Alberto Negri - La Libia prima colonia "globale"


di Alberto Negri* - il Sole 24 Ore


La Libia nasce come colonia italiana con l’unificazione nel 1934 tra Tripolitania e Cirenaica e finisce nel 2011 con la caduta di Gheddafi, dopo 42 anni di dittatura, per diventare una sorta di “colonia globale” condizionata dalle influenze delle potenze esterne e da incontrollabili attori locali. È assai probabile che questo scenario non sarà modificato neppure dall’incontro nel castello di Saint Cloud, alle porte di Parigi, tra il presidente di Tripoli Fayez Sarraj e il generale della Cirenaica Khalifa Haftar.



Invasa nel 1911 dall’Italia, la Libia non è mai stata una vera nazione e con la fine dell’autocrate sono riemerse le rivalità tra le varie cabile e tribù che si disputano le risorse petrolifere (un milione di barili al giorno), le riserve della Banca centrale (scese in 3 anni da 100 a 43 miliardi di dollari) e del Fondo sovrano (investimenti per 70 miliardi), nonché i 400 milioni di dollari dell’“industria dei migranti”. Un bottino che prima veniva spartito da Gheddafi: oggi nessuno ha la forza e l’autorità per tagliare le fette di questa torta.


Il risultato più evidente è che il meeting Sarraj-Haftar serve alla Francia di Macron soprattutto per rafforzare il suo prestigio non solo sulla questione libica ma come leader di riferimento per una buona parte del Nordafrica e del Sahel dove Parigi ha importanti interessi militari, economici e finanziari. Anche la road map per il cessate il fuoco, le elezioni nel 2018 e la lotta ai traffici dei migranti, annunciata ieri alla presenza di Ghassam Salamé, un galantuomo libanese ma rappresentante di Nazioni Unite evanescenti, è solo una «bozza di lavoro» non un accordo, come ha sottolineato la stessa presidenza francese. In Libia non ci sono facili successi da sbandierare, eppure Macron non ha rinunciato a una frase a effetto: «Oggi la pace può vincere, questo è un momento storico».


L’Italia, con l’iniziativa del G-5 e nella fascia sub sahariana, ha un po’ infastidito Parigi che con il franco Cfa controlla l’80% delle riserve valutarie di 13 Paesi africani. Macron rimette in ordine le gerarchie e ci ricorda che l’Italia la guerra in Libia nel 2011 l’ha persa: può essere irritante ma ci riporta alla realtà.


Noi in Libia, nonostante la presenza dell’Eni, non siamo il Paese più importante. Paghiamo la caduta del nostro maggiore alleato ma anche l’avere ceduto al ricatto di dover partecipare ai raid aerei sulla nostra ex colonia altrimenti ci avrebbero bombardato i terminali del gasdotto. Due debolezze in una. L’Italia ha perso la seconda guerra mondiale e questo ha comportato la rinuncia alle colonie: in Somalia gli americani non volevano neppure che i nostri soldati atterrassero sulla pista di Mogadiscio. Possiamo ambire a un ruolo energetico rilevante ma non a uno militare o politico, se non sotto stretto controllo come in Iraq e Afghanistan.


In nostri alleati e concorrenti sono guidati da una regola cinica quanto si vuole ma tipica di potenze con ambizioni militari e un antico riflesso coloniale.
In Libia oggi o tu fai direttamente il lavoro sporco - ovvero difendere gli interessi economici o strategici- oppure trovi qualcuno che lo faccia al posto tuo, fornendo aiuti militari e supporto politico. La Francia, la Russia, l’Egitto, gli Emirati, hanno puntato sul generale Khalifa Haftar, l’Italia ha seguito il percorso dell’Onu, culminato con gli accordi di Skirat del 2015, ma praticamente fallito di fronte alla realtà di un governo Sarraj che non ha alcun potere effettivo. Gli Stati Uniti, che avevano partecipato ai raid del 2011 e poi bombardato l’Isis, stanno a guardare: il loro obiettivo è impedire che Mosca diventi in Libia troppo influente. Interverranno solo in questo caso.


La via del compromesso con le fazioni locali ha favorito l’Eni che è la maggiore azienda in Libia e detiene un terzo della produzione di gas e petrolio. Un risultato importante se pensiamo che i nostri concorrenti volevano ridimensionare la presenza italiana. Ma che finora a poco è servita per bloccare il flusso dei migranti che nessuno dei nostri alleati europei è disposto a risolvere al posto nostro.


Il problema è che le ondate di migranti sono una questione di sicurezza, non soltanto umanitaria, e appare evidente il limite del nostro Paese a proteggere i confini dalla mafia dei trafficanti. Insomma la nostra sicurezza dipende solo in parte da noi ma soprattutto dagli interventi diretti o indiretti altrui e dobbiamo fare buon viso a cattivo gioco sperando che le mosse della Francia, della Russia o degli Usa ci aiutino. Ogni giorno la politica estera ci ricorda, in maniera più o meno brutale, che tra i vinti ci siamo pure noi.


*Pubblichiamo su gentile concessione dell'Autore

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