L'omologazione totalitaria del modello estetico e la dittatura della banalità


di Angela Fais per l'AntiDiplomatico


E’ sufficiente una semplice passeggiata per rendersi conto che il ricorso alla chirurgia e alla medicina estetica è scappato un pò di mano. Accade sempre più spesso di imbattersi in persone sfigurate, dalle sembianze inquietanti che hanno del monstrum, del prodigium. In clinica si parla non a caso di “sindrome da riempimento eccessivo”, una complicanza dovuta alla stratificazione di filler troppo ravvicinati che portano a una vera e propria distorsione facciale. In Gran Bretagna è dovuto intervenire il legislatore vietando per legge il ricorso delle minorenni alle iniezioni botuliniche.

Solo in Italia rispetto al 2020 il ricorso a medicina e chirurgia estetica ha avuto un incremento del 130%. Questo determina serie e molteplici problematiche. Il presidente della SIME, Società Italiana di Medicina Estetica, Emanuele Bartoletti osserva infatti che con l’aumentare del numero degli interventi, statisticamente si rischia di trovare medici senza scrupoli o troppo accondiscendenti verso richieste del tutto prive di senso. Purtroppo infatti la legge italiana non prevede la necessità di essere medici specialistici per poter praticare la medicina estetica, quindi la possibilità di incorrere in figure professionali non all’altezza si fa seriamente concreta, a danno dei professionisti seri e sopratutto dei cittadini.

A quanto pare un giovane su tre al di sotto dei 25 anni ha già fatto ricorso ai trattamenti in questione.

L’ 87,1%, ossia 9 intervistati su 10, dichiara che la principale motivazione è di carattere estetico. A usufruirne sono donne ma anche uomini. Ciò non confermerebbe quanto detto da molte autrici femministe per cui le donne “sarebbero private del loro corpo”. L’insoddisfazione maschile verso il proprio corpo infatti sta crescendo con stime che vanno dal 50 al 70%. Si vuol precisare da subito che il ricorso alla chirurgia e ai trattamenti estetici non è affatto di per sé indicatore di psicopatologia. Nè tantomeno si vuole demonizzare. Ma il fenomeno va osservato da una prospettiva diversa; giacchè un conto è “cancellare” una ruga o intervenire su un naso obiettivamente poco estetico, altro è far continuamente ricorso a interventi per inseguire modelli estetici non realistici dove il corpo viene sostenuto da fantasie di rimodellamento, autocreazione, trasformazione e correzione (A.Lemma), secondo ‘una ideologia del modellamento senza limiti’ per cui in luogo della materialità e della storicità del corpo abbiamo una plasticità culturale con precisi stereotipi estetici cui aderire.

I disturbi del dismorfismo corporeo sono manifestazioni della patologia individuale ma culturalmente normativi essendo anche figli di una certa cultura che non dovrebbe essere favorita, assecondando ciascun intervento medico purchè venga richiesto dal paziente.

Nella cultura odierna si può parlare addirittura di “malcontento normativo” rispetto ai corpi. Inizialmente la chirurgia estetica, che sappiamo ha origini antichissime, aveva una funzione riparativa rispetto a interazioni violente. Ricordiamo che già nel XVI sec. quando le risse per strada e i duelli erano all’ordine del giorno, il medico chirurgo italiano Gaspare Tagliacozzi, considerato il padre della chirurgia estetica, per primo ricostruì un naso tramite una porzione di pelle prelevata dal braccio del paziente. La attuale chirurgia estetica invece è un prodotto che nasce principalmente negli USA. Qui avviene la transizione da atto riparativo a alterazione di un corpo sano; transizione che è direttamente proporzionale alla esaltazione della cultura dell’immagini che negli Stati Uniti si persegue. Tale cultura dominata e soggiogata dalla seduzione totalitaria dell’immagine si impossessò presto della psiche americana per poi colonizzare drammaticamente il resto dell’Occidente. Già dal 1940 la chirurgia estetica veniva impiegata come trattamento per curare una bassa autostima; sino a oggi che si parla addirittura di “psichiatria con il bisturi”.

Per spiegare il ricorso compulsivo ai trattamenti con i risultati davvero poco estetici che oggi riscontriamo, dobbiamo chiamare in causa due fattori. Uno attinente a problematiche individuali di natura psicopatologica, l’altro a ragioni di ordine culturale e storico.

Partiamo dal presupposto che il corpo non è mai nostro, ma porta già da sempre le tracce dell’Altro. Innanzitutto l’altro della madre che contribuisce con le sue cure alla formazione di quello che Anzieu ha denominato “io-corpo”; ma anche tracce dell’altro inteso come frutto di una particolare storicità poichè è sempre corpo gettato in un qui e ora, in una particolare situazione emotiva, in una cultura e non in un’altra; e così via sino alla massima alterità che è la morte. Secondo molti teorici, non solo Anzieu ma anche lo stesso Freud, il contatto è un elemento fondamentale per la costruzione dell’attaccamento. Anzieu in particolare sostiene "il ruolo giocato dal tatto e dalla pelle nello strutturare letteralmente l’Io inteso come rappresentazione che serve al bambino durante le fasi precoci dello sviluppo, per rappresentarsi a sé stesso come un Io che contiene i contenuti psichici”. L’ Io-pelle si strutturerebbe prima ancora dell’ Io in sè. Dunque l’ Io-Pelle sarebbe anteriore alla Fase dello specchio di Lacan. Come dice Jean-Luc Nancy “non c’è egoità nel corpo”. La madre offre al bambino "la prima e più fondante esperienza del corpo: involucro che oltre a fornire calore, alimento (tramite l’allattamento al seno), carezze, dolcezza e cure, deve trasmettere segnali e cercare di interpretare quelli che emette il bambino." Se ciò non accade, perchè le cure sono carenti o eccessive, l’involucro che avrebbe dovuto favorire la sensazione di limite e di benessere, si trasforma in un involucro di angoscia e sofferenza. Ciò porterebbe i pazienti alle fantasie di cui si è appena parlato, ai disturbi del dismorfismo corporeo, a rivendicare un corpo proprio, a invidiare il corpo materno etc etc. Sarebbe auspicabile dunque che prima di intervenire si valutasse opportunamente affinché il paziente possa operare delle scelte autentiche e significative che siano radicate nella realtà, e non siano nutrite da fantasie inconsce. Questo non troppo spesso accade e i risultati li vediamo in giro tra noi.

La modifica della corporeità è oggi un anelito che viene perseguito come mai è accaduto in epoche precedenti. Sia tramite il ricorso sconsiderato e compulsivo a interventi di vario genere, che più semplicemente tramite impegnative sessioni di allenamento o regimi alimentari particolarmente restrittivi. Anelito costantemente sostenuto dai modelli estetici che pubblicità e social impongono come diktat. Si determina una totale e pervasiva adesione a criteri e paradigmi severamente omologanti. Possiamo dire in tal senso di vivere in una dittatura della banalità. Dove a dominare sono figure estetiche che ad essa rimandano. Banalità dei corpi intesa in un duplice senso. Sia come banalità del modello, che in quanto tale è sempre sostituibile: le riviste e i social con le immagini di corpi affusolati, vellutati, perfetti; sia la banalità del ‘qualsiasi’: un corpo qualsiasi, corpo logoro, vecchio, corpo del lavoratore. Corpi entrambi resi banali dal capitale che li riduce a merce; anonima forza lavoro i secondi, altrettanto anonimi modelli del lusso i primi. Si provvede in ogni caso alla rimozione e all’annichilimento della unicità. Non più il Volto. Oggi esistono solo facce. “Faccia”, dal latino facies: faccia, ma anche tra i suoi numerosi significati: "forma esteriore, apparenza". La faccia non è il Volto. E nemmeno il viso è Volto. Visus è già visto. Mentre il Volto è il luogo della differenza, della alterità assoluta, l’epifania della Alterità. Per dirla con Lévinas “il volto è il modo per eccellenza di essere altri”, “volto è ciò che io non sono”.

E’ interessante notare il fatto che si va verso modelli estetici gender free: donne mascoline e uomini femminilizzati. La differenza si cancella nel “medesimo” e si dissolve nella omologazione, in quella produzione in serie propria di un regime totalitario.

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