervasiva dell’economia. Nessuno fa più film perché ha qualcosa da dire, ma per produrre dividendi per gli azionisti. Basta guardare il cinema di genere (thriller, horror, poliziesco, western…): è morto. È il cinema che – libero dai fastidiosi paletti del realismo – può (e in Italia una volta ha potuto alla grande) raccontare lo spirito di una società più di chiunque altro. “Giù la testa” per esempio (Sergio Leone, 1971) ha addirittura anticipato le riflessioni sulla nostra “perdita della verginità”, gli anni di piombo. Per esempio analizzando la differenza tra i ribelli (parte della società civile che scendeva in piazza e si organizzava in movimenti non violenti – cioè Juan, Rod Steiger) e i rivoluzionari (le Brigate Rosse – cioè Sean, James Coburn). E lo ha fatto appunto, diversamente dal cinema dei cosiddetti “autori” nostrani, con il cinema di genere, lo spaghetti western, un cinema politico spettacolare e popolare. “Giù la testa” è – in sintesi – il racconto della nascita di un rivoluzionario.
I Cinema falliscono, le piattaforme prosperano. Cambia il modo del fruire e muta la sostanza dei contenuti?
Oggi le uniche cose che produce Netflix, se va bene, sono storie coming-of-age, sull’adolescenza difficile. Oggi, “Giù la testa” sarebbe impossibile. Infine in questi mesi il cinema italiano è in una crisi profonda perché il governo sta ritardando le nuove norme sul tax credit e l’apertura delle finestre dei finanziamenti selettivi. In Italia ormai da tempo nessuno fa più cinema senza finanziamenti pubblici, eccetto noi e pochissimi altri, e questo crea una situazione imbarazzante che ci fa tornare all’inizio della mia risposta: perché il cinema italiano è diventato innocuo? Perché per avere i fondi ministeriali deve sapere cosa vuole il ministero, e applicarlo ai tuoi film. In Italia infatti da diversi decenni non esiste più la censura cinematografica. Per esistere dovrebbe esserci qualcosa da censurare e invece alla commissione censura del ministero non arriva nulla da censurare, perché ormai registi, sceneggiatori e produttori si autocensurano per essere sicuri di prendere i soldi. Ma se tu chiedessi loro se è vero ti risponderebbero, credendoci, che non lo è. E questa è davvero la cosa più terribile di tutte: non si rendono nemmeno più conto di aver introiettato le regole culturali del sistema. Secondo loro il finale del film della Cortellesi è un finale di rottura, corrosivo, mentre è la roba più piddina e innocua degli ultimi anni.
Mentre accadeva la Shoah il Cinema era nella fase della sua infanzia, ma forse il suo occhio avrebbe potuto filmare l’inferno in terra dei campi di sterminio. Oggi il genocidio dei palestinesi avviene in diretta sui social e ci si sente impotenti...
In realtà nei primi anni ‘40 il cinema era al suo apice (Welles, Chaplin, Ford, Wilder, Lubitsch). L’unica forma d’arte cinematografica, dice addirittura qualcuno, è stata il cinema muto e in bianco e nero. E io sono abbastanza d’accordo. Byung-Chul Han, un filosofo sudcoreano che vive in Germania, dice invece qualcosa a proposito della narrazione di oggi nel suo ultimo libro, “La crisi della narrazione”. Cito un passaggio dalla quarta di copertina. Non saprei dirlo meglio: “Le narrazioni sono in crisi da tempo. Da bussole capaci di dare senso all’esistenza collettiva sono ormai diventate una merce come tutte le altre. Ridotte ad ancelle del capitalismo, si trasformano in storytelling e lo storytelling, ormai ubiquo, scade nella pubblicità, nel consumo di informazioni. L’accumulo di notizie ha preso, insomma, il posto delle storie. Dati e informazioni, però, frammentano il tempo, ci isolano e ci bloccano in un eterno presente, vuoto e privo di punti di riferimento. A diventare impossibile è la felicità stessa. Perché la vita, con tutti i suoi imprevisti, inciampi, tentativi ed errori, incontra la pienezza solo quando può essere condivisa e tramandata all’interno di una narrazione collettiva. «Vivere è narrare. L’essere umano, in quanto animal narrans, si distingue dagli altri animali per il fatto che narrando realizza nuove forme di vita. La narrazione ha la forza del nuovo inizio. Lo storytelling, di contro, conosce solo una forma di vita, quella consumistica»”. Nulla di ciò che ci arriva dai social ha respiro narrativo, epico. Ed è sempre stata una “narrazione mitica” a trascinare le masse: sia a sinistra, per le lotte comuniste, che a destra, nei fascismi.
Nei film statunitensi gli americani salvano il mondo, nella realtà la NATO a trazione Usa lo mette sempre più a repentaglio la stirpe umana, lanciando continue provocazioni alla Russia. Il Cinema è ancora e sempre anche propaganda?
Esatto. Infatti uno dei pochi film antiretorici statunitensi, che si divertiva a prendere in giro il popolo ultranazionalista e l’esercito americani, “1941 – Allarme a Hollywood”, di Steven Spielberg (1979), fu un flop colossale al botteghino. Sospetto che sia stato questo a convincere Spielberg a diventare in seguito il cantore, da quel momento in poi, della più retorica propaganda sciovinista. Il cinema imperialista USA ebbe un’impennata, guarda caso, durante i due mandati di Ronald Reagan (1981-1989). “Rocky IV” è del 1985: l’americanissimo, artigianale, Rocky Balboa deve combattere contro il primitivo, tecnologizzato e cattivissimo russo Ivan Drago. Nel 1990 uscì “Caccia a ottobre rosso”, con Sean Connery, scontro tra sommergibili russi e americani e parabola sul terrore della potenza tecnologica russa. Nel 1984 “Alba rossa”, di John Milius, in cui si immagina che un paesino americano venga attaccato senza apparente motivo e con straordinaria violenza da truppe sovietiche, cubane e nicaraguensi. Un ribaltamento del Vietnam, con i ragazzi protagonisti che sembrano scritti dopo aver letto un libro di storia sui partigiani italiani. D'altronde gli americani sono bravissimi a ingurgitare la nostra Storia e Cultura, digerirle e cacarle per i loro obiettivi. Vedi il divertentissimo “Innocenti bugie” (tratta dalla letteratura cavalleresca europea di mille anni fa, con Tom Cruise e Cameron Diaz) e il pessimo “Pinocchio” della Disney. “Der Spiegel” definì Alba rossa un film di "riarmamento morale". Ma è Top Gun (1986) il manifesto dell’era reaganiana: scontri tra caccia americani e mig russi che provocarono un’ondata di arruolamenti nelle file dell’esercito USA. Girata in questi ultimi anni ma ambientata nel pieno della seconda guerra fredda, è una serie TV USA di grandissimo successo: “Stranger Things”: la retorica anticomunista qui è più che esplicita e la sofisticata affabulazione narrativa rende difficile non tifare per i giovanissimi protagonisti alle prese con mostruosità varie di origine sovietica. Come spiego nella prima puntata della mia rubrica su Ottolina TV, e anche nel mio libro “Star Wars – La poetica di George Lucas”, soprattutto da “Guerre stellari” in poi il cinema hollywoodiano, che è la seconda industria per fatturato insieme i videogames dopo quella delle armi (d’altronde gli USA sono in guerra permanente col mondo da decenni e industria bellica e industria della propaganda vanno sempre a braccetto), ha basato la struttura narrativa dei suoi film sulla cosiddetta “struttura conservatrice in tre atti”, che deriva dalla “pièce bien faite” [opera dalla costruzione impeccabile], sviluppata dal drammaturgo francese Eugene Scribe nel 1820. Caratterizzata da uno scioglimento chiaro e logico, questa modalità conservatrice di narrazione era la forma drammatica più popolare della nuova middle class dominante francese e inglese che era apparsa nell’Europa ormai “sicura” dopo le guerre napoleoniche. Richiedendo un ritorno all’ordine più completo, la pièce bien faite permette di realizzare le nostre fantasie di rottura delle regole senza in alcun modo minacciare la tenuta strutturale della società. E tutti i blockbuster statunitensi, da allora, si basano su questo tipo di sceneggiatura rassicurante, in cui il bene vince sempre sul male in una polarizzazione che cancella qualunque possibilità di riflessione teorica che non sia manicheistica. Che poi si trasforma nella polarizzazione che vediamo oggi: Putin/no Putin, Israele/no Israele, vax/no vax.
Un vecchio dilemma dilania l’Arte e la sua funzione, non escluso il Cinema. Se essa abbia un dovere morale verso i fatti che avvengono o se possa, anzi debba, prendersi la libertà di non rispondere alla cronaca, di essere al di sopra di una funzione, e di narrare la meraviglia anche nei momenti più critici per la coscienza umana. Come la vede lei?
È uno degli argomenti del mio prossimo libro: il vero o la verità? Il reale o il verosimile? Pablo Picasso diceva che l’arte è una menzogna che ci fa capire la verità, mentre uno dei più grandi documentaristi del passato, Robert Flaherty, affermava che spesso bisogna distorcere la realtà per catturarne il suo vero spirito. E ancora: Stanley Kubrick, dopo aver visto “La battaglia di Algeri”, di Gillo Pontecorvo, affermò “Tutti i film sono, in un certo senso, falsi documentari. Uno cerca di avvicinarsi al più possibile alla realtà, solo che non è realtà.” Perciò credo che non ci sia nulla di più lontano dal cinema della “verità”, processuale, storica e giornalistica (nonostante spesso vengano proiettati nelle sale cinematografiche film inchiesta dal taglio giornalistico spacciati per cinema), della realtà cronachistica. Ed è per questo che abbiamo deciso di dare ai nostri due film un taglio emotivamente forte, una narrazione epica, a discapito della mera cronaca. E qui si ritorna al punto di cui sopra: c’è bisogno di narrazioni mitiche per ritrovare un senso di lotta collettiva. Il cinema sarebbe ancora in grado di offrirla, ma deve tornare a essere libero. Deve smettere di essere un’arte elitaria, accessibile solo a pochi ricchi. Nel mio prossimo libro cercherò di capire se è vera un’intuizione che ho avuto qualche anno fa, insegnando cinema agli assistenti sociali: visto che il cinema è una faccenda elitaria, possibile solo a chi ha già un reddito, bisogna finalmente consegnare la possibilità di fare cinema al popolo, e l’unico modo è col “mockumentary”, il falso documentario: è produttivamente accessibile e allo stesso tempo permette di raccontare “qualunque” tipo di storia.
Chiudiamo con le novità. Lei e Melchiorre state preparando il documentario “D’istruzione pubblica”, dedicato, come si comprende dal corroborante titolo allo sfascio della Scuola pubblica italiana; come istituzione, come luogo di educazione, condivisione e di preparazione alla vita sociale. C’è un progetto antropologico, un deliberato orientamento ideologico, dietro a questo sfacelo?
C’è una doppia ragione dietro alla distruzione della scuola pubblica e dell’università, nell’occidente. Da una parte la scuola, come la sanità, è una prateria infinita di potenziali profitti privati da parte delle multinazionali globali, soprattutto del digitale. La privatizzazione della scuola USA è ormai cosa fatta da decenni. Mentre è in corso la privatizzazione dell’università in Grecia, anche se qui non se ne parla, e di quella italiana, che rincorre quella americana. Dall’altra l’istruzione pubblica sarebbe il vivaio dal quale dovrebbe e potrebbe nascere una generazione di cittadini capaci di pensiero critico, non assoggettati all’assimilazione di competenze bensì di conoscenze (scuola significa “ozio”, cioè luogo e tempo di apprendimento fine a se stesso, non per un futuro lavoro). E questo non è tollerato dal potere, perché non può permettere che attraverso lo studio della letteratura, del latino, della storia e della filosofia si comprenda la più grande truffa degli ultimi cento anni: l’austerità, che nacque dopo il biennio rosso successivo alla prima guerra mondiale. Come spiega benissimo Clara E. Mattei nei suoi libri “Operazione austerità - Come gli economisti hanno aperto la strada al fascismo e L’economia è politica”, la presunta scarsità monetaria è una scelta politica e non una ineludibile necessità macroeconomica. Infatti lo strumento politico più importante del fascismo fu proprio l’austerità. L’austerità è LO strumento del capitalismo, COINCIDE col capitalismo, non ne è un’eccezione né un momento di crisi. Ogni volta che le lotte dei lavoratori o di chi pretende diritti sociali hanno successo (1919-1920, anni 60 e 70) il capitale interviene imponendo, creandola dal nulla, l’austerità, che serve a far tornare nelle sue mani il potere ricattatorio sui salari e l’occupazione (ci cascò pure Enrico Berlinguer). Ovviamente, essendo noi, soprattutto in questi anni, in un capitalismo di guerra, l’austerità guarda caso non tocca mai il settore militare né quello finanziario. Nella scuola questa strategia funziona alla grande: mantenendo precari e sottopagati i docenti in nome di una fantomatica mancanza di soldi pubblici, questi ultimi fanno sempre più fatica a concentrarsi sull’insegnamento e, ricattati dalla paura della povertà, accettano qualunque aberrazione pedagogica; inoltre trasformando i prèsidi in dirigenti, costringendoli a preoccuparsi di questioni finanziarie e burocratiche, viene loro impedito di fare il loro vero lavoro: concentrarsi su come facilitare i docenti nell’insegnamento. Così, anche grazie alla truffa del PNNR e della scuola 4.0, la scuola viene sempre più privatizzata e aziendalizzata (a partire dalla riforma Bassanini-Berlinguer del 1977-1999, guarda caso sempre centrosinistra), i ragazzi lasciati allo sbando e la società privata di futuri cittadini capaci di pensiero critico.
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