di Leonardo Sinigaglia
Anche questo Venticinque Aprile, con l’assunzione di Antonio Scurati al ruolo di novello Matteotti e la “contro-sfilata” milanese della Brigata Ebraica e delle associazioni ultranazionaliste ucraine, promette di coprirsi di ridicolo per opera del cosiddetto “antifascismo istituzionale”, aiutato, da destra e “sinistra”, dalla vasta area dei disobbedienti di ogni specie.
Questo è il secondo anniversario della Liberazione con in carica il governo Meloni, e quale migliore occasione per i fieri “partigiani” del centrosinistra per rinnovare la propria caricaturale e macchiettistica identità “antifascista”! Le forze attualmente al governo sarebbero “fasciste”, l’unico ostacolo rimasto alla piena instaurazione di una nuova dittatura in Italia non sarebbero che loro, i valorosi parlamentari piddini, con la loro visione europea, la loro coscienza progressista e l’attenzione rivolta verso i problemi dei diseredati, come il maschilismo e la fluidità sessuale. Poco importa che il Partito Democratico e Fratelli d’Italia, assieme a praticamente ogni forza dell’arco parlamentare, abbiano sostenuto ottusamente e fanaticamente la guerra per procura della NATO in Ucraina, diffondendo ogni genere di menzogne sulla Russia e armando la mano di veri e propri nazisti che non fanno mistero dei propri propositi genocidi. Poco importa che il Partito Democratico, ancora una volta giocando di sponda con Fratelli d’Italia, abbia materialmente appoggiato la rappresaglia sionista contro l’operazione Tempesta di al-Aqsa, accodandosi alle fantasiose narrazioni a base di “bambini decapitati”, stupri di massa ed esecuzioni sommarie, mentre non passa giorno senza che venga rinvenuta nei territori occupati dai terroristi dell’IDF una nuova fossa comune, senza che le bombe sioniste non sterminino intere famiglie. Insomma, poco importa la realtà materiale, poco importa quali interessi si portano avanti: la Meloni, europeista, sionista e altantista, è fascista; il Partito Democratico, europeista, sionista e altantista, sarebbe antifascista. Il motivo? Esclusivamente estetico. Mentre la Meloni e i suoi millantano un patriottismo di maniera per tentare di illudere le masse stomacate da decenni di propaganda cosmopolita e anti-nazionale, il Partito Democratico si agghinda della bandiera arcobaleno e latra “Bella Ciao” sproloquiando di “diritti” sempre e unicamente “civili”.
La questione del supposto “antifascismo” viene declinata solo e unicamente all’interno dell’orizzonte liberale, dove diviene sinonimo, alla bisogna, di violenza, cattiveria, maleducazione, rozzezza, “populismo”, razzismo, omofobia, maschilismo e via dicendo. Si tratta quindi di un “modo di fare”, di un atteggiamento. Si è fascisti in quanto si dà un’impressione sbagliata di sé, per diventare “antifascisti” basta modificare questa estetica. Questa teoria del fascismo è quella che a tutti gli effetti viene propagandata dalla parte di classe dominante liberal-progressista. Ma si può considerare corretta? Non lo si può fare. I liberali hanno tutto l’interesse a far passare il fascismo per un problema caratteriale, un modo di fare particolarmente odioso o maleducato. Questo ne occulta il carattere politico, e permette di soprassedere alla continuità storico, ideologica e pratica tra il liberalismo e il fascismo, tra il decadimento della società borghese e quella moltitudine di movimenti, gruppi o correnti politiche che, in ogni parte del mondo capitalista, promossero in relazione alla crisi economica, sociale e istituzionale, in relazione alla Rivoluzione d’Ottobre e in relazione alla crescente forza dei movimenti operai e popolari una stretta in senso anticomunista e antidemocratico volta a tutelare gli interessi del grande capitale, della finanza e degli speculatori. In alcuni paesi tali movimenti arrivarono organicamente al potere, come in Italia e Germania, in altri si limitarono a influenzare più o meno decisamente l’operato dei governi reazionari, contribuendo all’intensificazione dell’oppressione coloniale e alla repressione anticomunista e antisindacale, come negli Stati Uniti o in Inghilterra.
La natura politica del fascismo appare così chiara. Esso non è che “la dittatura terroristica aperta degli elementi più reazionari, più sciovinisti e più imperialisti del capitale finanziario”, come definito dall’Internazionale Comunista, e rappresenta “la più feroce offensiva del capitale contro le masse lavoratrici; lo sciovinismo sfrenato e la guerra di conquista; forsennata reazione e controrivoluzione; il peggior nemico della classe operaia e di tutti i lavoratori”, che, per condurre la sua lotta, si ammanta della bandiera nazionale, e “frug[a] tutta la storia di ogni popolo per presentarsi come [l’]ered[e] e i[l] continuator[e] di tutto ciò che vi è di sublime e di eroico nel suo passato”[1]. Ne deriva che non si è fascisti in quanto ci si presenta in camicia nera, con fare violento e impositivo, ma si è fascisti in quanto si agisce da reparto d’assalto del grande capitale, da propugnatori di uno sciovinismo aggressivo e suprematista strumentale agli interessi del capitalismo finanziario. In questo senso, stante la definizione marxista, appaiono molto più fascisti i suprematisti occidentali del Partito Democratico, sempre pronti ad appoggiare l’avventurismo militare di Washington in giro per il mondo per “difendere l’Europa e i suoi valori” e “proteggerci dalle autocrazie” contribuendo nel far ciò a provocare milioni di morti e di sfollati, alla negazione al diritto all’autodeterminazione per interi popoli e all’imposizione violenta della gerarchia internazionale propria del “Washington consensus", rispetto al più bifolco, al più ignorantemente razzista nostalgico del Ventennio, che, oltre a busti di Mussolini e frasi fuori posto non potrebbe spingersi.
Si, il Partito Democratico e la sua rete culturale e mediatica potrebbe essere tacciato non senza ragione di fascismo. Ma questa accusa avrebbe poco senso nell’attuale situazione: più che “reparto d’assalto del grande capitale”, il PD, al pari dei suoi avversari del centrodestra, non è che un servo obbediente, una milizia di ascari coloniali pronti a seguire gli ordini della metropoli imperiale.
Ciò che rende i nostri liberali più simili al traditore che conduce le SS al villaggio da razziare che alle SS stesse è il carattere semi-coloniale del nostro paese. Tenendo conto di questa realtà, assume un particolare carattere il travisamento dell’antifascismo, perché esso in Italia si sposa perfettamente al nichilismo storico.
Il nichilismo storico è la tendenza a considerare in maniera astratta e decontestualizzata o a ripudiare interi periodi della Storia di una nazione o di una civiltà. Esso trova un ambiente favorevole sia nell’aperto liberalismo, sia nei vari gruppi che, da destra e “sinistra”, millantano posizioni “antisistema”. Si tratta di una potente arma della grande borghesia, strumentale nel distruggere la consapevolezza storica e sociale del popolo, portandolo ad abbandonare la fiducia in se stesso e nelle sue potenzialità. La lotta contro il nichilismo storico riflette la lotta di classe in un particolare settore ideologico. Il Presidente Xi Jinping e tutto il Partito Comunista Cinese sono da anni impegnati in una serrata lotta contro il nichilismo storico, correttamente individuato come uno degli strumenti che favorirono il crollo dell’Unione Sovietica[2], portando prima alla denuncia di Stalin, quindi di Lenin, della stessa rivoluzione e della dittatura del proletariato. Ma il nichilismo storico può essere utilizzato come arma non solo per abbattere il potere socialista e fomentare la sovversione ideologica nel contesto di un paese socialista: esso agisce anche nei paesi sottoposti alla dominazioni imperialista per delegittimare e denigrare la Storia di questi, presentandola sotto la sua luce peggiore e negando i suoi successi. Concretamente, il nichilismo storico trova applicazione anche nella negazione di tutte le conquiste storiche di un popolo, alimentando la narrazione che lo vorrebbe eternamente condannato a un ruolo subalterno perché “incapace di gestirsi”, “non abbastanza disciplinato” o in altro modo internamente viziato da qualche mancanza impossibilitante.
Anni di storiografia “demitizzante” portata avanti da destra e da “sinistra” hanno colpito il Risorgimento proponendone l’interpretazione monodimensionale come progressiva espansione del regno sardo a danno delle popolazioni della penisola, e hanno colpito la Resistenza attraverso due speculari direttrici d’attacco: una di destra, fondata sulla narrazione che i partigiani sarebbero stati, se non peggiori, sicuramente “non meglio” dei nazi-fascisti; una di “sinistra”, basata sul presentare la lotta di liberazione come una sorta di scampagnata patetica dalla quale l’elemento bellico e patriottico è sostituito da una stomachevole pappa del cuore buonista a base, nemmeno a dirlo, di arcobaleni e “diritti”. Entrambe queste narrazioni, in rapporto di reciproca sussidiarietà, negano il carattere politico alla Guerra di Liberazione Nazionale, che, nella sua triplice dimensione di guerra patriottica contro l’invasore, di classe e civile, ebbe come obiettivi essenziali la conquista dell’indipendenza nazionale, la liquidazione delle borghesia parassitaria e collaborazionista che aveva patrocinato l’ascesa del fascismo e la costruzione di un nuovo potere democratico-popolare tramite la sconfitta militare dei fascisti e dei loro padroni nazisti. Vinti i traditori e gli invasori, tutto ciò sembrò pienamente realizzabile, almeno sino al biennio 1948-1949 che, tramite una mastodontica mobilitazione politica-economica guidata dagli Stati Uniti, condannò il paese alla “normalizzazione” in senso liberale e atlantista.
Sia i liberali di destra che quelli di sinistra, oltre che i nostalgici neofascisti, hanno tutto l’interesse a presentare la realtà dell’Italia post-’48 come in continuità con la Resistenza. Questa opera di revisionismo storico ha attraversato diverse fasi in cui il movimento partigiano è stato prima “depoliticizzato”, poi ripartito tra partigiani “estremisti, non migliori dei fascisti” e partigiani “accettabili” e infine essenzialmente liquidato, da una parte nell’amalgama indistinto del “Bella Ciao” della sinistra liberale, dall’altra nell’aperta sconfessione della destra.
Oggi più che mai, con il 25 Aprile dirottato persino da chi apertamente sventola la bandiera della NATO e sfoggia i simboli dei nazisti dell’Azov, è necessario lottare contro il nichilismo storico, è necessario lottare contro quella narrazione che vuole la resistenza come il prodromo alla sottomissione dell’Italia all’imperialismo statunitense. I partigiani italiani lottarono per un paese libero, indipendente, democratico se non socialista. Fu il tradimento della Resistenza, fu un’imponente macchinazione politica realizzata grazie alla destra della Democrazia Cristiana, agli ambienti monarchico-conservatori, alle cosche liberali, al Vaticano e, soprattutto, agli Stati Uniti e i loro servi, che costrinse l’Italia a “passare da una dominazione a un’altra”. Emanciparsi dalla retorica che vorrebbe eguagliare l’Occidente con la democrazia e la libertà, e quindi con la Resistenza, è il primo passo per riappropriarsi non solo di una data fondamentale per la nostra storia nazionale, ma per tutto il nostro passato contemporaneo. Gli italiani non sono un popolo “senza Storia”, destinano a essere eternamente servo: come dimostra la nostra Storia, anche noi possiamo alzarci in piedi e conquistare indipendenza e libertà.
[1] G. Dimitrov, Rapporto presentato al VII Congresso dell’Internazionale Comunista il 2 agosto 1935.
[2] Per approfondire: https://www.katechon.org/dieci-lezioni-di-xi-jinping-ai-nuovi-membri-del-comitato-centrale-del-pcc/ https://www.katechon.org/levoluzione-del-nichilismo-storico-nellurss/
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