di Paolo Arigotti
L’ennesimo e sanguinoso capitolo di una conflittualità che si trascina, tra alterne vicende e periodi di stasi, da oltre settant’anni in Medio Oriente coinvolge direttamente l’Egitto, forse una delle poche nazioni dell’area che potrebbe svolgere un’efficace azione di mediazione, in virtù dei buoni rapporti che intrattiene con entrambe le parti.
Il Cairo, sottoscrivendo nel lontano 1978 gli accordi di Camp David, fu il primo stato arabo a siglare la pace e instaurare relazioni diplomatiche con Israele, mai più interrotte da allora. Allo stesso tempo, l’Egitto intrattiene regolari relazioni con le autorità di Gaza, pur non avendo avuto successo i precedenti tentativi di ricompattare il fronte palestinese, per dare un interlocutore unico al suo popolo.
Una dimostrazione del ruolo che l’Egitto può giocare è arrivata negli ultimi giorni: il paese, assieme al Qatar, è stato tra gli artefici della tregua, in vigore dalle ore 7 del 24 novembre, e per la durata di quattro giorni (ora prorogata per altri due), che ha consentito l’afflusso di aiuti umanitari e la liberazione di ostaggi israeliani e detenuti palestinesi (tra i quali figuravano donne e bambini).
Un riconoscimento dell’importanza dell’Egitto nello scacchiere mediorientale è arrivata anche dagli Stati Uniti, i quali se da un lato hanno più volte denunziato le violazioni dei diritti umani perpetrate dal regime di al-Sisi, dall’altro continuano a dispensare generosi aiuti militari; Il Cairo è stata l’ultima tappa del recente tour mediorientale del segretario di Stato Antony Blinken, in occasione del quale è stato chiesto l’appoggio dell’Egitto per scongiurare la prospettiva di un allargamento del conflitto.
I rapporti con Hamas, per dirla tutta, non sono sempre stati idilliaci. Quando al-Sisi prese il potere, dopo la defenestrazione del presidente Mohamed Morsi, eletto nel 2012 coi Fratelli Musulmani, la direzione politica del Cairo mutò radicalmente. Se durante il breve mandato di Morsi si era registrato un riavvicinamento con Hamas, Al-Sisi dimostrò fin da subito un orientamento molto diverso, se non opposto: non solo attuò una vera e propria persecuzione contro i Fratelli musulmani – cui era affiliata la stessa Hamas – ma diede vita a una campagna denigratoria contro il movimento, incolpandolo del picco terroristico nella penisola del Sinai. Un tribunale civile egiziano, in una pronuncia nel 2015, designò la stessa Hamas come organizzazione terroristica, ma la decisione venne successivamente annullata dalla corte d’appello del Cairo. Allo stesso tempo l’Egitto, assieme ad altri stati arabi, promosse un vero e proprio embargo politico e diplomatico nei confronti del Qatar, sostenitore della Fratellanza, che ebbe come risultato di isolare ulteriormente Hamas, molti dei cui leader avrebbero cercato rifugio e finanziamenti nel piccolo emirato.
Tuttavia, a partire dal 2016 è maturato un lento mutamento di rotta e un riavvicinamento tra le due parti, tanto che Hamas decise di lanciare un segnale di apertura verso il potente vicino egiziano, trasferendo temporaneamente il controllo del valico di Rafah all’Autorità nazionale palestinese (controllata da Fatah), distruggendo alcuni tunnel e creando una zona cuscinetto di alcuni chilometri; al contempo, l’Egitto avviava una dura campagna antiterrorismo nel Sinai, nel quadro di una lotta più complessiva contro lo stato islamico.
L’Egitto, ricordiamolo, è il solo stato del mondo arabo a confinare direttamente con la striscia di Gaza: il valico di Rafah rappresenta l’unico collegamento con questa lingua di terra e costituisce un importantissimo snodo per la regolazione e il transito del flusso di profughi e degli aiuti umanitari, rispettivamente in uscita ed entrata da Gaza.
Il governo egiziano, guidato con pugno di ferro dal presidente generale Abdel Fattah al-Sisi, non ha mostrato in un primo momento grande disponibilità all’apertura di quest’unico canale di accesso, per una serie di ragioni di ordine storico, politico ed economico. L’esperienza della guerra dei sei giorni (1967), che vide la sconfitta araba da parte dello stato ebraico provocò, tra le altre conseguenze, un massiccio esodo di profughi proveniente dai territori conquistati da Israele, compresa la penisola del Sinai, poi restituita al Cairo per effetto degli accordi del ’78; inutile aggiungere che un simile afflusso causò una forte instabilità interna e che il regime egiziano teme fortemente il ripetersi di un simile scenario.
Ma non finisce qui. Il timore è che in mezzo a tanti disperati possano entrare in Egitto potenziali terroristi, magari affiliati a quei fratelli musulmani contro i quali al-Sisi si scagliò dopo la presa del potere.
E non può essere sottovalutato l’aspetto economico. L’Egitto è un paese afflitto da una gravissima crisi, dove circa un terzo dei residenti vive in condizioni di povertà assoluta, ed è evidente che l’afflusso di centinaia di migliaia di profughi – col precedente del 2008, quando scoppiò la prima “guerra” Hamas-Israele - non farebbe che aggravare ulteriormente una situazione già molto critica. Il tutto senza considerare la perdita del turismo e l'aumento dei costi energetici (frutto anche del conflitto ucraino), che hanno già provocato un’ulteriore spirale inflazionistica e una forte svalutazione della sterlina.
Il regime deve anche tener conto dell’opinione pubblica interna. Per quanto autoritario, come ogni altro sistema di potere non può trascurare i sentimenti diffusi nella società pubblica e non dimentichiamo che il prossimo 10 dicembre in Egitto si voterà per le presidenziali: ovviamente al-Sisi è il candidato “favorito”, e ci tiene all’opinione dei tanti partecipanti alle imponenti manifestazioni di piazza a favore della Palestina (oramai diffuse a livello planetario).
Consapevole di tutto ciò, lo scorso il 21 ottobre, in occasione del vertice per la pace tenutosi nella capitale egiziana, al-Sisi rilasciò una dichiarazione ufficiale: “Rifiutiamo nuovamente l’emigrazione forzata e lo sfollamento dei palestinesi nel Sinai. Si sbaglia chi ritiene che il tenace popolo palestinese desideri lasciare le sue terre, anche sotto occupazione o bombardamenti”[1]. Un vero e proprio out-out a qualunque prospettiva di accoglienza di massa, che il paese non potrebbe assolutamente permettersi. Il che non significa che siano mancati generosi aiuti umanitari ai palestinesi della striscia, vittime di pesanti bombardamenti e delle azioni di forza condotte dalle forze armate israeliane (IDF).
Una conferma di un simile disegno, come più in generale dell’intento israeliano di liquidare la questione palestinese, la si potrebbe intravvedere in un episodio, risalente allo scorso mese di settembre, quando in sede ONU il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu mostrò una mappa del “Nuovo Medio Oriente”, nel quale la Palestina non era presente; e sarebbe difficile pensare a una semplice dimenticanza.
Il valico di Rafah è stato protagonista negli ultimi anni di un importante commercio clandestino di merci e di armi, a beneficio sia dei palestinesi, che dei beduini egiziani emarginati dal Cairo. E al proposito di beduini, se c’è un punto sul quale le tribù del Sinai egiziano e quelle che vivono nel deserto israeliano del Negev concordano è che non ne vogliono sapere di ritrovarsi palestinesi tra i piedi[2]: come dire la solidarietà va benissimo, ma ognuno a casa propria! Qui le ragioni sono diverse: da quelle di carattere etnico e di difesa del proprio territorio, a fattori di ordine economico, pur non disdegnando, come dicevamo, una serie di fiorenti traffici illeciti, allacciati per l’appunto coi palestinesi.
A questo punto si possono comprendere meglio le notizie circolate nelle settimane scorse circa presunte pressioni di Tel Aviv[3], esercitate sia direttamente sull’Egitto, che per il tramite del FMI[4], per ottenere un ammorbidimento del Cairo sull’accoglienza dei profughi, in cambio di aiuti finanziari e della cancellazione di una consistente parte del debito pubblico del paese. Tuttavia, tali pressioni, parlando per il momento, non sembrano aver indotto al-Sisi a un cambio di rotta, e questo nonostante l’ultimatum lanciato dall’IDF agli abitanti di Gaza, intimando loro di abbandonare case e terre, per dirigersi verso sud (vale a dire verso il Sinai), pena la morte sotto i bombardamenti.
Parliamo di uno spostamento di popolazione di proporzioni bibliche, che potrebbe coinvolgere circa un milione di esseri umani. Nel frattempo, questa massa di disperati bisognosi di tutto – cibo, acqua e medicinali – conta più di diecimila vittime, specie tra i civili[5], molti dei quali bambini, visto e considerato che l’età media degli abitanti della striscia è di diciotto anni e che più del 40 per cento di loro ha meno di 14 anni[6]. In attesa degli eventi, il valico di Rafah resta chiuso al transito dei civili e consente solo il transito di aiuti umanitari, ora rafforzati grazie alla tregua.
Parliamo di un contesto che, specie dopo la vittoria elettorale di Hamas del 2006 e il pieno controllo assunto sulla striscia di Gaza, è stato quasi ininterrottamente sotto assedio israelo-egiziano a partire dal 2007, per quanto l’isolamento sarebbe stato aggirato grazie all’apertura irregolare di alcuni passaggi di frontiera e tunnel sotterranei scavati illegalmente. Subito dopo la “primavera” egiziana del 2011 e la crisi politica ed economica che ne scaturì, molti di quei tunnel erano stati demoliti e lo stesso sito originario di Rafah venne in parte distrutto e poi ricostruito a breve distanza. Ricordiamo che, a parte Rafah, esistono solo due porte di accesso ufficiali alla striscia (sul versante israeliano): Eretz al nord e Kerem Shalom al sud, il primo dedicato ai palestinesi che lavorano nello stato ebraico e il secondo appannaggio dei traffici commerciali, ma al momento entrambi risultano chiusi a tempo indeterminato.
Il presunto piano israeliano per un trasferimento in massa in territorio egiziano degli abitanti di Gaza, in spregio e violazione delle risoluzioni ONU che sanciscono il diritto dei palestinesi a far ritorno alle proprie case, non è stato rigettato solo dall’Egitto: giordani e il leader (sempre più screditato) dell’ANP Abu Mazen hanno a loro volta denunciato il disegno israeliano di espellere definitivamente i palestinesi dalla striscia, sulla falsa riga di un progetto chiamato della “Grande Gaza”, elaborato a suo tempo da Giora Eiland, consigliere per la Sicurezza nazionale tra il 2004 e il 2006 dell’allora primo ministro Ariel Sharon. In estrema sintesi, si prevedeva di “scaricare” la responsabilità della questione palestinese su Giordania ed Egitto, dando vita a una Federazione giordano-palestinese, e trasferendo 720 chilometri quadrati dal Sinai a Gaza, in cambio della cessione di un territorio di estensione analoga agli egiziani. Per effetto di quanto sopra, Gaza sarebbe divenuta una sorta di protettorato egiziano, collegato alla Giordania tramite un tunnel lungo dieci chilometri; sempre stando al disegno, la Cisgiordania sarebbe stata affidata a un’autorità palestinese, con una limitata autonomia di tipo amministrativo. Il piano non ebbe alcun seguito e venne rigettato in primis da Abu Mazen, che accusava Israele di voler semplicemente liquidare la questione palestinese; sarebbe stato ripreso, anche lì senza alcun seguito e con una diversa denominazione, durante l’Amministrazione Trump.
Il ginepraio mediorientale non si limita a questioni etnico religiose o territoriali, ma investe anche colossali interessi economici, a cominciare dalla delimitazione delle zone economiche esclusive, il tratto di mare compreso tra il limite delle acque territoriali dello stato rivierasco (12 miglia dalla costa) e le ulteriori 188 miglia nautiche misurate in linea retta. Gli interessi in questione vedono coinvolti vari stati – Grecia, Cipro, Turchia, Siria, Libano, Israele, Striscia di Gaza, Egitto e Libia – e riguardano gli importanti diritti di esplorazione e sfruttamento delle risorse naturali presenti nell’area, a cominciare dal gas. Per restare nell’ambito del nostro discorso, ricorderemo il giacimento egiziano di Zohr, il più grande mai rinvenuto nel Mediterraneo (pure grazie alla collaborazione con l’ENI), o quello israeliano di Leviathan, che non soltanto ha reso il paese ebraico autosufficiente sotto il versante energetico, ma lo ha trasformato in paese esportatore.
Tra i timori (e sospetti) che sono stati avanzati da parte occidentale figura quello che per effetto del conflitto israelo-palestinese possa crearsi un nuovo e strategico asse tra Russia e Iran, per far transitare dalla Siria (alleato di entrambi) un gasdotto, destinato a sboccare nel Mediterraneo, per l’oro blu estratto nel giacimento di South Pars, situato nel Golfo Persico. Non a caso, tra le ipotesi avanzate per spiegare l’insorgenza del nuovo conflitto vi sarebbe quella di una regia iraniana, per favorire tali progetti, oltre che la rottura di un eventuale accordo tra Israele e l’Arabia Saudita. E in questo scenario si innesta l’Egitto di al-Sisi, che avrebbe tutto l’interesse a fare del suo paese il nuovo hub mediterraneo del gas, mettendosi di traverso verso ogni progetto che andasse in altre direzioni, ivi compresi quelli della Turchia.
E per restare in tema di gas, non dimentichiamo un’altra ipotesi che è stata avanzata. Uno dei più importanti e ricchi giacimenti di gas, chiamato Gaza Marine, si collocherebbe a tutti gli effetti all’interno dell’area di sovranità dell’ipotetico stato palestinese, e precisamente nelle acque territoriali di questa inesistente entità, con riserve stimate in 30 miliardi di metri cubi, del valore di miliardi di dollari. E non vengono escluse, anzi secondo alcune fonti confermate, eventuali accordi sottobanco tra Egitto e Israele per lo sfruttamento di queste ingenti risorse, in un disegno che bypasserebbe completamente i diritti delle autorità palestinesi (di Gaza)[7].
E non finisce qui, perché in questi giorni si è tornati a parlare della costruzione del canale Ben Gurion, progetto risalente ai primi anni Sessanta del secolo scorso, che dovrebbe collegare il golfo di Aqaba al Mediterraneo orientale, arrivando – guarda un po’ il “caso” – molto vicino al nord di Gaza: se il progetto andasse in porto, Israele acquisirebbe un ruolo chiave quale nazione di passaggio per il transito energetico, riducendo moltissimo il ruolo del canale di Suez, controllato dall’Egitto, che naturalmente avrebbe un interesse contrario e speculare.
L’insieme di queste considerazioni potrebbe aver indotto al-Sisi a ribadire, in occasione di un recente incontro coi premier belga e spagnolo, che la migliore soluzione per il conflitto in corso, e più in generale per la situazione israelo-palestinese, dovrebbe essere individuata nella fondazione di uno stato di Palestina – entro i confini del ’67 e con Gerusalemme est capitale – creato come entità smilitarizzata, con la garanzia di una presenza temporanea di forze di sicurezza internazionali.
Sarebbe lecito porsi l’interrogativo se dopo l’escalation (e i massacri) di queste ultime settimane questa soluzione, almeno nel breve periodo, sarebbe seriamente proponibile, specie se fossero confermati i contenuti di un memorandum del ministero dell’Intelligence di Tel Aviv – datato 13 ottobre 2023 – nel quale si legge chiaramente dell’intenzione di realizzare un vero e proprio trasferimento forzato (e permanente) dei 2,2 milioni di palestinesi residenti nella Striscia di Gaza nella penisola egiziana del Sinai, dando vita a un campo profughi in territorio egiziano, previo accordo col Cairo, che però, come abbiamo visto, per ora non ne vuole sapere. Si potrebbe obiettare che non tutti i documenti o memorandum sono destinati a una pratica attuazione, ma la sua semplice esistenza solleva più di una perplessità, come le tante che circolano da un mese a questa parte, offrendo il fianco a una serie di dubbi legittimi su tutta la vicenda, a cominciare, per dirne una, da quell’avvertimento agli israeliani, proveniente proprio dai servizi segreti egiziani, circa l’imminenza dell’azione di forza di Hamas[8].
L’ultimo dubbio che vorremmo proporre, non certo per la prima volta, concerne la stessa valenza che la causa palestinese riveste agli occhi dei numerosi attori internazionali: in tutta onestà, più si va a fondo delle questioni sul tappeto, più si matura l’impressione che la drammatica vicenda di questo popolo si trasformi il più delle volte in un vessillo da agitare a proprio uso e consumo, salvo metterlo da parte quando non più funzionale a certi scopi.
E qui naturalmente il riferimento non va solo all’Egitto, ma al mondo intero, musulmano e non.
Per lanciare un ultimo sguardo alle relazioni tra Egitto e Israele, nulla le sintetizza più efficacemente, a nostro parere, di questo passaggio di un’analisi (di Fabrizio Maronta), pubblicata sull’ultimo numero di Limes[9]: “Se queste posizioni appaiono contraddittorie, oggi come ieri, è perché in parte lo sono. Nel valutarle, però, occorre tenere bene a mente il carattere transattivo della relazione egiziano-israeliana, ma anche di quella egiziano-palestinese. Dove a far premio per Il Cairo (e per lo Stato ebraico) è in primo luogo la sicurezza.”
Se veramente per l’Egitto la sicurezza del Sinai contasse più di tutto, e questa passasse per un accordo con Israele, ogni altro aspetto verrebbe messo da parte, compreso il destino di milioni di esseri umani.
FONTI
www.limesonline.com/cartaceo/grande-gaza-il-progetto-che-inquieta-legitto
www.limesonline.com/cartaceo/legitto-e-tra-due-sedie
www.lindipendente.online/2023/10/29/gaza-saccheggiati-magazzini-onu-nuovi-aiuti-dallegitto/
www.ilsole24ore.com/art/israele-riceve-lista-11-ostaggi-che-saranno-liberati-oggi-AFHRl2nB
www.limesonline.com/cartaceo/perche-i-beduini-del-sinai-non-vogliono-i-palestinesi
www.lindipendente.online/2023/10/20/egitto-decine-di-migliaia-in-piazza-in-sostegno-della-palestina/
it.insideover.com/guerra/cessate-il-fuoco-e-scambio-di-prigionieri-la-diplomazia-segreta-per-la-tregua-in-medio-oriente.html
new.thecradle.co/articles/hamas-israel-inch-toward-truce-deal
www.lantidiplomatico.it/dettnews-cosa_prevede_laccordo_sulla_tregua_umanitaria_a_gaza/8_51718/
www.byoblu.com/2023/11/21/fulvio-grimaldi-dal-valico-di-rafah-kilometri-di-camion-con-aiuti-umanitari-bloccati-da-israele/
legrandcontinent.eu/it/2023/11/02/evacuazione-di-civili-dal-valico-di-rafah-legitto-di-fronte-alla-guerra-del-sukkot/
www.wired.it/article/gaza-morti-numero-cifre-ministero-salute-hamas/
www.nature.com/articles/d43978-023-00171-z#:~:text=Alla%20data%20del%2015%20novembre,ONU%20per%20l'infanzia%20UNICEF.
www.newscientist.com/article/dn25993-the-reasons-why-gazas-population-is-so-young/#.U99Bjv6HaR9
www.globalresearch.ca/unspoken-objective-israel-wants-to-confiscate-gazas-offshore-gas-reserves-which-belong-to-palestine/5841045
www.limesonline.com/cartaceo/grande-gaza-il-progetto-che-inquieta-legitto
www.startmag.it/energia/la-guerra-in-palestina-e-il-gioco-del-gas-di-israele-egitto-e-non-solo/
ilmanifesto.it/gaza-il-gas-nel-mirino
new.thecradle.co/articles/imf-considering-altering-loan-to-crisis-hit-egypt
new.thecradle.co/articles-id/12629
www.globalresearch.ca/is-the-gaza-israel-fighting-a-false-flag-they-let-it-happen-their-objective-is-to-wipe-gaza-off-the-map/5835310
www.globalresearch.ca/israeli-ministry-intelligence-lets-deport-palestinians-sinai-desert/5841239
[1] www.limesonline.com/cartaceo/grande-gaza-il-progetto-che-inquieta-legitto
[2] www.limesonline.com/cartaceo/perche-i-beduini-del-sinai-non-vogliono-i-palestinesi
[3] www.rainews.it/articoli/2023/11/pressioni-sullegitto-perche-accolga-i-profughi-di-gaza-il-dilemma-di-al-sisi-3ba94b7c-f88b-4502-964e-6cc97469a8f9.html
[4] legrandcontinent.eu/it/2023/11/02/evacuazione-di-civili-dal-valico-di-rafah-legitto-di-fronte-alla-guerra-del-sukkot/
[5] www.wired.it/article/gaza-morti-numero-cifre-ministero-salute-hamas/; www.nature.com/articles/d43978-023-00171-z#:~:text=Alla%20data%20del%2015%20novembre,ONU%20per%20l'infanzia%20UNICEF.
[6] www.newscientist.com/article/dn25993-the-reasons-why-gazas-population-is-so-young/#.U99Bjv6HaR9
[7] www.globalresearch.ca/unspoken-objective-israel-wants-to-confiscate-gazas-offshore-gas-reserves-which-belong-to-palestine/5841045
[8] www.globalresearch.ca/is-the-gaza-israel-fighting-a-false-flag-they-let-it-happen-their-objective-is-to-wipe-gaza-off-the-map/5835310
[9] www.limesonline.com/cartaceo/legitto-e-tra-due-sedie
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