Mentre è in corso la farsa dell’autoproclamato con la sua “consultazione popolare”, le reazioni alle parlamentari, che si sono svolte in Venezuela il 6 di dicembre, fotografano la contesa geopolitica per come si va configurando in questo scorcio del 2020. Un anno segnato dalla pandemia da coronavirus, che ha già provocato 1,57 milioni di morti (3.000 al giorno solo negli USA), quasi mezzo milione in Europa.
Un’Europa stretta nella gabbia della Ue, la cui cifra ricompatta, per l’occasione, gli interessi di banchieri, affaristi e grandi imprenditori a scapito dei settori popolari, ribadendo la stratificazione gerarchica esistente fra i suoi stessi membri. Un’Europa che vuole avere la sua fetta di torta, restando però sotto l’ombrello (Nato) del Grande Fratello nordamericano.
Il ministro degli Esteri russo, Serguéi Lavrov, ha sintetizzato adeguatamente la situazione, commentando la decisione del blocco regionale di imporre una nuova tornata di sanzioni alla Russia senza passare per gli organismi dell’ONU. L’Unione Europea – ha detto – ha rinunciato a essere uno dei poli di un sistema multipolare, continuando ad agire nell’orbita di Washington: “La politica della Germania – ha aggiunto – ci conferma che così vuole attuare Berlino, sempre che mantenga la leadership dell’Unione Europea”.
Su richiesta degli Stati Uniti, facendo riunioni a porte chiuse, la UE cerca di screditare l’ONU mediante il “meccanismo generico di imporre sanzione per violazione dei diritti umani”, ha denunciato il capo della diplomazia russa. L’Occidente, insomma, promuove il concetto di ordine mondiale basato su singole riunioni a porta chiusa. Perché? Per subordinare ai propri interessi gli organismi preposti dell’ONU, e resuscitare il modello di un mondo unipolare, fidando sulla crisi che attraversano gli organismi internazionali. Però – ha assicurato Lavrov, “è poco probabile che riescano a sottomettere dei poli come Russia e Cina”.
In questa chiave è possibile inquadrare anche la natura degli attacchi rivolti al Venezuela bolivariano, situato nel sistema di alleanze per la costruzione di un mondo multicentrico e multipolare. In quella che si annuncia come una nuova “guerra fredda” a livello globale, l’imperialismo USA e i suoi vassalli spingono per imporre nuove regole internazionali basate sull’arroganza del gendarme nordamericano, che soffoca il respiro di George Floyd, in nome della legalità: la legalità di un sistema violento e ingiusto a scapito della legittimità del diritto dei popoli a respirare secondo il proprio diaframma, e senza pesi sul cuore.
Solo con una logica neocoloniale, arrogante e asimmetrica, si può violare così sfacciatamente le norme internazionali e accusare chi invece quelle norme le rispetta, di essere fuori dalla “legalità”: vale per le numerose risoluzioni dell’Onu contro l’occupazione della Palestina, come per le “sanzioni” imposte in nome dei “diritti umani”, quando la stessa Onu le ritiene un crimine di lesa umanità.
Vale altresì per la questione delle regole, delle procedure e della “democrazia”. Quale legittimità può avere un tizio che un giorno decide di autoproclamarsi in una piazza del Venezuela, se non quella di essere amico dei potenti? La legittimità del mafioso, dunque, che evita consapevolmente di sottoporsi alle regole democratiche in cui, piaccia o meno, si contano i voti e vince chi ne ottiene di più.
Quale affidabilità può avere un sistema elettorale macchinoso e volatile come quello degli Stati Uniti, su cui pesano evidenti eredità razziste e classiste, ostaggio di un sistema lobbistico e del complesso militare-industriale?
Un sistema simile consente che governi una minoranza, a scapito della stragrande maggioranza della popolazione. E quando le regole vanno strette agli interessi delle classi dominanti, le cambia, con artifizi normativi o con decisioni autoritarie, come si è visto con Trump.
Uno degli ultimi esempi riguarda la cosiddetta “Sezione 230”, la legge che assolve le grandi imprese di Internet dalla responsabilità per le azioni compiute dai loro utenti. Dopo che twitter ha oscurato o censurato alcuni post ritenuti falsi o fuorvianti inviati da Trump durante lo spoglio elettorale, il tycoon ha firmato un ordine esecutivo al riguardo, e chiesto alla Federal Communications Commission (Fcc) l’Autorità per le comunicazioni, di abolire quel paragrafo della legge voluta da Bill Clinton 26 anni fa.
La Commission non ha però simili prerogative, e la decisione sarebbe incostituzionale. Tuttavia, a presiedere la Fcc c’è Ajit Pai: un uomo per tutte le stagioni, ovvero per tutte le multinazionali, messo lì da Obama e poi passato al trumpismo. Si deve a lui l’abolizione, tre anni fa, della net neutrality, la cosiddetta neutralità della rete, voluta da Obama, che consentiva a tutti gli utenti il diritto ad avere la stessa velocità di connessione.
Da allora, invece, la connessione aumenta o diminuisce in base al denaro versato. Un problema che ha ripercussioni mondiali, visto che molti server sono basati negli Usa, e visto anche che la legislazione statunitense ispira e condiziona quella dei poli subalterni agli USA. Immaginiamo quanto è “democratica” una norma simile in piena pandemia e con il peso che assume la rete per il lavoro e per l’educazione a distanza.
La nomina di Ajit Pai dovrebbe decadere quando Biden assume l’incarico, il 20 gennaio. Tuttavia, ancora una volta il funzionamento farraginoso della “democrazia” USA consentirà di mantenere in piedi le decisioni di Trump: sia perché il Senato potrebbe respingere la nuova nomina, sia perché l’incarico di tre componenti trumpisti della Fcc si prolunga ben oltre gennaio. Tutto questo mentre Trump non ha smesso di dare battaglia alle sue stesse istituzioni, affermando che il sistema elettorale USA, considerato “modello” anche dalla vecchia Europa è “un sistema da Terzo mondo”.
La legalità borghese contro la legittimità dei diritti. Quale giustificazione può avere l’erogazione di denaro a fiumi, da parte dei “donatori” occidentali per mantenere la farsa dell’autoproclamazione, mentre mancano nei paesi UE ospedali, case, scuole e lavoro?
La stessa che ha giustificato altri fiumi di denaro erogati per promuovere la “democrazia” in Medioriente, rovesciando governi legittimi come quello siriano. Per foraggiare solo “4 o 5” dei 54 mercenari allenati dagli Usa, vennero stanziati 500 milioni di dollari, ha dichiarato nel 2015 in Senato Lloyd Austin, che Biden vorrebbe come Segretario alla Difesa, dandosi involontariamente la zappa sui piedi.
Ora, il sistema di alleanze legato al Consenso di Washington per l’America Latina, si scaglia contro i risultati del 6D per metterne in dubbio la “legittimità”. Prima, i governi della UE hanno respinto l’invito del governo venezuelano a verificare di persona la solidità delle istituzioni bolivariane, accompagnando il processo elettorale. Ora, dicono che quei risultati non sono validi: non contano, perché non vengono “riconosciuti” dalla cosiddetta comunità internazionale.
Ancora una volta, per “comunità internazionale” s’intende solo l’asse subalterno agli USA, ovvero quei “50 paesi” che hanno avallato la farsa dell’autoproclamato. Ma quanti sono i paesi nel mondo? Solo il Movimento dei Paesi Non Allineati, la seconda istituzione per grandezza dopo l’ONU comprende 120 stati più altri 17 osservatori, e rappresenta oltre due terzi di tutti quelli del mondo (208).
La Mnoal si è espressa contro le ingerenze negli affari interni dei paesi. Lo stesso Consiglio di Sicurezza ONU ha più volte respinto i tentativi di aggressione e di ingerenza contro il Venezuela, a seguito delle documentate denunce presentate dall’ambasciatore Samuel Moncada. E ora il governo cinese ha chiesto agli Stati uniti di rispettare la democrazia venezuelana.
A schierarsi contro il Venezuela sono peraltro istituzioni screditate e anche svuotate di peso, che si reggono solo sull’artifizio neocoloniale voluto dagli USA. Vale per l’Organizzazione degli Stati Americani (OSA) diretta da Almagro, nella quale ha fatto sentire il proprio dissenso il rappresentante del governo argentino tornato a essere progressista. Al “ministero delle colonie”, come giustamente lo definì Fidel Castro, ed è venuto a mancare anche il sostegno del Messico progressista e della Bolivia tornata al MAS. Vale, per ragioni analoghe, anche per il fantomatico Gruppo di Lima. Vale, soprattutto per la voce dei popoli, tornata prepotentemente a farsi sentire in Perù, Cile, Colombia, Ecuador paesi nei quali comincia a soffiare la “brezza bolivariana”.
“La Nuova Zelanda si preoccupa per le elezioni in Venezuela”, titolava senza paura del ridicolo un giornale dell’opposizione venezuelana. Un post di Samuel Moncada invitava l’Unione Europea, immediatamente insorta per “disconoscere” i risultati del voto in Venezuela, a considerare che: “9 paesi della UE hanno fatto registrare una partecipazione inferiore al 40% nelle elezioni al Parlamento europeo del 2019 e 4 una partecipazione al di sotto di quella registrata in Venezuela, che è del 30,50%: la Repubblica Ceca (28,72%), Slovenia (28,89%), Slovacchia (22,74%) e Croazia (22,85%)”.
La post-verità non ha però al centro la forza dei fatti – quella che ha rivendicato e argomentato il presidente Maduro durante una conferenza stampa internazionale seguita alle elezioni – ma la finzione e l’asimmetria. Una finzione diffusa anche nel disprezzo della logica, e avallata da quelli che, al tempo in cui contavano i fatti e contava la conseguenza tra il dire e il fare, si chiamavano “grilli parlanti”.
Fuori dal bilancio che il socialismo bolivariano farà come sempre nelle sedi opportune, fuori dalla valutazione sulle conseguenze del blocco economico-finanziario imposto dall’imperialismo, l’esercizio dei numeri e dei confronti matematici sulla percentuale di partecipazione a queste elezioni, rischia soltanto di essere fuorviante.
“La rivoluzione - diceva Mao Tse Tung - non è un pranzo di gala; non è un’opera letteraria, un disegno, un ricamo; non la si può fare con altrettanta eleganza, tranquillità e delicatezza, o con altrettanta dolcezza, gentilezza, cortesia, riguardo e magnanimità. La rivoluzione è un’insurrezione, un atto di violenza con il quale una classe ne rovescia un’altra”. La rivoluzione non è una passeggiata neanche quando si concretizza in forme post-novecentesche. Casomai, se c’è un’annotazione che conviene tener presente, è che i problemi emersi nel socialismo del secolo scorso, finiscono per presentare il conto anche al “socialismo del XXI secolo”.
Una coscienza che il Partito Socialista Unito del Venezuela, nuovamente messo sotto accusa per l’occasione dai maestrini in rivoluzione, ha ben presente, visto che, tra i Congressi internazionali che si sono svolti dopo il Foro di San Paolo, ce ne sono due particolarmente significativi al riguardo: la Piattaforma operaia antimperialista e il Congresso sul Blocco storico, che ha declinato il tema del consenso, per come lo intese Gramsci, nel percorso del socialismo bolivariano.
“In Venezuela siamo rimasti in 25 milioni”, ha dichiarato l’ex governatore dello Stato di Miranda, candidato alla presidenza due volte sconfitto, Henrique Capriles. Se quelli che, in Europa, pendono dalle sue labbra prendessero per buone queste cifre, che percentuale di partecipazione elettorale si dovrebbe considerare in un paese che ha 20,7 milioni di aventi diritto al voto su una popolazione di oltre 32 milioni di persone?
Ammesso e non concesso che il signor Capriles, oltreché pieno di soldi (come lui stesso ammette nella lunga intervista rilasciata alla BBC), sia anche pieno di statistiche, si dovrebbe calcolare che ad andarsene sia stata una composizione di persone di età omogenea in proporzione con la popolazione. In questo caso, gli aventi diritto rimasti in Venezuela diventerebbero all’incirca 17, 5 milioni. La partecipazione al voto sarebbe allora almeno del 36%: ben oltre il 30,5% registrato dal CNE.
La verità è che Capriles cerca di farsi largo nella nuova fase che si apre tra farsa e realtà: la farsa che gli Usa e l’Europa vorrebbero continuare avallando all’infinito un presunto governo parallelo per incentivare una soluzione “libica”, e la realtà di un paese che lotta per riavere le proprie risorse e continuare a impiegarle a favore del popolo. Risorse straordinarie, molte delle quali strategiche per un capitalismo in crisi strutturale che deve rubarle ai popoli per sopravvivere.
Ora, con Biden, l’imperialismo vuole provare la carta proposta dall’Europa e dal suo fallimentare “gruppo di contatto”. Una proposta che, però, ha bisogno di tempo per provare a unire in questa chiave la screditata opposizione venezuelana, facendo ventilare al governo bolivariano la possibilità di “ammorbidire le sanzioni” in cambio di concessioni politiche.
Per questo, serve ammantare questa ridicola “consultazione popolare” svincolata da ogni controllo democratico, a un artificio giuridico volto a distorcere la costituzione bolivariana. In questo senso, sta circolando un audio di propaganda assai esplicativo: sostiene che, con il supporto di presunti grandi giuristi internazionali, la continuazione di Guaidó nel suo “governo parallelo” può darsi in base al concetto di “continuità amministrativa”.
Una condizione prevista dalla costituzione bolivariana quando un fattore impedisce il rinnovo delle cariche, per esempio in un consiglio comunale o in una governazione. Per costituzione, tutte le assemblee dei cittadini possono prendere decisioni in merito.
La truffa della destra è quindi di dare alla “consultazione” della borghesia lo stesso valore di un’assemblea popolare, delegittimando le decisioni già prese dal popolo sovrano, come ha cercato di fare con la “consulta” parallela (e fraudolenta), seguita al voto per l’Assemblea Nazionale Costituente del 2017.
Quanto mai puntuale è risultato perciò il programma delle Brigate internazionali della comunicazione solidale (BRICS-PSUV) dal titolo “La legittimità democratica alla prova del fuoco”, che si è tenuto come seminario web dell’Università Internazionale della Comunicazione. Al tavolo, la prima vicepresidente della ANC, Tania Diaz, e la seconda vicepresidente, Gladys Requena, entrambe elette deputate al nuovo parlamento, insieme al coordinatore Carlos Sierra e al direttore del Cuatro F, Gustavo Villapol.
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