Perire con il "vecchio mondo"? L'Italia e la questione indipendenza

21 Febbraio 2024 17:00 Leonardo Sinigaglia



di Leonardo Sinigaglia

La Storia non l’eterna ripetizione del medesimo, ma processo dialettico di trasformazione, caratterizzato da uno “stato di cambiamento e movimento perpetui, di rinnovamento e di sviluppo incessanti, dove sempre qualche cosa nasce e si sviluppa, qualche cosa si disgrega e scompare[1]. Può accadere che qualcosa muti nel suo opposto e che, a seguito dell'accumularsi di cambiamenti quantitativi, un grande sconvolgimento qualitativo trasformi in maniera radicale un soggetto, e quindi la relazione tra questo e gli altri. Ciò non rappresenta un qualcosa di eccezionale, ma anzi un fenomeno caratterizzante del processo dialettico, in quanto ogni contraddizione necessariamente prevede anche l’identità tra i due termini che la compongono, per quanto relativa e transitoria: “L’identità degli opposti [...] è il riconoscimento (scoperta) delle tendenze contraddittorie, mutuamente esclusive, opposte in tutti i fenomeni e processi della natura (comprese la mente e la società). [...] L’unità (coincidenza, identità, equipollenza) degli opposti è condizionata, provvisoria, transitoria, relativa. La lotta degli opposti che si escludono reciprocamente è assoluta, come sono assoluti lo sviluppo, il movimento[2].

Ogni contraddizione a causa del rapporto particolare tra opposizione e identità dei due termini permette che questi, influenzandosi vicendevolmente e sviluppandosi, possano cambiare di posizione relativa e variare nella loro natura. Ogni processo vede variazioni quantitative portare, accumulandosi, a profondi salti qualitativi. Questi due stati del movimento si possono dire di riposo relativo e di cambiamento evidente: “Ambedue sono dovuti alla lotta reciproca dei due elementi contraddittori, contenuti nella cosa stessa. Quando una cosa nel suo movimento si trova nel primo stato, subisce soltanto modificazioni quantitative e non qualitative e perciò si manifesta in stato di riposo apparente. Quando invece una cosa nel suo movimento si trova nel secondo stato, poiché le modificazioni quantitative che essa ha subito nel primo hanno raggiunto un punto massimo, si verifica la dissoluzione della cosa come entità, avviene un cambiamento qualitativo e di conseguenza la cosa appare in stato di cambiamento evidente. L’unità, la coesione, l’unione, l’armonia, l’equipollenza, la stabilità, la stagnazione, il riposo, la continuità l’equilibrio, la condensazione, l’attrazione, ecc., che noi osserviamo nella vita quotidiana, sono manifestazioni delle cose che si trovano nello stato di modificazioni quantitative, mentre la dissoluzione dell’unità, la distruzione dello stato di coesione, unione, armonia, equipollenza, stabilità, stagnazione, riposo, continuità, equilibrio, condensazione, attrazione, ecc. e il loro passaggio allo stato opposto sono le manifestazioni di cose che si trovano nello stato delle modificazioni qualitative, delle modificazioni che avvengono con il passaggio da un processo all’altro. Le cose mutano continuamente passando dal primo al secondo stato e la lotta degli opposti esiste in entrambi gli stati, ma la soluzione della contraddizione si compie durante il secondo stato. Ecco perché l’unità degli opposti è condizionata, temporanea, relativa, mentre la lotta degli opposti che si escludono reciprocamente è assoluta[3].

Una classe subalterna può divenire classe dominante, un modo di produzione avanzato può trasformarsi in arretrato, un paese indipendente può trasformarsi in una colonia, in un protettorato, in una dipendenza straniera.

Questa dialettica storica sta alla base del divenire ed è ciò che concretamente caratterizza lo stesso scorrere del tempo, che è inevitabile e oggettivo processo di trasformazione.

Ciò ha profonde ricadute sul piano politico, poiché senza possibilità di trasformazione di qualcosa nel suo opposto sarebbe semplicemente impensabile qualsiasi forma di mutamento delle condizioni materiali, con il risultato di rendere vana qualsiasi speranza ed eterna qualsiasi gerarchia sociale, qualsiasi oppressione, con un'umanità ineluttabilmente inchiodata a un eterno presente in attesa, forse, dell'intervento salvifico di qualche ente esterno alla realtà materiale.

Riconoscere la capacità dell’Umanità di intervenire in senso positivo sulle proprie condizioni, di risolvere i problemi che si pone significa riconoscere la possibilità che qualcosa si trasformi nel suo opposto. Comprendere i meccanismi per i quali ciò avviene significa arrivare al materialismo dialettico, che mostra come “l'umanità non si propone se non quei problemi che può risolvere, perchè, a considerare le cose dappresso, si trova sempre che il problema sorge solo quando le condizioni materiali della sua soluzione esistono già o almeno sono in formazione[4].

La Storia è composta da infiniti esempi che si potrebbero citare: il sistema capitalista, un tempo fonte di progresso e sviluppo, si è trasformato in un ostacolo decadente e avvizzito a qualsiasi nuovo avanzamento produttivo, sociale, politico e culturale; la classe borghese, prima una classe dinamica e progressiva, si è trasformata in una classe parassitaria e reazionaria; la Cina, da paese povero e conteso tra vari gruppi imperialisti, si è trasformato grazie al Partito Comunista Cinese in un paese avanzato e moderatamente prospero, avviato alla piena realizzazione di un sistema socialista moderno; l’Unione Sovietica, a causa del nichilismo storico e dell’arretramento ideologico, è passata da essere un grande paese socialista al dissolvimento e alle privatizzazioni degli Anni ‘90; gli Stati Uniti si sono trasformati da una lontana colonia d'oltreoceano alla potenza imperialista egemonica, mentre ora è in corso un'inevitabile ulteriore processo che li porterà o a essere un paese "normale" tra tanti, o a scomparire come entità statale; i partiti politici della grande borghesia italiana, che a lungo si erano ammantati di parole d'ordine “patriottiche” e di una retorica imperialista aggressiva, si sono trasformati nei fedeli servitori di interessi stranieri, aprendo le porte al pieno controllo del nostro paese da parte degli Stati Uniti e dei vari attori minori ad essi collegati, dall'Inghilterra alla Germania, da Israele alla Francia.

Quello che è avvenuto è indubbio. Ciò su cui bisogna però interrogarsi è come quest'ultima trasformazione, per noi tra le più importanti da definire, sia stata possibile, e, soprattutto, quali siano i grandi cambiamenti qualitativi che ne ha portato la realizzazione. Fondamentale si può riassumere ciò nella trasformazione dell'Italia da paese imperialista in semi-colonia, un'evoluzione inedita, resa possibile solo dalla particolare configurazione dei rapporti di forza venutasi a creare dopo le due guerre mondiali e dalla debolezza relativa della borghesia italiana.

Già Lenin, descrivendo la fase dell’imperialismo a lui contemporanea, quella in cui questo particolare stadio del capitalismo si imponeva sulla Terra, notava come esistessero diverse “forme transitorie della dipendenza statale[5] risultato dello scontro tra le potenze imperialistiche che, nonostante una formale indipendenza, segnavano un diverso grado di dipendenza politica, diplomatica e finanziaria, magari non ancora giunto all’estremo della diretta dipendenza coloniale, ma comunque abbastanza acuto da qualificare il paese in questione come un protettorato di una potenza, o una semi-colonia.

Un paese indipendente, penetrato da una borghesia più potente della propria, asservito economicamente a uno Stato imperialista straniero, costretto a sottostare a logiche parassitarie e predatorie, a divenire il “cortile di casa” di altri, retto da una “borghesia compradora” del tutto connivente e subalterna a quella imperialista straniera, perde fattivamente la propria indipendenza, e si trasforma progressivamente in una colonia, passando attraverso le varie “forme transitorie” e trovando collocazione al livello permesso dalla forza relativa della borghesia compradora locale e dalle necessità della potenza imperialista. Ciò è successo numerose volte nel corso della Storia, prendendo in considerazione sia gli antichi Stati d’Asia e Africa, progressivamente sottomessi all’imperialismo europeo, sia quelli occidentali o “costruiti” dagli occidentali nel resto del mondo, come nel caso del Sud America, a lungo economicamente controllato dalla Gran Bretagna e poi reso a tutti gli effetti il cortile di casa di Washington, o nel caso degli Stati “minori” dell’Europa del primissimo novecento, dal Portogallo alla Romania, dalla Serbia alla Bulgaria, tutti estremamente limitati nelle proprie capacità d’azione autonoma e contesi dalle potenze imperialiste.

L’Italia, che a seguito dell’unificazione nazionale era riuscita a ritagliarsi uno spazio tra le potenze imperialiste, rappresenta un caso particolare, proprio in virtù del suo inedito cammino. Il passaggio da paese imperialista a paese semicoloniale rappresenta un unicum, ed è stato reso possibile dalla sovrapposizione di condizioni esterne ed interne. Da un lato la debolezza relativa della grande borghesia italiana, sviluppatasi unicamente per le devote cure statali,interessata più alla rendita che all’investimento produttivo e gravemente sprovvista di quell’audacia che sta alla base di qualsiasi grande impresa militare, politica o economica; dall’altro profondo mutamento portato dal passaggio dalla fase degli “imperialismi contrapposti” (1870-1914) a quella dell’egemonia statunitense, che, dopo la parentesi transitoria del periodo interbellico, ha visto la progressiva e totale subordinazione dell’Europa occidentale e del Giappone, una volta sede di imperialismi propri, al regime internazionale di Washington, portando alla nascita di un nuovo tipo di configurazione statale, con il mantenimento di tratti tipici di un paese imperialista (la predominanza della finanza parassitaria, il mantenimento di legami di predazione e controllo su altri paesi, il controllo economico da parte del capitale finanziario) unito a legami di subordinazione internazionale a un centro imperialista egemonico, capace di imporre la propria volontà in materia economica, militare, culturale e sulla postura internazionale di quel paese.

La Francia e il Giappone rappresentano oggi giorno perfettamente questo tipo di paese. L’Inghilterra si distingue per la sua autonomia relativa, più che altro dovuta a una forma particolare d’integrazione nel potere imperialista egemonico statunitense e per la forza finanziaria della City di Londra. Al contrario, l’Italia si distingue per la sua assenza di autonomia. Sprovvista di una rete di dipendenze coloniali come quelle della Francia nell’Africa occidentale e della capacità produttiva e finanziaria del Giappone, il nostro paese vive una condizione più assimilabile a quella semi-coloniale, con una totale subordinazione a Washington che priva la nostra attuale classe dirigente di qualsiasi margine d’azione autonomo, con la relativa condanna del paese a uno stato di minorità imposta. La Germania si trova ad oggi in una fase di transizione dalla condizione francese a quella italiana, come dimostrano le eclatanti vicende del Nord Stream e l’inscalfibile volontà di proseguire nella guerra alla Russia a priori dalle conseguenze socio-economiche di questa.

La “sinistra antagonista”, incapace di formulare un’analisi coerentemente marxista e fondata sulla concretezza dei tempi attuali, spesso si lancia all’attacco di un preteso “imperialismo italiano”, chiamando in causa magari qualche partecipazione dell’ENI alle attività estrattive nel continente africano. Ma si tratta veramente di imperialismo? Si tratta veramente dell’indizio di una natura “imperialista” del sistema italiano attuale, della sua capacità di creare palesi legami di subordinazione e predazione a livello internazionale? O, piuttosto, di qualche briciola che, cadendo dal tavolo, si presta anche ad essere rosicchiata dai topi, topi che potrebbero essere scacciati in qualsiasi momento con ben poca fatica e considerazione da parte dei commensali? La verità va ricercata nei fatti.

Le recenti vicende connesse al “Piano Mattei” varato dal Governo Meloni permettono, tra i numerosi casi, di smentire la retorica che dipinge l’Italia come “paese imperialista”. Se così fosse, davanti al progressivo ripiegamento francese, uno Stato italiano imperialista avrebbe subito colto l’occasione per gettarsi a capofitto nel teatro africano per tentare di saccheggiare quanto possibile e, soprattutto, di stabilirsi qui in pianta stabile. Ma non è andata proprio così. Una manciata appena di paesi africani si è dimostrata interessata alla cooperazione con l’Italia, che, al di là delle belle parole, ha visto la sua vocazione “imperialista” arrestarsi…alle coste del Mediterraneo. Ogni accordo con la Tunisia, partner potenzialmente strategico dopo la rottura delle relazioni energetiche con la Russia (avvenuta per ordine di Washington), è saltato per il netto rifiuto da parte della Casa Bianca. Questa infatti pretende che il presidente tunisino Saied approvi il pacchetto di riforme strutturali a base di privatizzazione e tagli allo stato sociale ordinato dal Fondo Monetario Internazionale come condizione per l’apertura di qualsiasi linea di credito[6], e rifiuta di consentire qualsiasi alternativo intervento europeo. Il presunto “imperialismo italiano”, visione appannata di chi riesce a malapena a balbettare qualche frase risalente ad altre epoche e scritta in altri contesti, si dimostra per quello che è: un meschino tentativo da parte della grande borghesia italiana di afferrare per sé qualche briciola, del tutto dipendente dalla volontà della Casa Bianca e dalla sua approvazione. Ben strano questo “imperialismo”!

La realtà semicoloniale del nostro paese emerge però in maniera altrettanto imponente se si tiene conto delle condizioni interne di questo. Secondo il Corriere della Sera, negli ultimi dieci anni 1,3 milioni di persone hanno lasciato l’Italia. Di queste, la stragrande maggioranza è composta da giovani, spesso laureati, in “fuga” verso i paesi dell’Europa settentrionale o gli Stati Uniti dove hanno migliori occasioni di ottenere un’occupazione in linea con la propria formazione, tendenzialmente d’ambito tecnico e scientifico[7]. Un vero e proprio salasso in cui sono attivamente impegnate università e multinazionali occidentali, che vedono l’Italia come una carcassa da spolpare, privandola di un capitale umano per cui il sistema è strutturalmente impossibilitato a creare sbocchi produttivi. Se questa cifra è quantificabile con una certa precisione, nonostante l’ambiguo stato di molti italiani espatriati ma non ancora registrati all’apposita anagrafe, è più difficile tenere conto dei pluri-miliardari investimenti predatori che negli ultimi decenni hanno permesso a fondi speculativi e squali vari dell’alta finanza di banchettare con i resti privatizzati del sistema pubblico italiano e con numerose eccellenze privati medio-grandi. Dalla TIM, la cui infrastruttura digitale è stata svenduta alla KKR, fondo speculativo statunitense in odor di CIA, alla Magneti Marelli, passata in proprietà a un gruppo giapponese (anch’esso controllato dalla KKR), passando per le numerose vicende simili a quelle della FIAT-Chrysler, con un’internazionalizzazione marcatamente sinonimo di divorzio da qualsiasi investimento produttivo nel paese d’origine, o anche degli interventi volti unicamente a ridimensionare, se non eliminare, concorrenti, dalla Perugina all’Ercole Marelli. Per tacere, ovviamente, delle infinite privatizzazioni intercorse dagli Anni ’90 ad oggi, azioni alle quali tutti i governi, a prescindere dal colore, hanno sempre dato il proprio assenso, e che anche l’attuale esecutivo guidato da Giorgia Meloni ritiene necessarie, come lasciano intendere le parole di Tajani, che, commentando la cessione del 4% dell’ENI e la possibile privatizzazione di Poste Italiane e Ferrovie dello Stato, ha parlato di una “grande stagione di privatizzazioni” per rimpinguare le casse dello Stato[8].

L’Italia, materialmente in un marcato declino economico sin dal biennio 2007-2008, ben lontana dall’esistenza di “paese imperialista” che prospera sulla subordinazione di altri paesi, è condannata ormai in virtù delle imposizioni di Bruxelles ad avere come unico orizzonte la “vocazione turistica”, il convertirsi integralmente ad attrazione per i ricchi borghesi dell’Occidente, che, dalla Germania agli Stati Uniti, non aspettano altro che la bella stagione per fotografare le nostre splendide rovine e gustare i prodotti tipici, accompagnati da qualche guida sottopagata e serviti da personale precario, alloggiando in quartieri ridotti a residence per gli ospiti economicamente incompatibili con le possibilità dell’italiano medio. Uno scenario che ricorda, al limite, quello della Cuba pre-rivoluzionaria o della Shanghai in cui sui i negozi erano esposti cartelli con scritto “vietato l’ingresso ai cani e ai cinesi”. Altro che “potenza imperialista”!

La totale subordinazione economica all’imperialismo statunitense non può che sposarsi a quella politica. E, dopo il Cermis, Ustica, Moro, l’Operazione Blue Moon, la pregiudiziale anticomunista imposta fin dal 1947, la Gladio, l’assassinio di Gheddafi, il ritiro dalla Via della Seta, le sanzioni alla Russia, l’invio di navi militari nel Mar Rosso e nel Mar Cinese Meridionale, le decine di bombe atomiche accatastate sotto i nostri piedi, le intercettazioni dell’NSA e l’aumento delle spese militari, prontamente sganciato dal calcolo del rapporto debito/PIL grazie alla “vittoria” del nuovo patto di stabilità e infiniti altri esempi, sarebbe insultante anche nei confronti del più imbecille degli italiani dover argomentare al fine di dimostrare ciò.

Dall’analisi della realtà materiale appare chiaro come l’Italia viva un rapporto semicoloniale con gli Stati Uniti d’America, un rapporto unico anche nell’ambito dello scenario europeo, che vede comunque la totale subordinazione dei paesi del continente a Washington. Questa situazione impone ai comunisti la comprensione della natura prioritaria della lotta per l’indipendenza nazionale e permette di vedere sotto la corretta angolazione le questioni della collaborazione sociale e politica con altre forze e classi. La contraddizione tra l’imperialismo egemonico statunitense e la nazione italiana è la contraddizione principale che abbiamo di fronte, espressione particolare di quella che è la contraddizione principale a livello internazionale, quella tra l’imperialismo statunitense e la tendenza inarrestabile alla multipolarizzazione del mondo e alla democratizzazione delle relazioni internazionali. Ogni altra contraddizione è, in confronto a questa, secondaria.

Il regime internazionale di Washington è in piena decadenza e si avvia alla sua scomparsa, in un modo o nell’altro. Non c’è da aspettarsi né dalla grande borghesia italiana, né da quella di altri paesi europei un “sussulto” volto ad approfittare del collasso del padrone per imporre nuovamente un proprio particolare imperialismo al mondo. La Storia non è il ripetersi del medesimo, e quella stagione si è conclusa. Davanti abbiamo un nuovo scenario, inedito, segnato dalla costruzione di un mondo multipolare e di una comunità umana dal futuro condiviso, un processo guidato politicamente dal più grande partito comunista del pianeta, il Partito Comunista Cinese, e da Stati che rappresentano per ogni popolo in lotta un interlocutore affidabile e una speranza, come la Federazione Russa, l’Iran, la Corea Popolare…L’Italia non è condannata a morire con il vecchio mondo: può partecipare alla costruzione di quello nascente. Per farlo è necessaria una nuova liberazione nazionale che cacci via gli imperialisti statunitensi e le cricche di speculatori e compradores loro alleati. E’ necessario riconquistare la nostra indipendenza, ma per muoversi politicamente in questo senso serve prima riconoscere la natura semicoloniale dell’Italia contemporanea, abbandonando qualsiasi confusione in merito e rifondando sui fatti e sul materialismo dialettico la propria visione del mondo.

Prima la borghesia era considerata la guida della nazione: essa difendeva i diritti e l'indipendenza della nazione e li poneva “al di sopra di tutto”. Ora non vi è più traccia del "principio nazionale”, oggi la borghesia vende i diritti e l'indipendenza della nazione per dei dollari. La bandiera dell'indipendenza nazionale e della sovranità nazionale è stata gettata a mare: non vi è dubbio che questa bandiera toccherà a voi di risollevarla e portarla in avanti, a voi rappresentanti dei partiti comunisti e democratici, se volete essere i patrioti del vostro paese, se volete essere la forza dirigente della nazione. Non vi è nessun altro che la possa levare in alto[9].

[1] J. Stalin, Materialismo storico e materialismo dialettico, in Principi del Leninismo, Editori Riuniti, Roma, 1952, p. 647.

[2] V. Lenin, On the Question of Dialectics, in Collected Works, Vol. XXXVIII, Mosca, Progress, 1976, p. 358.

[3] Mao Zedong, Sulla contraddizione, in Opere-teoria della rivoluzione e costruzione del socialismo, Roma, Newton Compton, 1977, p. 241.

[4] K. Marx, Per la critica dell’economia politica, in K. Marx, F. Engels, Opere scelte, Editori Riuniti, Roma, 1966, p. 747.

[5] V. Lenin, L’Imperialismo: fase suprema del capitalismo, in Opere Scelte, Progress, Mosca, 1976, p. 231.

[6] https://www.agenzianova.com/en/news/tunisia-president-saied-the-international-monetary-fund-cannot-impose-solutions-on-us/

[7] https://www.corriere.it/economia/lavoro/23_ottobre_19/giovani-emigrati-all-estero-dati-istat-numeri-reali-sono-triplo-grande-fuga-laureati-c35a3d0a-6e82-11ee-945f-3f883a74fca3.shtml

[8] https://www.lastampa.it/economia/2023/08/26/news/antonio_tajani_rilanciamo_le_privatizzazioni_lo_stato_ha_bisogno_di_fare_cassa-13011917/

[9] J. Stalin, Discorso al XIX congresso del PCUS, in J. Stalin, V. M. Molotov, G. M. Malenkov, Verso il comunismo, Edizioni di cultura sociale, Roma, 1952, p. 14.

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