di Paolo Arigotti
Negli Stati Uniti esiste dal 1946 una legge, la Federal Regulation of Lobbying Act, che disciplina l’operato delle cosiddette lobby, termine traducibile in italiano con “gruppi di pressione”. Non è un mistero per nessuno che in ogni realtà politica esistano gruppi o centri di potere, che assumono differenti forme e natura, i quali esercitano a vario titolo “sollecitazioni” nei confronti dei decisori politici per favorire l’adozione di misure o provvedimenti in linea con le loro istanze e interessi. In questo senso, il legislatore d’oltreoceano non ha fatto che prendere atto della realtà, scegliendo di regolare queste dinamiche.
Il primo lobbista della storia americana sarebbe stato niente di meno che un presidente degli Stati Uniti, Ulysses Grant, al potere tra il 1869 e il 1877: si racconta che avesse l’abitudine di ricevere al Willard Hotel, nei pressi della Casa Bianca, tutte le persone che gli domandavano interventi particolari (parliamo di politica, sia chiaro!).
Secondo la legge federale, più volte emendata, tutto il denaro e le utilità erogate in favore di individui o aziende pubblici devono essere resi conoscibili periodicamente, mentre sono vietati i semplici “regali”. Inoltre, “chiunque individualmente, o attraverso un loro agente o impiegato o altre persone di qualunque tipo, direttamente o indirettamente sollecita, raccoglie o riceve denaro o altre cose di valore da usare principalmente per aiutare l'approvazione o la bocciatura di qualsiasi legge da parte del Congresso" deve essere iscritto in un apposito albo, tenuto presso il parlamento federale.
Una legge successiva del 1995 (Lobbying Disclosure Act) contiene una definizione di quello che potremmo chiamare un "lobbista”: chiunque sia "impiegato o stipendiato tramite compensi finanziari o non per servizi che includano più di un contatto lobbistico", dettando anche una disciplina del tempo minimo da dedicare all’attività di lobbistica per essere inclusi nella categoria: insomma non è contemplata la figura del lobbista “occasionale”.
Tutti i membri del Congresso hanno l’obbligo di dichiarare il totale dei contributi elettorali ricevuti, da chiunque erogati.
Per la cronaca, nel 2020, secondo un’analisi condotta dal Wall Street Journal, tra i primi lobbisti d’America figuravano alcuni giganti del web, come Facebook e Amazon, con importi stimati in decine di milioni di dollari.
In Italia, invece, nonostante non siano mancate le proposte - nel 2022 è stato discusso alla Camera un progetto di legge sulle lobby[1], con l’obiettivo di garantire maggiore trasparenza nei processi decisionali – ancora oggi non esiste una disciplina analoga a quella statunitense.
Quando si pensa a ristretti circoli di potere che vogliono influenzare il decisore politico si fa presto a immaginare scenari da film – tipo la classica valigetta colma di banconote o un conto corrente cifrato in qualche paradiso fiscale – ma il fatto è che, al di là dell’esistenza di fenomeni corruttivi di cui nessuno dubita, la filosofia che sta dietro la legge sulle lobby è qualcosa di molto diverso. Se poi dicessimo che queste operazioni vengono portate avanti dalle componenti più influenti e ricche della società faremmo un’affermazione di un’ovvietà quasi stucchevole[2].
Questa lunga e doverosa premessa era necessaria per far comprendere che la cosiddetta lobby ebraica, alla quale ci dedicheremo d’ora in avanti, è solo una delle tante esistenti in America. La precisazione, tuttavia, era necessaria perché l’idea stessa di una sorta di misteriosa organizzazione ebraica evoca una serie di deliri complottisti, accompagnati talvolta da accuse di antisemitismo, che nulla hanno a che vedere col discorso che porteremo avanti. Qui non parliamo di falsità storiche come I protocolli di Sion, invenzione della propaganda zarista, poi ripresa dal regime nazionalsocialista, ma di organismi che agiscono alla luce del sole, nel perseguimento dei propri interessi.
Come dicevamo all’inizio, questi gruppi di pressione sono una realtà fattuale e scegliendo di regolarne l’operato il legislatore statunitense ha semplicemente preso atto delle dinamiche sociali, discorso che vale anche per la cosiddetta lobby ebraica.
Convenzionalmente questa ultima sarebbe nata nel 1954, circa sei anni dopo la dichiarazione d’indipendenza dello stato d’Israele e il primo conflitto armato col mondo arabo[3]. La lobby non nasceva dal nulla e aveva avuto una sorta di precursore nell’American Zionist Council (AZC), un piccolo gruppo con sede a Washington, che già aveva esercitato delle pressioni sul mondo politico statunitense per favorire aiuto e sostegno al neonato stato ebraico.
La costituzione di una vera e propria lobby venne favorita da un fatto tragico, consumatosi nell’ottobre del 1953, quando dei militari israeliani avevano massacrato alcune decine di palestinesi, in un’operazione contro il villaggio di Qibya, in Cisgiordania, che doveva essere la risposta all’attentato di Yehud, costato la vita a tre ebrei, due dei quali bambini. Per la cronaca, al comando dei militari israeliani c’era il futuro premier Ariel Sharon[4].
La reazione israeliana venne giudicata eccessiva negli Stati Uniti e nella comunità internazionale, suscitando forti proteste. La risoluzione del Consiglio di Sicurezza dell’ONU del 24 novembre 1953, elaborata e votata anche dagli USA, censurò duramente l’operato delle forze israeliane, rigettando ogni diversa versione dei fatti fornita da Tel Aviv.
Il prestigio del nuovo stato rischiava di uscirne fortemente compromesso e per questa ragione diverse organizzazioni ebraiche attive negli States – tra le quali il Comitato israelo americano per gli affari pubblici (AIPA, American Israel Public Affairs Committee) e la Conferenza dei presidenti delle principali organizzazioni ebraiche americane – decisero di mettere da parte le divisioni interne, in particolare quelle tra sionisti e non, per salvaguardare l’immagine d’Israele: nel tempo, questo si sarebbe rivelato l’elemento unificante delle varie anime del fronte ebraico statunitense.
Tuttavia, in un passaggio di uno studio pubblicato sul sito della Cambridge University Press si legge che: “Una letteratura giornalistica di divulgazione ha ripetutamente “rivelato” la presenza della lobby, la sua struttura e le sue attività, ma gli studi storici seri su questo argomento rimangono stentati”, a dimostrazione del fatto che non esiste unanimità di vedute sulle dinamiche che condussero alla nascita della lobby.
Inoltre, sarebbe sbagliato immaginare una sorta di organizzazione unica: come ricordano John Mearsheimer, docente di Scienze Politiche a Chicago e Stephen Walt, che insegna Affari Internazionali alla Kennedy School of Government di Harvard, nel loro fondamentale studio “La lobby israeliana e la politica estera degli Usa”, pubblicato per la prima volta nel 2007[5], non si deve assolutamente pensare a una presunta lobby unitaria, che manovrerebbe nell’ombra per oscuri fini (stile “spectre” di James Bond), bensì a un insieme di elementi individuali e/o di organizzazioni indipendenti, prive di un coordinamento tra loro, che perseguono propri interessi, esattamente come fanno tutte le altre lobby operanti nei più diversi settori. Ancora più sbagliata sarebbe l’immagine di una sorta di una setta segreta o clandestina, visto che i gruppi riconducibili a questo filone, come dicevamo, operano alla luce del sole, con tanto di fondazioni, convegni, organi di stampa, che utilizzano per esercitare pressioni sul potere politico. Una precisazione questa che è molto importante, l’hanno fatta più volte anche i due autori citati, per mettere a tacere sul nascere accuse di cospirazionismo o, peggio, antisemitismo destituite di ogni fondamento nel caso di specie.
La cosiddetta lobby non nasce solo all’interno dei principali centri di potere americano (come Washington o New York), ma pure in Israele e nei territori palestinesi, a dimostrazione che l’evoluzione di questi gruppi fu il frutto di dinamiche che provenivano da entrambe le sponde dell’Oceano (ricordiamo, per incidens, che il mar Mediterraneo fa parte dell’Atlantico).
La lobby palesò quasi da subito la sua enorme capacità d’influenza: negli anni Sessanta si registrò un forte incremento dell’assistenza americana a favore d’Israele, pure con l’aumento della vendita di armi.
Per quanto resti fondamentale il contributo delle componenti ebraiche, non mancano all’interno della lobby gruppi cristiani: è il caso dei sionisti evangelici conservatori, come quelli riuniti nella Christians united for Israel (Cufi).
Va anche detto che, nonostante l’operato di questi gruppi, gli ebrei americani sono una realtà tutt’altro che omogenea al prioprio interno[6]: per esempio ci sono molti critici del sionismo[7], i quali sostengono l’idea che gli ebrei debbano essere un gruppo religioso, e non una nazione. Per quanto queste anime critiche siano presenti ancora oggi, a partire dagli anni Cinquanta[8] sono state marginalizzate, al pari di quegli ebrei statunitensi che molto più semplicemente si disinteressano della questione.
In effetti, le prime fratture del genere nel fronte ebraico erano emerse quando era ancora in corso la Seconda guerra mondiale, tra i favorevoli e i contrari alla cosiddetta dottrina dell’Aliyah, vale a dire il trasferimento in Palestina. In occasione di una riunione ufficiale tenutasi in America nel 1943, l’American Jewish Conference (AJConference) aveva fatto propria la dichiarazione formulata l’anno prima nella “Conferenza Biltmore”, che prevedeva la creazione di un vasto “Commonwealth ebraico” in Palestina, eppure, per quanto chiunque si esprimesse contro venisse osteggiato, l’ipotesi non aveva convinto tutti.
A schierarsi contro il progetto sionista ci fu la potente American Jewish Committee (AJC), organizzazione che contava al suo interno molti uomini ricchi e influenti, che decise di abbandonare i lavori della conferenza. La AJC si sarebbe poi sciolta alla fine degli anni Quaranta.
Costoro vennero chiamati “non sionisti”, per distinguerli dagli antisionisti: in pratica essi riconoscevano il diritto di coloro che volontariamente decidessero di trasferirsi in Palestina, ma allo stesso tempo non erano favorevoli alla costituzione di un vero e proprio stato ebraico.
L’Olocausto, però, parve confermare le tesi sioniste, facendo tornare in auge le idee elaborate a inizio secolo da Theodor Herzl, il quale partendo dall’assunto che l’antisemitismo europeo fosse inestirpabile, vedeva nella fondazione di uno stato ebraico l’unica soluzione per gli ebrei per poter vivere in pace.
Ed è innegabile che il crimine perpetrato dai nazisti e dai loro volenterosi carnefici in varie parti d’Europa finì per indurre anche i cosiddetti non sionisti a schierarsi per il nuovo stato (1948), mettendo da parte molte delle perplessità che precedentemente avevano manifestato. Ricordiamo che tra i primi governi a riconoscere Israele troviamo proprio quelli di Stati Uniti e Unione Sovietica.
Partendo da queste fratture originarie, nel corso degli anni Cinquanta il concetto di sionismo subì una lenta e progressiva evoluzione, finendo per coincidere con l’idea di un sostegno attivo allo stato ebraico, a prescindere dalla volontà o meno dei suoi sostenitori di trasferirvisi[9]: in un’ottica di rafforzamento dello stato ebraico, il movimento sionista lentamente perderà la propria autonomia rispetto al governo.
Se già nel 1951, quando a Gerusalemme si tenne il congresso del movimento sionista, era stata ribadita la volontà di rendere sempre più solide le basi politiche e giuridiche d’Israele, il primo ministro e fondatore dello stato, David Ben-Gurion, dichiarò che tutti i gruppi di estrazione ebraica, compresi quelli che vivevano in America, dovessero lavorare in questa direzione.
Fu una strategia molto accorta, tenuto conto che – cosa che Ben Gurion sapeva benissimo - molti dei cosiddetti non sionisti (gli ebrei americani che non volevano trasferirsi) avevano stretti contatti col potere politico statunitense - un nome per tutti era quello di Henry Morgenthau Jr. - ragion per cui era molto più ragionevole favorire un coordinamento con loro, piuttosto che creare delle fratture per questioni ideologiche.
Restano emblematiche le parole di Kenen, giornalista e avvocato di Cleveland, che in seguito avrebbe servito come specialista delle comunicazioni statunitensi per l'Ufficio israeliano dell'informazione, per poi passare all'AZC (American Zionist Committee), diventandone il delegato a Washington: “Dovremmo ricordare che il nostro compito principale è conquistare l’opinione pubblica americana. Ciò significa conquistare sia gli ebrei che i cristiani. Non andremo molto lontano nella nostra campagna se cerchiamo di limitare le nostre forze ai sionisti iscritti”.
E le influenze di matrice ebraica e israeliana, prima e dopo la nascita della lobby, si fecero sempre più forti, tanto che nel maggio del 1953 il segretario di Stato John Dulles predispose col supporto del suo Dipartimento un memorandum, dove tra l’altro si leggeva dell’esistenza di queste pressioni, sia sul Congresso, che sull’Amministrazione federale.
In quell’occasione, lo stesso Dipartimento di Stato individuava tre questioni che dovevano essere risolte per mettere fine al conflitto arabo israeliano: la rettifica dei confini, la corretta gestione delle risorse idriche del fiume Giordano e il ritorno a casa dei profughi palestinesi, scacciati dai militari israeliani, ipotesi questa ultima avversata da Ben Gurion, che paventava il rischio di ritrovarsi invaso da terroristi, che avrebbero messo in pericolo la stessa sopravvivenza d’Israele (evidentemente senza fare alcuna distinzione tra comuni cittadini e potenziali attentatori)[10] .
Come abbiamo detto, i fatti di Qibya avevano scatenato una dura presa di posizione internazionale, tanto da indurre gli ebrei delle due sponde dell’oceano a mettere da parte ogni divisione per fare fronte comune.
Il momento era stato critico, pure nei rapporti con gli Stati Uniti, tanto che l’Amministrazione Eisenhower decise in un primo momento di sospendere gli aiuti economici a Israele.
L’unica strategia efficace individuata dai gruppi ebraici fu quella di scaricare tutta la responsabilità sui paesi arabi, facendo dello stato ebraico il paese aggredito e sotto assedio. Nacque così il Comitato per gli Affari Pubblici, guidato da Lipsky, con Kenen chiamato a curarne la comunicazione istituzionale: il suo impegno andò subito nella direzione di rinverdire l’immagine dello stato ebraico, duramente colpita dalla strage di Qibya. Allo stesso tempo si diede da fare la conferenza dei presidenti, che riuniva i leader delle principali organizzazioni ebraiche americane, la quale avrebbe sostenuto lo stato ebraico nella fallimentare azione bellica condotta contro l’Egitto nel 1956, assieme a francesi e britannici.
Nonostante l’impegno profuso, però, era ostico negare che a fronte di alcune centinaia di vittime tra le fila israeliane, i morti tra i palestinesi nei primi anni Cinquanta erano stati dieci volte di più, molti dei quali civili inermi.
Ad ogni modo la nuova linea politica, ispirata a un sostegno incondizionato a Israele, spiegata efficacemente in un passaggio del citato articolo della Cambridge University Press: “… difendere Israele con nuovo vigore proprio quando le azioni israeliane hanno turbato più profondamente gli osservatori, sia negli Stati Uniti che altrove” alla lunga si sarebbe rivelata vincente.
In un’intervista del 2022[11], lo storico statunitense (non ebreo) Walter Russell Mead, alla domanda circa le ragioni alla base del sostegno degli USA a Israele, pure con riferimento all’esistenza dei famosi gruppi di pressione, così rispondeva: “Ciò che cerco di fare […] è approfondire il motivo per cui gli americani pensano in quel modo riguardo a Israele. La politica americana nei confronti di Israele è stata influenzata da qualche mano nascosta, da qualche lobby sinistra, o, in realtà, la politica israeliana funziona più o meno come funzionano molte delle nostre altre politiche? Ora, la mia conclusione […] è che non esiste il pianeta Vulcano. In America esiste una lobby filoisraeliana; ce ne sono diversi e funzionano come fanno le lobby. Ma non c'è niente di unico o speciale nel modo in cui funzionano o nella loro potenza. La politica israeliana funziona in America come il resto della nostra politica estera.”
Alla domanda circa l’esistenza di un interesse ebraico radicato in America, Mead non sembra convinto, aggiungendo che “…sulla priorità di Israele nella vita ebraica non c’è né ora né mai c’è stata unanimità tra gli ebrei americani, o del resto nemmeno tra gli israeliani. “, ribadendo anche il carattere minoritario della componente sionista, pur riconoscendo che il suo “segreto” risieda nel fatto che “…trattava dell’unica idea per la sopravvivenza ebraica nelle condizioni del XX secolo su cui un numero significativo di non ebrei – filosemiti e antisemiti – poteva concordare e sostenere nei momenti critici.”
In pratica, fallito l’originario piano A (vivere in pace in Europa e dove si trovavano) e quello B (migrare altrove), restava solo il C: avere un proprio stato dove andare a vivere. Ecco perché secondo Mead il sionismo si è trasformato nel solo e “…unico progetto per la sopravvivenza ebraica che un numero sufficiente di non ebrei potesse essere indotto a sostenere per renderlo realizzabile.”
Una lettura interessante viene proposta sempre da Mead per il periodo riferito alla presidenza Harry Truman, succeduto a F.D. Roosevelt, morto pochi mesi prima della conclusione della guerra. Quando egli si presentò alle elezioni del 1948, tra le questioni sul tappeto figurava la Palestina, che però era tutt’altro che una priorità. Secondo Mead, per tenere insieme il suo partito (democratico) di fronte alle sfide più importanti che si profilavano all’orizzonte (la crescita del comunismo, il piano Marshall, e così via) Truman pensò bene di demandare la (per lui secondaria) questione mediorientale alla neonata ONU, che elaborò il famoso piano di spartizione della Palestina.
Ora che Truman confidasse troppo nelle Nazioni Unite ci può stare, ma che molte delle responsabilità sui fatti che precedettero e seguirono il piano del 1948 siano da addebitare ai britannici c’è poco da obiettare. In quel momento Israele non aveva ancora grande importanza per gli americani, ma come ricorda Mead: “Israele non è diventato forte perché aveva un’alleanza americana. Ha acquisito un’alleanza americana perché era diventata forte”. E in questo processo di rafforzamento dello stato ebraico, anche riguardo i suoi legami con gli Stati Uniti, il ruolo della lobby è stato determinante.
Sempre Mead ricorda come: "La cosa più importante su Israele che la maggior parte degli americani non capisce è che lo stato ebraico è stato fondato su uno scetticismo ragionevole e storicamente giustificato riguardo alla capacità dell'ordine liberale di proteggere gli ebrei".
Abbiamo già citato il libro di Mearsheimer e Walt, ora ricorreremo a una serie di passaggi – rinviando per il resto alla lettura di questo fondamentale studio – per dimostrare come in alcuni momenti storici ruolo e influenza della lobby possano essere stati decisivi.
Siamo nei primi anni duemila, all’indomani di quella data spartiacque che fu l’11 settembre 2001. L’Amministrazione in carica, guidata dal repubblicano George W. Bush, sembrò in un primo momento voler contenere i sentimenti anti americani presenti nel mondo arabo, facendo pressioni su Israele (in particolare sul premier Ariel Sharon) per contenere nuovi insediamenti nei territori occupati e per favorire una pace coi palestinesi, che potesse condurre alla nascita di uno stato indipendente; una soluzione che, stando ai sondaggi, sarebbe stata accolta con favore dalla maggioranza degli americani[12]. L’idea alla base era che andare incontro alle istanze dei palestinesi avrebbe guadagnato a Washington il sostegno del mondo arabo nella crociata contro il terrorismo.
Eppure, circa due anni più tardi – siamo nel 2003 – si registrò un cambio di passo, con gli USA nuovamente schierati incondizionatamente con lo stato ebraico, come ai tempi della guerra fredda. Sulla decisione, secondo i due autori, avrebbe influito la famosa lobby che, in accordo con Tel Aviv, avrebbe esercitato forti pressioni su Congresso e Presidenza per abbandonare la linea del colloquio con Arafat, presentato come un secondo Osama Bin Laden. Tra i personaggi più attivi in tal senso De Lay e Trent Lott, leader di minoranza al Senato, che andarono di persona alla Casa Bianca per incontrare Bush e spingerlo a un cambio di rotta. Morto Arafat (2004) e succedutogli Abu Mazen, pur salvaguardando i rapporti già instaurati coi palestinesi, gli americani sarebbero rimasti ligi al sostegno pieno a Tel Aviv, tanto che nel 2006 alle elezioni a Gaza prevalse la componente Hamas, probabilmente per via della sfiducia maturata nei riguardi dell’ANP e della politica moderata portata avanti da Fatah.
Lo stesso attacco e invasione dell’Iraq nel 2003, maturato fuori da qualunque risoluzione delle Nazioni Unite, potrebbe essere ricondotto alle pressioni israeliane, rovesciando così la tesi finora prevalente di una guerra condotta per il petrolio, il tutto tralasciando la pantomima della fialetta agitata da Colin Powell all’ONU. Sia ben chiaro che i due autori non hanno nessuna intenzione di scaricare sulla lobby le colpe della guerra all’Iraq – che vedeva contrari la maggior parte degli americani, compresi quelli di fede ebraica – ma affermare come la loro influenza (e quella dei neocon) abbia avuto il suo peso.
Pure nel contesto della conflittualità con Siria e Iran (teniamo sempre a mente che parliamo di un libro pubblicato nel 2007) l’influenza della lobby viene ritenuta decisiva. Per gli autori: “Il potere della Lobby crea problemi su più fronti. Incrementa il rischio di attacchi terroristici in tutto il mondo, soprattutto nei paesi europei alleati degli Stati Uniti. Ha reso impossibile arrivare alla conclusione del conflitto Israelo-Palestinese, una situazione che fornisce agli estremisti uno straordinario mezzo persuasivo nel reclutamento dei volontari, incrementando le file di terroristi e simpatizzanti, e contribuisce all’espansione del fondamentalismo islamico in Europa e Asia. Fatto non meno preoccupante, le pressioni della Lobby potrebbero portare gli Stati Uniti ad un attacco contro Iran e Siria, con conseguenze potenzialmente devastanti.”
Per restare in Iran, citeremo anche questo ulteriore passaggio: “Qualcuno potrebbe obiettare che Israele e la lobby non hanno avuto molta influenza sulla politica USA nei confronti dell’Iran, dal momento che gli Stati Uniti hanno le loro ragioni per impedire all’Iran di dotarsi di armi nucleari. Questo è parzialmente vero, ma le ambizioni nucleari dell’Iran non sono una minaccia mortale contro gli Stati Uniti. Se Washington ha potuto vivere con potenze nucleari come la Russia, la Cina e persino la Corea del Nord, allora può vivere anche con un Iran dotato dell’atomica. E questo è il motivo per cui la lobby deve mantenere una pressione costante sui politici USA contro Teheran. Se non esistesse la lobby, gli Stati Uniti e l’Iran sarebbero difficilmente alleati, ma le politiche USA sarebbero più moderate e la guerra non sarebbe un’opzione reale.”
Venendo a fatti a noi più vicini, traiamo dallo stesso libro questa ulteriore considerazione: “Tirando le somme, l’influenza della Lobby è stata controproducente anche per Israele. La sua abilità di convincere Washington a sostenere politiche espansionistiche, ha dissuaso Israele dal cogliere opportunità – quali un trattato di pace con la Siria o una pronta e piena applicazione degli Accordi di Oslo – che avrebbero salvato molte vite israeliane e ridotto il numero di estremisti palestinesi. Negare ai palestinesi i loro legittimi diritti politici, non ha certamente reso Israele un paese più sicuro, e la tattica di uccidere o emarginare una generazione di leader ha conferito sempre più potere a gruppi estremisti come Hamas, e reso difficile per un capo palestinese avere la volontà di accettare un accordo onesto, e la possibilità di metterlo in pratica. Sarebbe stato molto meglio anche per Israele se la Lobby avesse avuto meno potere, e se la politica degli Stati Uniti fosse stata più equidistante.”
Non aggiungeremo nessun commento, riteniamo che questi passaggi parlino da soli.
La lobby ha fatto ricorso a fondazioni, giornali, contatti politici, think tank per accrescere la sua influenza, ma sarebbe impossibile non citare quella che per Walt e Mearsheimer è la questione delle questioni: “Nessuna discussione sulle modalità di intervento della lobby sarebbe completa senza esaminare una delle sua armi più potenti: l’accusa di anti-semitismo, «il grande silenziatore». Chiunque critichi le azioni di Israele o dica che gruppi israeliani influenzino significativamente la politica USA in Medio Oriente - influenza decantata dall’AIPAC stessa - ha buone possibilità di essere definito un antisemita. Per la verità chiunque sostenga che esiste una lobby di Israele corre questo rischio, anche se i media israeliani stessi parlano della «lobby ebraica» americana. In effetti la lobby si vanta della sua potenza ma attacca chiunque cerchi di evidenziarla. Questa tattica è molto efficace, in quanto l’antisemitismo è detestabile e nessuna persona responsabile vorrebbe esserne accusata.”
Non avremmo saputo dirlo meglio: una cosa è rigettare ogni forma di antisemitismo, intollerabile e destituita di ogni fondamento, altra è operarne delle indebite strumentalizzazioni, in grado forse di produrre danni ancora maggiori.
In conclusione, alla domanda circa l’esistenza di una lobby ebraica, la risposta è affermativa nel senso che abbiamo precisato, il che – giova ribadirlo – non deve creare nessuno scandalo. Abbiamo visto che i gruppi di pressione in America sono regolati per legge e agiscono alla luce del sole, con la precisazione che Walt ha voluto fare in occasione di un’intervista[13], nella quale parlava della Israel lobby come di: “una coalizione definita non dall'etnia o dalla religione, ma da un programma politico”.
Gli interessi alla base, naturalmente, sono anche di tipo economico, perché la plutocrazia americana (parole tratte da un vecchio articolo di Limes[14]) funziona coi soldi e per arrivare a certe posizioni ne servono tanti, ragion per cui le lobby (tutte quante) hanno un peso molto superiore al loro ipotetico bacino di riferimento: per la cronaca parliamo di un contributo firmato da Maxim Ghilan, autore israeliano scomparso quasi venti anni fa, che in quell’occasione smentiva seccamente una delle tante leggende metropolitane: quella dei grandi banchieri ebrei che controllerebbero la finanza mondiale.
Ad ogni modo la famosa (e non certo segreta) lobby ebraica d’America conserva alcuni tratti peculiari, come il fatto di essere riuscita a dirottare la politica estera di Washington così lontano dagli interessi nazionali, oltretutto convincendo una fetta dell’opinione pubblica che gli interessi delle due parti coincidessero. E senza questo sostegno sarebbero stati impensabili una serie di aiuti di grande portata, sia dal punto di vista militare, che economico, praticamente ininterrotti nel secondo dopoguerra: si parla di tre miliardi all’anno dalla fine della Seconda guerra mondiale, circa 140 negli ultimi settant’anni, il tutto senza vincoli e/o senza obblighi di render conto del loro utilizzo. Il tutto senza considerare che in diverse occasioni gli israeliani si sono mossi al di fuori delle direttive di Washington, palesando una sorta di insubordinazione verso il loro grande protettore.
Il sostegno incrollabile a Israele è costato parecchio nel tempo: pensiamo solo alla crisi petrolifera dei primi anni Settanta o al terrorismo, che per molti andrebbe ricondotto proprio a questa alleanza di ferro, tenuto conto i gruppi terroristi che avversano gli americani non coincidono quasi mai con quelli in lotta contro lo stato ebraico.
E’ evidente che la semplice valutazione della posizione strategica, per non parlare della favoletta della difesa della democrazia, non reggono come giustificazione di un sostegno così radicato.
Una spiegazione potrebbe derivare dal fatto che la famosa AIPAC conti parecchio a Washington: nel 1997 la rivista Fortune la classificava come seconda per importanza e peso solo all’AARP (l’associazione americana dei pensionati), il che contribuirebbe a spiegare perché nessun presidente (o candidato alla carica), a prescindere dal colore politico, si sia mai sognato di mettere in discussione l’appoggio incondizionato allo stato ebraico. E chi ci ha provato – come il senatore dell’Illinois Charles Percy, ritenuto troppo insensibile alla causa israeliana – ha finito per pagare con la sconfitta politica e/o con la bocciatura per importanti ruoli: tale fu il caso di George Ball, che non ottenne la carica di Segretario di Stato con Jimmy Carter.
Ci sarebbe da citare anche l’influenza dei (e sui) media: una dirigente della potente CNN raccontò una volta di aver ricevuto migliaia di mail di protesta contro un servizio non giudicato adeguato sullo stato ebraico. O la campagna di stampa contro il presidente Bush, che fu indotto a retrocedere dal suo ammorbidimento verso i palestinesi quando la sua figura venne paragonata a quella di Neville Chamberlain, premier britannico ai tempi della conferenza di Monaco del 1938, aspramente criticato (a posteriori) per la politica di appeasement verso Hitler, che non avrebbe, come sappiamo, evitato la guerra.
Gli autori ricordano ancora il ruolo della lobby nel contrasto al nucleare iraniano, considerata una minaccia forse più per lo stato ebraico, che per gli americani.
In un convegno per il decennale del volume[15], lo stesso Mearsheimer ne ha ribadito l’estrema attualità, anche se nel frattempo – pure grazie allo sviluppo del web e dei social (tra gli altri, citiamo il sito www.israellobby.org/) – attorno alla questione dell’influenza della lobby, tuttora molto forte, si è sviluppato un dibattito critico, che ha destato molto interesse pure all’interno della comunità ebraica americana, non necessariamente schierata sulle posizioni del gruppo di pressione.
Nonostante tutto quel che abbiamo visto, a nostro parere imputare solo ed esclusivamente alla lobby la responsabilità di ogni processo politico in corso nel Medio Oriente sarebbe forse eccessivo o semplicistico: la questione è fin troppo complessa e vede coinvolti numerosi attori, molteplici interessi e fatti storici. Solo mettendo insieme tutti i pezzi di questo complicatissimo puzzle forse un giorno si troverà il bandolo della proverbiale matassa.
E’ pur vero che come ricordano Walt e Mearsheimer che “Un dibattito serio porterebbe alla luce i limiti strategici e morali di questo sostegno univoco e incondizionato, e potrebbe portare gli Stati Uniti su posizioni maggiormente coerenti con i loro interessi, con gli interessi degli altri paesi della ragione, e perfino con gli interessi a lungo termine di Israele.” Lo stesso Walt, nell’intervista già menzionata, diceva che “gli Stati Uniti dovrebbero trattare Israele come qualsiasi altra democrazia: appoggiarlo quando fa qualcosa con cui siamo d'accordo, opporsi alle sue politiche quando opera contro i nostri interessi.”
A questo punto sarebbe lecito interrogarsi circa le vere ragioni per le quali Israele conti così tanto per gli Stati Uniti: oggi però ci siamo già dilungati fin troppo, ne parleremo in un’altra occasione.
FONTI
www.agi.it/estero/news/2022-12-17/qatargate-lobby-stati-uniti-come-funziona-19247124/
www.limesonline.com/cartaceo/come-funziona-la-lobby-sionista-negli-stati-uniti
formiche.net/2014/08/perche-gli-stati-uniti-amici-israele/
www.forumcostituzionale.it/wordpress/images/stories/pdf/documenti_forum/paper/0445_dimaria_doria.pdf
La Israel lobby e la politica estera americana, di John J. Mearsheimer - Stephen M. Walt, 2007
newsletters.theatlantic.com/deep-shtetl/62cf09b668f61f0021d786ca/biden-israel-lobby-america-walter-mead/
www.israellobby.org/
Kolsky , Thomas A. , Ebrei contro il sionismo: The American Council for Judaism, 1942–1948 ( Philadelphia , 1990 ) Google Scholar ; e Ross , Jack , Rabbi Outcast: Elmer Berger e l'antisionismo ebraico americano ( Washington, DC , 2011 ) Google Scholar
storiaefuturo.eu/noam-chomsky-ilan-pappe-ultima-fermata-a-gaza-dove-ci-porta-la-guerra-di-israele-con-i-palestinesi-a-cura-di-frank-barat-milano-ponte-alle-grazie-2010-pp-268/
www.infopal.it/la-israel-lobby-di-stephen-walt-e-john-j-mearsheimer/
[1] www.altalex.com/documents/news/2022/01/13/legge-sulle-lobby
[2] www.agi.it/estero/news/2022-12-17/qatargate-lobby-stati-uniti-come-funziona-19247124/;
www.forumcostituzionale.it/wordpress/images/stories/pdf/documenti_forum/paper/0445_dimaria_doria.pdf
[3] La Israel lobby e la politica estera americana, di John J. Mearsheimer - Stephen M. Walt, 2007;
www.cambridge.org/core/journals/modern-american-history/article/edge-of-the-abyss-the-origins-of-the-israel-lobby-19491954/E1690BDB5CA87C66B2B65D12CA1D716A;
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[4] it.wikipedia.org/wiki/Strage_di_Qibya#:~:text=La%20strage%20di%20Qibya%20avvenne,villaggio%20di%20Qibya%20in%20Cisgiordania.
[5] www.youtube.com/watch?v=RTksWA1I2UI
[6] www.youtube.com/watch?v=U2H-F0HVKDY
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[12] storiaefuturo.eu/noam-chomsky-ilan-pappe-ultima-fermata-a-gaza-dove-ci-porta-la-guerra-di-israele-con-i-palestinesi-a-cura-di-frank-barat-milano-ponte-alle-grazie-2010-pp-268/
[13] www.infopal.it/la-israel-lobby-di-stephen-walt-e-john-j-mearsheimer/
[14] www.limesonline.com/cartaceo/come-funziona-la-lobby-sionista-negli-stati-uniti
[15] www.youtube.com/watch?v=k8Mgdm_6-e0&t=2105s
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