L'anno di Superbigote, quando il Venezuela ha fatto storia



di Geraldina Colotti

Si chiude il 2019. Un anno vissuto pericolosamente. L’anno in cui il Venezuela ha fatto storia, nel ventennale della rivoluzione bolivariana. Il Cuatro F, il settimanale del PSUV fondato da Nicolas Maduro il 24 novembre del 2014, ha raccontato e analizzato il crescendo di attacchi al socialismo bolivariano, dentro e fuori il paese, e dato conto della resistenza indomita del popolo cosciente e organizzato, risultato vittorioso contro tutti i pronostici.

Mai come in questo 2019 il rischio di un’aggressione militare è stato così vicino, e la minaccia dell’imperialismo incombe ancora sui fragili equilibri di una pace in via di definizione. Una pace da conquistare con la lotta, quando si voglia dare alla parola il suo significato pieno: coniugato alla giustizia sociale, ovvero lontano mille miglia da quello imposto ai popoli nei paesi in cui dominano i meccanismi dello sfruttamento capitalistico. Questo è stato il messaggio della rivoluzione bolivariana.

Il Venezuela ha fatto storia perché ha mostrato al mondo che esiste un’altra via, e che l’unica battaglia che si perde è quella che non si combatte. Contro il Venezuela e contro il processo di integrazione regionale, gli Stati Uniti hanno messo in atto una guerra asimmetrica a più dimensioni, fidando sull’appoggio delle oligarchie locali e su quello dell’Unione Europea, che ha fornito in questo anno il puntello alle nefaste politiche di Trump. Per le sue immense risorse strategiche e per la sua posizione geopolitica, infatti, il paese si trova al centro della competizione globale per la ridefinizione del mondo tra un campo che si prefigura multicentrico e multipolare, e un altro dominato dall’imperialismo USA, determinato a imporre al continente una nuova Dottrina Monroe.

In uno scenario geopolitico in cui il crescente multilateralismo mina il predominio dei poteri egemonici, e dell’Occidente in particolare, la partita che si sta giocando in Venezuela si può leggere dunque come una gigantesca prova d’orchestra dell’imperialismo che cerca di saggiare il terreno e di affinare i suoi strumenti in vista di un altro conflitto mondiale e di stroncare il risveglio dei popoli verso il socialismo.
In questo contesto, per l’intero 2019, la resistenza del popolo bolivariano ha costruito una barriera difensiva per tutti popoli del pianeta: sul piano economico, diplomatico, mediatico e simbolico. “Grazie all’inettitudine di Juanito Alimaña, abbiamo trascorso un anno duro, ma vittorioso”, ha detto il presidente dell’Assemblea Nazionale Costituente, Diosdado Cabello, riferendosi al deputato Juan Guaidó come al protagonista della canzone di Héctor Lavoe: un volgare ladrone, un delinquente con la cravatta.

“Juanito Alimaña vuole solo il controllo della grana, ma mentre lui ha il controllo della grana, il popolo ha quello della Patria, e vedremo chi la vince alla fine”, ha detto ancora Diosdado. Nel suo programma Con el Mazo Dando numero 280, realizzato nella città di Maturín (stato Monagas), Cabello ha denunciato che adesso “l’autoproclamato” sta facendo magheggi per assicurarsi la continuità alla presidenza del parlamento, compiendo violazioni flagranti alla Costituzione bolivariana e allo stesso regolamento interno che cerca di modificare.

“Ora si danno al voto elettronico, in rete… - ha ironizzato - Molti di loro passano il tempo sul web, per varie ragioni credono che il mondo equivalga alla rete. Violano la Costituzione, minacciano la loro stessa gente, perché tutto questo non è contro di noi, è un problema loro, è una zuffa per la grana che uno deve all’altro”.

Che l’autoproclamazione di Guaidó avesse come obiettivo quello di impadronirsi a ogni costo del bottino, è apparso chiaro fin da quando – il 5 gennaio – il deputato si è recato in una piazza pubblica per definirsi “presidente incaricato”. Da chi? Da Trump e dai suoi 50 governi vassalli, che lo hanno immediatamente riconosciuto dando copertura alla truffa internazionale con l’evidente obiettivo di rimettere le mani sulle risorse del Venezuela.

Una truffa 2.0 dai livelli tanto grotteschi quanto redditizi e pericolosi. Per la prima volta, l’imperialismo USA è sceso in campo direttamente, mostrando il volto del suprematismo bianco, patriarcale, ultraconservatore. Il primo capitolo dell’aggressione si è svolto intorno al cosiddetto aiuto umanitario, che l’autoproclamato e la sua banda hanno voluto far entrare con la forza il 23 febbraio, sia dalla frontiera con il Brasile che da quella con la Colombia.

Il documentario La batalla de los puentes, di Carlos Azpúrua mostra la sproporzione evidente tra le forze in campo in quell’occasione. Da una parte, un intero apparato mediatico e culturale, tre presidenti conservatori latinoamericani, e la più grande potenza militare rappresentata ai massimi livelli, pronta a sostenere l’azione di Guaidó e compari che ne avevano chiesto l’intervento. Dall’altra, la dignità, il coraggio e l’inventiva di un popolo deciso a non essere sottomesso. Da una parte, un concerto miliardario, dall’altro la musica della rivoluzione, la musica del 4 Febbraio 1992, della Costituzione del 1999, la musica di Chavez.

Un’aggressione costruita in oltre un mese di minacce e pressioni internazionali, supportate dal tentativo di applicare al Venezuela il modello delle “rivoluzioni di colore”. La destra venezuelana, solitamente più a suo agio nei traffici e nei golpe che nelle piazze, sembrava allora rispondere ai frequenti appelli farfugliati dall’autoproclamato a nome degli USA.

Tre mesi di attacchi e sanzioni, culminati con il sabotaggio alla rete elettrica del 7 marzo, rivendicato in diretta dagli USA, ma smentito dai media e derubricato a guasto provocato dall’incuria e dall’inefficienza. Il 2019 è stato l’anno dei “nervi d’acciaio, calma e prudenza”, raccomandati da Maduro in quei giorni, durante i quali il popolo bolivariano ha dato una gran mostra di sé: scendendo in piazza ancor più numeroso, e trasformando in festa quello che, per Trump, avrebbe dovuto essere un inferno.

Già a gennaio, l’amministrazione nordamericana aveva annunciato i termini dell’”asfissia” programmata nei confronti dell’economia venezuelana: nello stesso stile con il quale Nixon aveva ordinato alla Cia di “far urlare l’economia cilena” ai tempi di Salvador Allende. Tra le misure contemplate, e puntualmente attuate nel corso dell’anno, vi erano il blocco delle transazioni finanziarie e dell’oro del Venezuela, il sequestro dei beni all’estero: in particolare quello dell’impresa Citgo e di altre raffinerie ubicate in aree di controllo USA.

I proventi – disse Trump – sarebbero dovuti finire nelle tasche di Juanito Alimaña e della sua banda, doppiamente favoriti dalla situazione di illegalità in cui versa il Parlamento, ormai fuori dal controllo degli organismi competenti. E la banda di ladroni ha scatenato i propri appetiti, rubando a più non posso: i soldi del concertone del 23 febbraio, quelli degli “aiuti umanitari”, quelli siringati a dovere dal padrino nordamericano e da quelli europei.

Un festino che avrebbe dovuto culminare con il golpe del 30 aprile, ma che è finito in farsa nei pressi di una pompa di benzina. Falliti anche altri tentativi destabilizzanti, grazie alla professionalità dell’intelligence bolivariana e alla solidità dell’unione civico-militare, che ha mantenuto i militari fedeli alla Costituzione e dunque a Maduro.

La controffensiva del governo bolivariano e del Partito Socialista Unito del Venezuela ha riguardato sia il campo diplomatico che quello politico. Malgrado la pressione concentrica delle forze reazionarie, la voce della rivoluzione si è levata forte e chiara in tutti gli organismi internazionali, assestando efficaci fendenti.

Delcy Rodriguez, Jorge Arreaza, Samuel Moncada, Jorge Valero… nomi che resteranno nella storia, al contrario del miserrimo presidente della Colombia, Ivan Duque, talmente obnubilato dall’odio contro il Venezuela da presentare un falso rapporto all’ONU, finendo nel ridicolo. E il 17 ottobre, il Venezuela è stato eletto tra i nuovi membri del Consiglio delle Nazioni unite per i diritti umani, nonostante il rapporto dell’Alta Commissaria Onu Michelle Bachelet, evidentemente scritto sotto dettatura degli USA.

Sul piano politico, da un lato il governo bolivariano è riuscito a rilanciare il dialogo con la parte non golpista della destra, isolando i settori oltranzisti filo-Usa. Dall’altro, ha invitato a discutere tutti i movimenti internazionali in una serie di congressi che hanno coinvolto tutti i settori del chavismo.

Il Congreso de los pueblos, che si è svolto nei giorni successivi al tentativo di invasione del 23 febbraio, si è trasformato in una tribuna internazionale per far conoscere al mondo la verità del Venezuela e per gridare in tutte le lingue: No más Trump. Poi, a fine luglio, è arrivato il Foro di Sao Paolo, la cui straordinaria riuscita, nonostante il boicottaggio delle compagnie aeree subalterne agli Stati Uniti, ha mandato fuori dai gangheri sia Trump che le destre da lui dirette.

In quell’occasione, la presenza del presidente cubano Miguel Diaz Canel ha reso evidente che la strategia di Trump di premere su Cuba attraverso l’Unione europea affinché abbandonasse Maduro non aveva sortito effetto. “Cuba non vende la sua storia e i suoi ideali, rimane a fianco del Venezuela”, ha detto Diaz Canel concludendo l’incontro internazionale, a Miraflores.

Al foro di Sao Paolo è seguito il Congresso internazionale delle lavoratrici e dei lavoratori, poi quello delle donne, e ancora degli indigeni, degli afrodiscendenti, delle comunas, dei giovani e infine della comunicazione, organizzato dalla sezione di Agitazione Propaganda Comunicazione del PSUV, diretta da Tania Diaz. Durante il congresso dei giovani, si è avuta una prova in più della solidità dell’unione civico-militare. Non solo erano presenti tutti i vertici della Forza Armata Nazionale Bolivariana, ma si è dato risalto al ruolo delle giovani negli alti comandi, le quali hanno mostrato il proprio convincimento al socialismo bolivariano cantandole chiare agli studenti di opposizione, venuti a manifestare con i simboli delle agenzie create dagli USA per le rivoluzioni di colore.

Un paese in assemblea permanente, che ha messo in crisi i piani militari degli USA e sfibrato la tenuta dei golpisti e delle loro false rappresentazioni internazionali, mostrando al mondo i pericoli del suprematismo nordamericano.

Il 2019, in fondo, è stato l’anno di Superbigote, il superbaffo di Maduro che, secondo Donald Trump, avrebbe risvegliato nel continente una nuova ondata di rivolte contro il capitalismo. Superbigote ha una volta di più smentito e messo in ridicolo i tanti detrattori che ne pronosticavano a ogni piè sospinto la caduta.

L’imperialismo, però, non sta a guardare. Quello che sta per finire è stato anche l’anno del golpe in Bolivia, in cui si sono manifestati gli stessi attori che appoggiano Trump e Bolsonaro: le multinazionali evangeliche, i grandi potentati economici e mediatici, l’esercito.

Sul piano elettorale, a parte i due grandi paesi tornati a sinistra – Messico e Argentina – non c’è da stare allegri, l’integrazione latinoamericana è stata disintegrata e il cammino per ricostruirla si presenta arduo. Nonostante i problemi interni, gli USA non demordono e promettono altri fiumi di denaro destinati alla destabilizzazione del continente. Altri fondi sono stati stanziati dall’Europa per “l’aiuto umanitario”.

Elliott Abrams, rappresentante speciale degli Stati Uniti per il Venezuela, ha confermato che il suo paese continuerà ad appoggiare Guaidó e ad aumentare le sanzioni contro il governo Maduro fino alla celebrazione di “elezioni libere”, ovvero elezioni presidenziali. Gli ha risposto con un twitter il ministro degli esteri Arreaza: “Cercano disperatamente di salvare i loro incarichi dopo un anno di fallimenti. Un combinato di anti-diplomazia, frustrazione e superbia. Non imparano la lezione. Il Venezuela è irrevocabilmente libero e indipendente”.

E intanto le proteste in Cile, Colombia, Haiti, Centroamerica, indicano che “la brezza bolivariana” spira sul continente e che il 2020 potrebbe essere anno di vittorie.

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