Riina, pìetas o vendetta? Perché non è questo il problema.


Sulla clemenza che la Corte di Cassazione propone di accordare a Riina, uno dei più sanguinari e mai pentiti delinquenti italiani, si sta scatenando un dibattito che, secondo la migliore tradizione alla Orazi e Curiazi, è presto uscito dalla dialettica del diritto e anche da quella della pìetas umana imboccando la via dell’incomprensione tipica del fanatismo da tifosi.

Che Riina sia un mostro umano è fuori da ogni dubbio e questo, in verità, lo ammettono anche i suoi difensori e le tante anime clementi che stanno perorando il suo diritto a uscire di galera perché vecchio e malato, ancorché tuttora capace di comandare omicidi a distanza ai suoi “picciotti”.
Il dibattito che si sta scatenando sui social tende a incanalarsi su due binari che portano fuori strada e che si stanno sempre più definendo, l’uno, come vendetta che negherebbe il diritto a una morte dignitosa e l’altro, come il suo contrario e cioè il diritto ad un trattamento umano e dignitoso che la galera non consentirebbe.

Proviamo a tornare su quello che riteniamo essere il binario corretto per una discussione che come base abbia il rispetto del diritto e non dimentichi l’umanizzazione della pena.

Il dibattito è partito dalla proposta della Cassazione ad una morte dignitosa. Bene, crediamo che tutti, compresi i nazisti che le nostre galere ospitarono quali Kapler o Priebke, abbiano diritto a una morte dignitosa e quindi anche Riina. E questo non dovrebbe neanche essere posto in dubbio, perché lo Stato di diritto non può utilizzare la prigione come vendetta, pena il non essere più Stato di diritto.

Ma se si dà per scontato che non si può garantire una morte dignitosa in galera, sembra conseguente che neanche la vita in galera lo sia. Quindi, la vita nelle prigioni italiane violerebbe il Diritto umanitario internazionale e non solo in singoli orrendi casi venuti agli onori della cronaca (vedi Stefano Cucchi, per esempio) ma come consuetudine tollerata dalle nostre Istituzioni.

Praticamente sarebbe come dire che l’Italia si comporta con i carcerati in modo simile a quel che fa Israele con i prigionieri palestinesi o la Turchia con gli oppositori politici, o l’Arabia Saudita e via elencando?

Se è così e le Istituzioni ne sono al corrente, scendiamo, noi cittadini democratici, tutti in strada per chiedere il rispetto dei diritti umani per i detenuti in Italia, quali che siano i crimini commessi, perché non può essere la vendetta – sentimento individualmente comprensibile per chi è stato vittima del delinquente, ma non certo obiettivo dello Stato – a definire le condizioni carcerarie. Lo stesso carcere duro secondo l’art. 41 non ha come obiettivo la rappresaglia verso il criminale, bensì il non consentire che questi possa ancora commettere o comandare crimini attraverso il contatto con l’esterno.
Ma il dibattito in Italia, in quella sorta di moderna agorà rappresentata dai social, sta andando oltre la via del diritto, sia da parte di chi chiede la scarcerazione di Riina, sia da parte di chi la considera una scelta sbagliata.

Il potere della piazza a dibattito libero ha, purtroppo, il difetto di radicalizzare e semplificare le posizioni, per cui capita di leggere insulti pesanti scambiati tra le due tifoserie, i quali investono anche chi articola il proprio pensiero su tutt’altra base che quella viscerale, sia in un campo che nell’altro. E in tutto ciò si dimentica l’essenziale, cioè il diritto che - lo ripetiamo - dovrebbe essere garantito a tutti, ad una morte dignitosa; si confonde la richiesta della Corte di Cassazione al tribunale di Bologna con una sentenza definitiva; si dimentica che Riina è accudito in un centro clinico di eccellenza e non è certo sottoposto a incuria medica né tantomeno a percosse e umiliazioni come denunciato da altri detenuti per i quali, chissà perché, la dignità non è argomento da considerare.

Da parte della tifoseria pro-scarcerazione in nome della pìetas umana, si tende a trascinare nel campo dei vendicatori viscerali anche coloro che si appellano al diritto alla morte dignitosa senza sospensione della pena o arresti domiciliari che sarebbero l’onore concesso a un capomafia mai pentitosi, ancora riconosciuto tale e il cui potere, più che simbolico, verrebbe rafforzato nel caso in cui potesse tornare nella sua casa, nonostante i 17 ergastoli, tra gli onori che è facile immaginare gli verrebbero tributati.

Sarebbe, in conclusione, un omaggio neanche troppo indiretto, a Cosanostra e ai poteri corrotti dello Stato con cui Riina ha condiviso potere e crimini nella sua lunga vita di capomafia.

Per questo, anzi “anche” per questo, riteniamo che l’ottantaseienne Toto Riina abbia il diritto ad essere accompagnato, senza sospensione della pena, ad una morte dignitosa nonostante si sia macchiato di crimini tanto efferati che dal punto di vista umano non consentono a nessuno di definirlo persona meritevole dell’appellativo di dignità.

Ma lo Stato di diritto non scende al livello dei criminali che giudica e quindi è giusto che Riina seguiti ad avere, come già ha, il diritto a tutte le cure possibili che possano ridurre la sofferenza di un vecchio uomo che, per legge di natura, si avvicina alla morte, e saranno proprio queste cure (che ci auspicheremmo venissero offerte a tutti) a non permettere alla situazione detentiva di andare oltre “la legittima esecuzione della pena” che rappresenterebbe la condizione per la sua scarcerazione.



Che muoia dignitosamente (al di là della sua indegnità umana) in carcere. Per rispetto di quel Diritto che altrimenti subirebbe una grave lesione di cui tutti noi saremmo vittime.

Milano 7 giugno 2017,
Patrizia Cecconi

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