La guerra dei settant’anni, ultima puntata (per ora)

di Paolo Arigotti

Non ci soffermeremo sull’evoluzione dei fatti e/o sull’andamento della situazione bellica in Medio Oriente, non tanto perché sarebbe meglio lasciare il compito ad analisti ed esperti di strategia militare - quelli veri s’intende - ma perché siamo consapevoli che qualunque cosa dicessimo o scrivessimo al riguardo rischierebbe di essere ben presto superata. Lo stesso discorso si potrebbe fare per qualunque cifra o bilancio su numero o entità degli attacchi e/o di vittime, feriti e sfollati, numeri circa i quali è lecito attendersi, purtroppo, una rapida crescita.

Tantomeno ci soffermeremo sulle reazioni del cosiddetto Occidente, che ha dato sfoggio del solito campionario di slogan o frasi di circostanza; stessa riflessione si potrebbe fare per molti dei cosiddetti professionisti dell’informazione.

Bisogna riconoscere, senza per questo voler giustificare nessuno, che parlare in questo paese della conflittualità arabo israeliano non è affatto semplice: nel caso di narrazione non allineata si rischia, bene andando, di essere etichettati o messi all’indice da coloro che non tollerano di ascoltare voci dissonanti.

Una piccola lezione di stile la potrebbero fornire alcuni media insospettabili.

Cominciamo con Gideon Levy, cittadino israeliano e firma storica del quotidiano progressista Haaretz, che ha addebitato al premier Benjamin Netanyahu (Bibi per gli amici) la colpa dell’accaduto, concludendo il suo intervento con queste parole: “Gli Stati Uniti, l’Unione Europea e l’intero mondo occidentale ritiene che Israele sia una democrazia liberale e condivida gli stessi valori dell’Occidente, ma ciò non può essere del tutto vero se nel suo cortile sul retro mantiene in vigore una brutale tirannia. La comunità internazionale dovrebbe comportarsi con Israele come fece qualche decennio fa con il Sudafrica, quando riuscì infine a far cadere un regime che opprimeva i neri sudafricani.”[1]

E cosa dire di Ari Shavit[2], altra firma di Haaretz, che parla di un Israele all’ultimo respiro, o degli studenti americani di Harvard, che hanno criticato il regime di apartheid creato nello stato ebraico ai danni degli arabi[3].

Inoltre, in un’intervista all’agenza Dire, il deputato della Knesset Ofer Cassif (partito comunista israeliano) parla di crimini di guerra, “regime di apartheid” e “pogrom” contro palestinesi innocenti provocati dall’occupazione militare israeliana, aggiungendo che “Hamas ha commesso un crimine di guerra contro civili innocenti che non possiamo accettare; bisogna ora considerare il contesto, non per giustificare l’ingiustificabile, ma per capire e per far sì che quello che è accaduto non si ripeta”[4].

Il vero problema dell’approccio adottato dai nostri media, e non solo sulla questione israelo-palestinese purtroppo, è quella di giudicare il film basandosi sull’ultimo spezzone, magari facendosi trascinare dall’onda emotiva del momento. Assai più corretto sarebbe analizzare i fatti partendo dalle origini, un approccio che consentirebbe di arrivare alla conclusione che quello in corso è solo l’ultimo capitolo di una guerra che dura da circa settant’anni[5].

Una conflittualità che non ha mai conosciuto una vera e propria stasi, se non, forse, nella fase che ha preceduto e seguito gli accordi di Oslo del 1993, quando le delegazioni dello stato ebraico e del popolo palestinese (rappresentato dall’Organizzazione per la Liberazione – OLP) siglarono una serie di intese, che partendo dal riconoscimento reciproco tra le parti, miravano alla normalizzazione dei loro rapporti. La prima fase avrebbe previsto la costituzione di un’Autorità nazionale palestinese, preliminare alla nascita di un vero e proprio autogoverno nella Striscia di Gaza e in parte della Cisgiordania, con l’obiettivo di dare vita un domani alla creazione di uno stato palestinese; in questo scenario, si sarebbe addivenuto anche all’instaurazione di regolari relazioni diplomatiche tra lo stato ebraico e i paesi arabi, come avvenne nel 1994 con la Giordania.

Il problema è che buona parte di quegli accordi – la cui firma costò la vita al premier israeliano Yitzhak Rabin, ucciso per mano di un estremista ebraico nel 1995 – non ricevettero quasi per nulla attuazione, e molte delle speranze che li avevano salutati come il primo step verso la soluzione della questione palestinese si sarebbero rivelate evanescenti.

Nessuna delle due “estreme” li accettò mai veramente. La ratifica delle intese di Oslo da parte della Knesset avvenne con una maggioranza risicata (e il voto contrario delle destre), mentre sul fronte palestinese componenti come Hamas, il Movimento per il Jihad Islamico in Palestina o il Fronte Popolare per la Liberazione della Palestina non li riconobbero mai; lo stesso discorso si potrebbe fare per le rispettive opinioni pubbliche.

Divisioni politiche a parte, di sicuro non giocò a favore la prosecuzione degli insediamenti israeliani nelle zone affidate, almeno in teoria, all’amministrazione autonoma palestinese - autonomia più o meno effettiva a seconda della zona – e non furono mai veramente attuati altri punti dell’accordo, come quelli in materia di cooperazione e demilitarizzazione.

Tutto questo, unitamente allo scarso impegno della comunità internazionale, non fece che alimentare un clima di sfiducia, che ha finito per travolgere la stessa Autorità palestinese (oggi guidata dall’ultraottuagenario Mahmud Abbas, meglio conosciuto in Occidente come Abu Mazen), sempre più percepita dai palestinesi come troppo condiscendente col governo israeliano, praticamente ignorata dal governo ebraico; una spia di questa disaffezione era arrivata dal voto popolare del 2006, quando Hamas ottenne la maggioranza assoluta dei seggi in seno al Consiglio legislativo palestinese.

L’avanzata delle fazioni più estremiste è andata di pari passo anche in Israele. L’attuale premier Benjamin Netanyahu, tra i maggiori protagonisti della vita politica dello stato ebraico nell’ultimo quarto di secolo, guida dal dicembre scorso un governo che ha al suo interno formazioni politiche di estrema destra, tra le più oltranziste e contrarie a qualunque prospettiva di dialogo e pacificazione col mondo arabo. E non dimentichiamo che nel 2018 (premiership sempre di Netanyahu) la Knesset aveva votato una legge che proclamava lo stato d’Israele quale “casa nazionale del popolo ebraico”, di fatto relegando a una condizione di serie “b” i cittadini di etnia araba (circa un quinto della popolazione), senza tenere in nessun conto i palestinesi.

Se persino diversi organi di stampa israeliani[6] hanno imputato al primo ministro, con la sua virata a destra (estrema), la responsabilità delle crescenti tensioni interne, è difficile negare che in queste decisioni abbiano avuto un peso determinante le vicende personali di Netanyahu, alle prese con diverse inchieste e scandali per corruzione: proprio per “sfuggire” alla giustizia, il premier avrebbe accettato di allearsi con le componenti più estremiste. La stessa proposta di riforma della Corte suprema, che in sostanza puntava a introdurre una sorta di controllo politico sull’operato della magistratura, aveva il malcelato obiettivo di liberare il premier e alcuni suoi ministri delle loro grane con la giustizia, ma la decisione si è rivelata un boomerang, causando durissime contestazioni in patria, con centinaia di migliaia gli israeliani scesi in piazza.

In questo senso, non sorprende che qualcuno sia arrivato a sostenere che l’escalation di queste ore – con la forte presa di posizione di Netanyahu, che ha immediatamente dichiarato lo stato di guerra – potrebbe rappresentare un efficace diversivo per un’opinione pubblica tanto contrariata. Tuttavia sostenere con ciò che l’offensiva arrivata da Gaza sarebbe stato un qualcosa di provocato (e/o consentito) dalla dirigenza politica israeliana è tutt’altro discorso: ne è convinto il giornalista Fulvio Grimaldi, col quale se ne è parlato in una recente intervista[7], il quale sostiene che il danno all’immagine che ne è derivato per Israele – da sempre rappresentata come l’unica democrazia dell’area e come una roccaforte imprendibile – sarebbe un tributo troppo pesante da pagare per la sopravvivenza politica del premier; altro discorso è quello che sarebbe lecito chiedere la “testa” dei vertici delle forze armate e dell’intelligence, il minimo dopo un simile fallimento.

Qualunque opinione si possa avere in merito, è assai probabile che la società israeliana farà quadrato attorno al suo governo, per reagire all’aggressione arrivata da Gaza. Le prime incursioni israeliane sono già in corso e si paventa uno scenario da esodo biblico, con migliaia (se non milioni) di residenti di Gaza che potrebbero lasciare il territorio per dirigersi verso l’Egitto (a suo tempo mediatore tra Israele e Hamas)[8].

Spendiamo qualche parola per descrivere il teatro della “vendetta” israeliana, da dove sono partiti gli attacchi dei giorni scorsi.

La striscia di Gaza è un territorio di circa trecento chilometri quadrati, dove vivono più o meno due milioni di persone, quasi la metà delle quali senza lavoro, casa e/o prospettive per il futuro, spesso private (o fortemente limitate) nello stesso diritto alla mobilità, persino all’interno di questa sorta di ghetto, dal quale è arduo spostarsi persino per motivi di salute. Ce ne restituisce una fotografia molto efficace L’Indipendente, in un recente articolo incentrato sul fatto obiettivo che non ci può essere pace senza giustizia (per il popolo palestinese)[9].

Eppure, le cose potevano (e dovevano) andare diversamente.

Poco fa parlavano degli accordi di Oslo del 1993, ora vorremmo tornare ancora più indietro nel tempo, riprendendo alcuni contenuti di un documento risalente al 1947. Prima di rivelarvene la natura, ne leggeremo alcuni passaggi.

“Ma la commissione si è anche resa conto che il punto cruciale della questione palestinese deve essere individuato nel fatto che due considerevoli gruppi, una popolazione araba con oltre 1.200.000 abitanti e una popolazione ebraica con oltre 600.000 abitanti con un'intensa aspirazione nazionale, sono diffusi attraverso un territorio che è arido, limitato, e povero di tutte le risorse essenziali. È stato pertanto relativamente facile concludere che finché entrambi i gruppi mantengono costanti le loro richieste è manifestamente impossibile in queste circostanze soddisfare interamente le richieste di entrambi i gruppi, mentre è indifendibile una scelta che accettasse la totalità delle richieste di un gruppo a spese dell'altro.”

Ci riferiamo a documenti ufficiali della neo nata Organizzazione delle Nazioni Unite, che avrebbe adottato la risoluzione n. 181 del 1947, la quale sanciva una suddivisione del territorio della Palestina (ex mandato britannico) tra ebrei (all’epoca circa mezzo milione), ai quali ne sarebbe andato il 56,47 per cento (includendovi anche 325mila arabi), con le terre migliori, mentre il restante 43,53 sarebbe stato appannaggio di arabi (poco più di 800mila), con altri diecimila ebrei; uno speciale status internazionale - abitata e suddivisa quasi a metà tra le due etnie - era previsto per la città di Gerusalemme.

Non occorre essere dei grandi storici per sapere che questa risoluzione, come molte altre venute dopo, sarebbe rimasta lettera morta. Pensiamo alla 194 del 1948 sul diritto di ritorno alle loro case dei profughi, dalle quali erano stati cacciati con la forza; alla 273 del 1949 che imponeva allo stato ebraico, quale condizione per l’ammissione all’ONU, il rispetto delle risoluzioni adottate; alla 242 del 1967 con la quale si ingiungeva a Israele di ritirarsi dai territori conquistati militarmente con la guerra dei sei giorni, decisione poi ribadita nel 1973 (risoluzione n. 338); alla 425 del 1978 che conteneva la stessa ingiunzione, stavolta riferita al Libano, dal quale il ritiro sarebbe avvenuto solo nel 1985. E poi si potrebbero citare le numerose risoluzioni di condanna delle colonizzazioni illegali dei territori palestinesi, per non parlare delle decine di atti ufficiali la cui adozione fu bloccata dal veto del patron statunitense, dove la componente ebraica gode di un’influenza risaputa.

E non dimentichiamo che l’assemblea generale dell’ONU, con diverse prese di posizione non vincolanti, ha sancito a sua volta una serie di importanti principi. La risoluzione n. 3236 del 1974 stabiliva il diritto dei palestinesi all'indipendenza e all'autodeterminazione, mentre la coeva 3237 accordava all'OLP lo status di osservatore permanente; la 3379 del 1975 denunziava il sionismo quale "forma di razzismo e discriminazione razziale"[10]. E poi meriterebbe di essere menzionato l’art. 10 della Costituzione del New Hampshire che riconosce il cosiddetto diritto alla rivoluzione[11]: “Essendo il governo istituito per il benessere comune, la protezione e la sicurezza dell'intera comunità, e non per l'interesse privato di un singolo individuo, famiglia o classe, allora, qualora i fini del governo siano pervertiti, e la libertà generale sia manifestamente danneggiata, il popolo può, e in verità deve riformare il vecchio governo, o istituirne uno nuovo. La dottrina di non-resistenza di fronte a un potere oppressivo e arbitrario è assurda, schiavile e dannosa per il benessere e la felicità del genere umano”.

Parlare delle inefficienze delle Nazioni Unite e/o del doppiopesismo che ha caratterizzato molte delle sue decisioni (e non decisioni) non porterebbe lontano. Ci limiteremo a dire che il caso israeliano è uno degli esempi più emblematici di come quello che avrebbe dovuto essere l’embrione del governo mondiale, chiamato a salvaguardare la pace e la sicurezza tra le nazioni, non sia stato in grado di adempiere alle sue alte finalità, per un insieme di ragioni politiche e interessi egoistici.

E nessun dubbio poteva esserci circa la brutalità e violenza della risposta israeliana, che ha immediatamente lanciato i primi alert per indurre i residenti ad abbandonare luoghi non sicuri, in vista degli attacchi aerei, e questo nonostante i numerosi israeliani, compreso un alto ufficiale e diversi militari, fatti prigionieri dai palestinesi e forse utilizzati come scudi umani. In un tweet (o X se preferite) del quotidiano israeliano Haaretz[12], si legge che il governo non si farebbe troppi scrupoli per gli ostaggi.

E già si profilano le due parti di questo ennesimo conflitto non dichiarato. Da un lato abbiamo Hezbollah, che ha alle spalle la potenza regionale iraniana[13], tanto che già si registrano i primi fermenti al confine col Libano, senza contare la possibilità che possa essere coinvolta anche la Cisgiordania (controllata ancora da Al Fatah); secondo il Wall Street Journal[14] ci sarebbe stata Teheran dietro l’organizzazione dell’azione di Hamas, ma si tratta di fatti tutti da dimostrare.

Sul fronte opposto, il senatore repubblicano Lindsey Graham[15] ha definito Hamas un “gruppo di animali”, auspicando che la guerra venga portata nel cortile degli Ayatollah. A gettare benzina sul fuoco ci ha pensato anche Yoav Galant, capo del Comando meridionale ed ex ministro della Difesa d’Israele, che preparando l’assedio via terra della Striscia di Gaza (dichiarato illegale dall’ONU[16]), ne ha già ordinato il blocco totale: “Niente energia, niente cibo, niente acqua, niente gas; tutto chiuso” aggiungendo che: “Abbiamo a che fare con bestie umane e saranno trattate come tali”[17]. Nel frattempo, il segretario alla Difesa degli Stati Uniti, Lloyd Austin, ha ordinato al gruppo d’attacco della portaerei USS Gerald R. Ford di dirigersi verso il Mediterraneo orientale, pronto a fornire assistenza allo stato ebraico.

Le ripercussioni politiche della situazione non mancheranno: la prospettiva di un allargamento degli accordi di Abramo, che qualche anno fa permisero a Tel Aviv di allacciare relazioni diplomatiche con Emirati Arabi, Bahrein, Marocco e, in parte, col Sudan subiranno, come minimo, una fase di arresto. In particolare, si fa più remota la pace e lo scambio di ambasciatori con l’Arabia Saudita, che col principe ereditario Bin Salman si è affrettata a parlare di precise responsabilità di Tel Aviv circa il nuovo scenario di guerra. Se è del tutto evidente che al momento sarebbe impensabile un’intesa che sembrava a un passo – e che era incoraggiata dall’Amministrazione americana, pure in vista delle presidenziali del prossimo anno - chi conosce la storia della diplomazia dovrebbe sapere fin troppo bene che certe decisioni non possono essere influenzate dall’onda emotiva del momento. L’intesa per ora rimarrà sicuramente in stand by, ma esistono una serie di ragioni che inducono a ritenere che un domani il discorso verrà ripreso. Interessi elettorali di Biden a parte, c’è molto di più della regolarizzazione di relazioni economiche e politiche che nei fatti già esistono tra Riyad e Tel Aviv, pensiamo solo all’IMEC, e di fronte a interessi così colossali è difficile pensare che i diritti del popolo palestinese non potrebbero passare in secondo piano (come già stava avvenendo fino a pochi giorni addietro) [18].

Chi volesse leggere negli attacchi un tentativo iraniano di sabotare il processo di negoziazione in corso avanzerebbe un dubbio legittimo, per quanto non necessariamente fondato, specie nella logica degli equilibri più generali del Medio Oriente.

Di ONU e Stati Uniti abbiamo già detto. Difficile attendersi qualunque mossa dal resto dell’Occidente o dalla UE, che si limitano alle solite (e vuote) dichiarazioni di principio, supportando acriticamente Israele, senza mai interrogarsi sulle responsabilità dello stato ebraico (e sulle proprie). L’unica nota positiva è stato l’annuncio dell’Alto rappresentante dell’Unione per la politica estera, Josep Borrell, che ha garantito che la UE non sospenderà gli aiuti economici ai palestinesi, come era stato ipotizzato in un primo momento[19].

In questo senso, più prudenti e lungimiranti, per quanto mai del tutto prive d’interesse, le prese di posizioni della Turchia (con Erdogan che già si è offerto come mediatore), e di Russia e Cina, la quale può vantare il successo diplomatico del ristabilimento delle relazioni tra Iran e Arabia Saudita. Mosca e Pechino propongono l’unica e vera soluzione possibile: la pace, con due stati, per isolare e mettere a tacere gli estremismi di entrambe le parti, che forse riescono a trovare l’unico punto d’intesa proprio nella mancanza di volontà di trovare una soluzione politica.

L’escalation dei giorni scorsi presenta indubbiamente degli elementi di novità rispetto al passato – come la vulnerabilità manifestata dalle difese dello stato ebraico – ma in una fase storica nella quale l’attenzione del mondo (o, per meglio dire, dei media) era calamitata dal conflitto ucraino, quel che emerge è un’evidente incapacità e inadeguatezza delle classi politiche dei singoli stati (e delle principali organizzazioni internazionali) nel ricercare soluzioni percorribili.

Premesso che chi scrive è contro la violenza e contro la guerra, se c’è una lezione che la storia ci offre è che qualunque conflitto, a maggior ragione questo che va avanti quasi ininterrottamente da decenni, provoca solo morte e distruzione[20]. Il problema è quando ad essere chiamata ad affrontare eventi del genere sia una classe dirigente, compresa quella israeliana, del tutto inadeguata, a causa (e per colpa) della quale il mondo – in una spirale di conflittualità che pare inarrestabile - rischia di fare una gran brutta fine.

Abbiamo già detto che una soluzione esisterebbe, ed è quella suggerita dalla Russia e dalla Cina[21]. E utilizziamo volutamente il verbo “suggerire”, perché qui non si parla di una proposta originale, ma dell’applicazione dei principi e delle regole delle Nazioni Unite, sanciti in numerosi atti ufficiali.

Se poi la pretesa che pure lo stato ebraico debba essere obbligato a rispettarli dovesse essere considerata da qualche scriteriato una forma di “antisemitismo”[22], potremmo solo concludere che abbiamo idee molto diverse, per non dire opposte, della storia e della legalità internazionale. Anche perché se la legalità internazionale, basata su principi comuni e condivisi da tutti, non potesse (o volesse) essere fatta rispettare, tanto varrebbe tornare alla logica del più forte. Una opzione questa ultima, sia ben chiaro, che rigettiamo senza esitazioni, ma che sembra andare per la maggiore negli ultimi decenni.

E come insegnano al primo anno di Giurisprudenza, l’assenza di legalità produce solo abusi di ogni tipo, che perpetrati per decenni possono scatenare reazioni apparentemente inconsulte: non si tratta di giustificare l’uso della forza, ma di porre in essere gli accorgimenti per evitare che si arrivi a tanto.

Affermava lo scrittore e giornalista Paolo Barnard[23] che se molti conoscessero la vera storia della vicenda israelo-palestinese si farebbero un’idea molto diversa della questione. Una testimonianza interessante arriva anche da Patrizia Cecconi, scrittrice e attivista per i diritti umani[24] e da altri reportage dedicati a Gaza, definita “la più grande prigione a cielo aperto del mondo”[25].

Odio chiama odio, estremismo chiama estremismo. E se si vuole che prevalgano le ragioni della pace, non si può ricorrere che alla soluzione politica, per la quale però servirebbe un certo dirigente all’altezza e al passo coi tempi[26].

Se l’esistenza di un dibattito critico dimostra che in Israele c’è libertà di espressione, è giunto il momento – e la comunità internazionale ha il dovere di impegnarsi in tal senso[27] – che gli stessi principi debbano valere per TUTTI gli abitanti di questa terra martoriata.

Ps Piccola riflessione: è mai possibile che ogni volta che accade un fatto nuovo, l’informazione improvvisamente archivi tutti i precedenti, compresi quelli che andavano “per la maggiore” fino al giorno prima? Ucraina, chi è costei?

FONTI

www.limesonline.com/israele-attacco-hamas-striscia-gaza/133887

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La nascita dello Stato d'ISRAELE: una storia mai risolta - www.youtube.com/watch?v=NC8Nv7A9grc&t=48s; Come Israele occupa la Palestina (illegalmente) www.youtube.com/watch?v=S43D6MWqvKY&t=32s (Canale Nova Lectio)

Palestina: capire il torto (di Paolo Barnard) - www.youtube.com/watch?v=L_AJYz2CiqU (Canale Matteo Gracis)

Hamas ed Israele: un gioco troppo pericoloso - www.youtube.com/watch?v=dCDNixipQH0; Hamas Israele: come previsto.... - www.youtube.com/watch?v=hyIj-crxbjA&t=14s (Canale Aldo Giannuli)

La sfida senza precedenti lanciata da Hamas a Israele - www.youtube.com/watch?v=e1OQYl1UOZA (Canale Il Contesto)

Gli obiettivi e le conseguenze dell’attacco a Israele.- www.youtube.com/watch?v=sqFzjfm1eKA (Canale Nicolai Lilin)

[1] it.gariwo.net/interviste/gideon-levy-su-israele-basta-muri-la-soluzione-e-garantire-uguaglianza-e-parita-di-diritti-26451.html

[2] www.vista.sahafi.jo/art.php?id=3dc42bc870098c905e866464293c5c1f72123267

[3] www.lantidiplomatico.it/dettnews-studenti_di_harvard_denunciano_lapartheid_di_israele_insorge_lex_rettore_larry_summers/8_51177/

[4] www.pressenza.com/it/2023/10/ofer-cassif-deputato-della-knesset-in-unintervista-con-lagenzia-dire/

[5] www.youtube.com/watch?v=dCDNixipQH0

[6] it.gariwo.net/interviste/gideon-levy-su-israele-basta-muri-la-soluzione-e-garantire-uguaglianza-e-parita-di-diritti-26451.html

[7] www.youtube.com/watch?v=7gCucoba0u0&t=494s

[8] www.aljazeera.com/news/2023/10/8/no-place-for-gaza-residents-to-flee-after-israel-declares-war-bombs-homes

[9] www.lindipendente.online/2023/10/09/israele-non-puo-pretendere-la-pace-finche-i-palestinesi-non-avranno-giustizia/

[10] leg15.camera.it/cartellecomuni/leg14/RapportoAttivitaCommissioni/testi/03/03_cap06_sch01.htm

[11] www.nh.gov/glance/bill-of-rights.htm

[12] twitter.com/haaretzcom/status/1711392322225877402

[13] www.lafionda.org/2023/10/09/ora-israele-rischia-di-scatenare-una-guerra-regionale/

[14] www.wsj.com/world/middle-east/iran-israel-hamas-strike-planning-bbe07b25

[15] www.foxnews.com/video/6338741762112

[16] www.ansa.it/sito/notizie/mondo/2023/10/10/onu-assedio-totale-di-gaza-viola-diritto-internazionale_df91c0ae-7d60-4d1e-af91-12f2ad522c9e.html#:~:text=%2D%20GINEVRA%2C%2010%20OTT%20%2D%20L,i%20diritti%20umani%2C%20Volker%20Turk.

[17] www.limesonline.com/notizie-mondo-oggi-9-ottobre-israele-palestina-gaza-hamas-hezbollah-usa-cina-cile-aukus/133888

[18] www.limesonline.com/hamas-iran-normalizzazione-israele-arabia-saudita-usa/133849

[19] it.euronews.com/my-europe/2023/10/09/lunione-europea-sospende-tutti-gli-aiuti-alla-palestina#:~:text=All%20rights%20reserved.&text=L'Ue%20fa%20marcia%20indietro%20sulla%20precedente%20decisione%20di%20interrompere,non%20ci%20sar%C3%A0%20alcuna%20sospensione%22.

[20] www.lantidiplomatico.it/dettnews-atilio_boron__la_politica_terroristica_di_conquista_territoriale_di_israele_e_il_conflitto_attuale/39602_51155/

[21] www.lantidiplomatico.it/dettnews-global_times__attacco_di_hamas_un_duro_monito_che_londa_di_riconciliazione_in_medio_oriente_non_durer_con_il_conflitto_tra_palestina_e_israele_irrisolto/39602_51164/

[22] www.lantidiplomatico.it/dettnews-paolo_desogus__il_popolo_palestinese_e_la_violenza_disperata/33397_51160/

[23] www.youtube.com/watch?v=L_AJYz2CiqU

[24] www.lantidiplomatico.it/dettnews-hamas_israele_e_il_racconto_dei_media_mainstream__patrizia_cecconi/5496_51171/

[25] www.lantidiplomatico.it/dettnews-gaza_tutto_quello_che_c_da_sapere_sulla_prigione_a_cielo_aperto_pi_grande_del_mondo/8_51156/

[26] it.insideover.com/guerra/se-hamas-e-il-simbolo-di-un-mondo-fuori-controllo.html

[27] www.ilfattoquotidiano.it/2023/10/10/israele-lex-ambasciatrice-basile-la-mediazione-e-possibile-se-si-riconoscono-le-cause-di-un-conflitto-ma-leuropa-e-inesistente-su-la7/7318551/

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