Le vicende delle democrazie occidentali, dopo il crollo delle ideologie storiche, coincidono sempre più con una visione unica, che non accetta alternative al dogma liberale.
Gli Stati Uniti d'America governano il mondo attraverso metodi ambigui da circa un secolo. Potenza industriale-militare consolidatasi dopo la seconda guerra mondiale, grazie all'influenza/ingerenza avuta nella ripresa del Vecchio Continente, le cui sorti da allora risultano legate al volere dei primi, in seguito alla dipendenza economica per la ricostruzione, essa impone la sua volontà, scavalcando a volte il diritto internazionale. Le pratiche messe in atto hanno assunto la forma della violenza, evidenti in economia come in politica.
L'economia americana si contraddistingue per la supremazia data al mercato. Una way of life, che magnificando le sorti progressive dell'impresa, capace di creare benessere per i suoi cittadini, ha fatto dell'anticomunismo la sua missione. Idee di sinistra incompatibili con quella concezione e da combattere in ogni modo. Pensiamo alle lotte contro sindacalisti ed anarchici o al maccartismo del secolo scorso. Un'aggressività poi trasferita nei vicini Stati del centro e sud America, attraverso trattati commerciali, o peggio sovvenzionando forze paramilitari in grado di far cadere governi legittimamente eletti, ma lontani dalle idee del capitalismo a stelle e strisce. La politica economica americana tutta incentrata a ribadirne la supremazia ha visto governi democratici e repubblicani portare avanti disegni imperialistici, fatti di guerre e colpi di Stato, al fine di esportare una concezione del tutto particolare di democrazia.
Accaparramento delle risorse, sfruttamento dei territori. Consumismo e abuso della manodopera nera e straniera. Questi sono fra gli aspetti in grado di determinarne la ricchezza. L'America è il paese delle possibilità, è da lì inizia una data mentalità, quella che inculca la competitività, ma dalla quale vengono fuori anche le tante contraddizioni e diseguaglianze. Le proteste contro le discriminazioni verso le persone di colore o i migranti, e il depauperamento, hanno subito la militarizzazione della vita urbana e le repressioni delle minoranze sociali. Fino al business del sistema carcerario e della costruzione dei muri per vietare l'ingresso degli stranieri. Un dominio dell'apparato militare in nome della sicurezza, che purtroppo è tristemente noto per gli abusi, le stragi interne, e il bellicismo.
Dall'altro lato l'Europa è incapace di assumere una posizione diversa. Una subalternità resa evidente sia a livello delle sue istituzioni che nei singoli Stati. Più che l'Europa dei popoli uniti da un destino comune è l'Europa del rigore finanziario. I tecnicismi hanno partorito l'austerità, che è una delle espressioni della violenza capitalistica. Tale impianto burocratico cristallizzatosi grazie alla colpevole partecipazione di forze partitiche con una tradizione di sinistra ha fatto riemergere, come tutta risposta, forze populiste, che ne minano la solidarietà.
Vi sono poi altre realtà del globo dove le logiche dietro al potere fanno riferimento a tribalismi (continente africano) o ad un regime fondato sulla supremazia religiosa (mondo arabo) e le caste (India).
E' finita l'epoca dei contrappesi. Il mondo multipolare non si intravede. Non esistono forze capaci di tamponare la supremazia del capitale.
Stato liberal-democratico e capitalismo sono sinonimi. Senza dover scomodare Marx o Lenin, che all'epoca parlarono di Stato borghese, fatto ad immagine e somiglianza di quella classe, dei proprietari che detenevano il potere, sia pur in presenza di una resistenza rappresentata da partiti e sindacati, che alle rivendicazioni della classe lavoratrice guardavano, oggi siamo giunti ad un punto di non ritorno.
Dall'imperialismo all'Impero cosi come tracciato da A.Negri e M.Hardt. La politica perde la capacità di decidere ed i suoi funzionari si trasformano in esecutori ed amministratori. Vecchi attori (le corporation, le lobby) e nuovi soggetti (fondi investimento, operatori finanziari) entrano in scena. Si dischiudono le frontiere per merci e capitali. La deregolamentazione dell'economico diventa un fatto normale. Mentre confini fisici sorgono in ogni lato del pianeta per impedire agli esclusi, alle vittime dell'iniquità dell'economia di guerra, di avere delle possibilità. Confinati, espulsi, reclusi. Ogni mezzo è lecito pur di nasconderne la visione disturbante.
Il fenomeno migratorio negli ultimi decenni è qualcosa che impatta in maniera massiccia su tutti i continenti. Ed evidenzia tutte le contraddizioni di un sistema di governo mondiale fondato sulle diseguaglianze crescenti, che producono nuove povertà. E che non vede approntare soluzioni serie onde evitare che possa debordare, limitandosi alla gestione in termini securitari, che nuove tensioni e conflitti rischia di alimentare fra culture, popoli, e Stati.
Nella nuova dimensione assunta da un mondo del lavoro, che appare instabile, frammentato e in concorrenza con i tanti sud del mondo, e che si ripercuote anche nelle forme dell'organizzazione di una protesta, quasi sempre settoriale, e incapace di concretizzare rivendicazioni o far rispettare i dettati costituzionali e le legislazioni, la risposta dei governi quando non è quella di un assenteismo istituzionale, presenta i caratteri della forza, della repressione da parte di chi non vuole ascoltare le ragioni altrui.
Cosi avviene pure nel caso della questione ecologica, di cui si parla da troppo tempo, invocando invano un cambiamento di paradigma, e che oggi vede la presa di coscienza di tanti movimenti giovanili che reclamano un futuro, ma le cui istanze, anche qui, vengono raccolte nei termini della forza bruta del manganello.
Intere masse assuefatte dall'impotenza e che trovano rifugio nell'alienazone dell'eccesso di offerta e di contenuti puramente consumistici. Quando una parte coscienziosa di esse tenta di mobilitarsi, perchè direttamente coinvolta in vertenze socio-esistenziali (appunto lavorative, ambientali ecc.), ancora una volta rimane vittima di un rifiuto o peggio di quella violenza capitalistica, che si avvale di apparati e strumenti polizieschi al fine di reprimere il dissenso nei confronti dell'ordine prestabilito.
Assistiamo da un pò di anni alla recrudescenza delle risposte dei gestori del capitale globale.
Le forme della rappresentanza svilite da decenni di politiche neoliberiste appaiono residui sbiaditi di un potere collocato altrove. I molteplici, diversi, interessi della collettività, che alle istituzioni fanno riferimento sono la dimostrazione di un vuoto che non viene colmato. Una distanza tra chi sta sopra e i sudditi.
Voci inascoltate a conferma di un deficit di democrazia presente praticamente in tutti i Paesi, con differenze minime a seconda che i governi siano espressione di forze liberali o conservatrici. Se le autocrazie e i sistemi a partito unico richiamano alcuni aspetti dei totalitarismi, lasciando però mano libera al mercato al pari delle gestione neoliberiste, è avvenuta in queste ultime un'accelerazione in senso autoritario, che restringe gli spazi di libertà.
Gli esecutivi approfittano delle emergenze globali (la pandemia i conflitti in corso) per mettere mano a provvedimenti limitativi di un confronto con le voci critiche e la società nel suo complesso. Una prassi pericolosa verso il consolidamento degli stati di emergenza come fatto non più eccezionale, ma normalizzato. Gli esecutivi si rafforzano, intaccano gli altri poteri attraverso modifiche costituzionali, ed attualizzano, avvalendosi dei dispositivi tecnologici, la sorveglianza sui sottoposti. Presi in mezzo a questo gioco di forze gran parte dei media si adeguano, venendo meno alla loro funzione "civilizzatrice" e di watchdog journalism. Quando l'informazione serve il potere attraverso la propaganda, le fake e la censura, cosi come osserviamo in Ucraina e Palestina, allora la vita democratica è messa in pericolo.
Anche in questi casi il coinvolgimento di interessi geopolitici, e la commistione di aspetti economico-miltari nel complesso delle alleanze globali sono l'espressione di un capitalismo di guerra, che passa sopra tutto e tutti. La risposta è ovunque la stessa, basti vedere a quanto accade nelle università americane ed europee, dove innanzi a proteste pacifiche, che mettono al centro il genocidio ad opera dello Stato di Israele, sgomberi, pestaggi ed arresti delle forze dell'ordine confermano come esse siano il braccio armato del capitale. E poi gli ostracismi verso tutte le voci critiche contro gli abusi, al pari di quanto recentemente sperimentato con l'affare Ucraina.
Insomma, è una lotta tutta interna al capitale globale. Un conflitto dalle cui macerie hanno preso corpo istanze revansciste, che assumono le sembianze dei nazionalismi e dei fanatismi religiosi.
Vicende inerenti al potere in vista di un sua eterna restaurazione.
di Alessandro Orsini* Risposta, molto rispettosa, a Liliana Segre. Il dibattito sul genocidio a Gaza, reale o presunto che sia, non può prescindere dalle scienze sociali. Nel suo...
di Giuseppe Masala per l'AntiDiplomatico In più di una circostanza ho scritto che oltre agli USA a vivere una situazione estremamente complessa in materia di conti con l'estero (debito/credito...
di Clara Statello per l'AntiDiplomatico L’Unione Europea è stata sconfitta nella guerra in Ucraina. Lo ha detto domenica sera il premier ungherese Victor Orban parlando al canale...
di Clara Statello per l'AntiDiplomatico Esattamente una settimana fa, il premier ungherese Viktor Orban, di ritorno da un incontro con Donald Trump a Mar-a-Lago, annunciava che queste sarebbero...
Copyright L'Antidiplomatico 2015 all rights reserved
L'AntiDiplomatico è una testata registrata in data 08/09/2015 presso il Tribunale civile di Roma al n° 162/2015 del registro di stampa