Crisi Serbia-Kosovo: genesi di un disastro annunciato

di Chiara Nalli per l’Antidiplomatico


Lo scorso venerdì sera (26 Maggio) la Serbia ha schierato alcune unità dell’esercito lungo posizioni di difesa del confine amministrativo con il Kosovo. Le unità sono state poste in stato di massima allerta e sabato mattina (27 Maggio) si è tenuta una seduta del Consiglio di Sicurezza nazionale, i cui esiti non sono stati resi noti.

Come riportato anche dai media italiani, la decisione del governo di Belgrado fa seguito ai disordini scoppiati nei comuni di Zvecan, Leposavic e Zubin Potok quando cittadini di etnia serba hanno occupato i locali comunali nel tentativo di impedire l’insediamento dei neoeletti sindaci albanesi. L’intervento delle forze speciali di polizia del Kosovo, con gas lacrimogeni, fumogeni e granate assordanti ha causato il ferimento di diverse persone, sollecitando l’immediata reazione delle autorità di Belgrado che hanno inviato l’esercito al confine nell’eventualità di dover intervenire a protezione delle comunità serbe in Kosovo.

Per comprendere le ragioni delle proteste dei serbi del Kosovo occorre fare un passo indietro, chiarendo innanzitutto che i comuni teatro delle vicende fanno parte dei dieci (quattro nel nord del Paese e sei a sud est) a maggioranza serba e per i quali, gli accordi di Bruxelles del 2013 (e 2015) prevedono una forma di autonomia amministrativa mai attuata dalle autorità di Pristina, la c.d. “Unione dei Comuni Serbi del Kosovo” (ZSO – sigla in serbo). La mancata realizzazione della forma di autogoverno concordata nell’ambito dei piani per la normalizzazione delle relazioni, unita alla escalation di tensioni iniziata già nell’estate del 2022, ha portato le comunità serbe a boicottare le elezioni amministrative del 23 aprile 2023 - mediante le quali sono stati eletti i sindaci oggetto di contesa – a cui ha preso parte effettivamente, solo il 3,4% degli elettori, cioè circa 1.500 albanesi e solo 13 serbi.

Ciò che oggi i serbi del nord del Kosovo rivendicano, quindi, è, innanzitutto l’architettura costituzionale nell’ambito della quale sono state indette le elezioni e, di riflesso, la mancanza di legittimazione politica degli esiti elettorali.

È del resto vero che le stesse istituzioni dell’Unione Europea, prendendo atto dello stallo dei negoziati sulla formazione della ZSO e riconoscendo l’esito politico fallimentare delle elezioni di aprile, avevano proposto, nel timore di una nuova escalation, una soluzione transitoria in base alla quale i sindaci neoeletti non avrebbero assunto la carica presso i propri comuni alla data prevista del 28 Maggio. Proposta respinta dal primo ministro del Kosovo A. Kurti con il pretesto di dover dare piena attuazione a elezioni svoltesi nel quadro della legalità costituzionale del paese.

E’ altrettanto vero che l’atteggiamento oltranzista del governo kosovaro riguardo l’insediamento dei nuovi sindaci e la violenza nella gestione delle proteste hanno suscitato non poco biasimo presso gli attori internazionali coinvolti: in una dichiarazione congiunta, USA, Francia, Italia, Germania e Regno Unito hanno condannato la decisione del Kosovo di accedere agli edifici municipali con le forze di polizia, chiedendo alle autorità di ritirarsi e collaborare strettamente con le missioni EULEX e KFOR; parimenti il portavoce della Commissione europea, il portavoce della NATO, il capo dell'UNMIK (missione delle Nazioni Unite in Kosovo) e l’ambasciatore americano a Pristina; mentre il segretario di Stato americano Anthony Blinken ha invitato A. Kurti a fermare immediatamente le azioni violente e a concentrarsi nuovamente sul dialogo con Belgrado, mediato dall'UE.

In effetti, nel crescendo di tensioni che ha caratterizzato le scorse settimane, hanno segnato il passo anche i fallimenti dei round negoziali per la creazione della ZSO - mediati dall’UE e tenutisi a Bruxelles il 2 e il 15 Maggio 2023. La vera domanda, quindi, è cosa si muove dietro lo stallo dei negoziati e le resistenze del governo di A. Kurti e quale sia il ruolo che, in tale contesto, l’Unione Europea (e gli USA) possono esercitare o hanno esercitato.

I negoziati di maggio avrebbero dovuto rappresentare il momento per discutere concretamente le prerogative e i limiti della ZSO, dopo gli accordi quadro di febbraio e di marzo 2023. Il governo kosovaro ha invece rigettato in toto la bozza di statuto della ZSO elaborata dal team di negoziatori preposto. Non solo: insoddisfatti dei contenuti dello Statuto, i membri del governo di Pristina hanno unilateralmente disconosciuto il ruolo del team che – ricordiamo – era stato specificatamente designato a tale compito dagli accordi di Bruxelles del 2013 e del 2015, che ne avevano definito competenze e mandato (un mandato, peraltro, non limitato alla presentazione del progetto di statuto me che avrebbe dovuto estendere il proprio ruolo al processo di formazione, fino alla costituzione vera e propria dell’associazione di comuni).

L’atteggiamento del governo di Pristina è stato stigmatizzato dagli stessi funzionari UE, i quali hanno evidenziato come il disconoscimento del team non fosse in linea con lo spirito dell’auspicato dialogo tra Belgrado e Pristina e con i principi contenuti degli Accordi per la normalizzazione delle relazioni del 2013 e del 2015. La bozza di statuto presentata a Bruxelles, infatti, deriva direttamente da tali accordi che – peraltro - le istituzioni di Pristina avevano accettato e ratificato (salvo non darne poi applicazione concreta con il pretesto di conflitti con la carta costituzionale del Paese).

I punti fondamentali, sulla cui attuazione insistono le autorità di Belgrado, riguardano in particolare la proprietà e la gestione di tutti i beni pubblici (infrastrutture e risorse naturali) posti nel territorio dei comuni interessati e la possibilità di ricevere finanziamenti direttamente dal bilancio dello Stato serbo.

La parte kosovara ha invece insistito proponendo il proprio modello di ZSO, elaborato direttamente dal governo di Pristina, che di fatto, svuoterebbe l’associazione di comuni da ogni competenza di tipo esecutivo e amministrativo, relegandone il ruolo a funzioni di tipo culturale, sociale ed educativo e nell’ambito degli assetti istituzionali già previsti dalla costituzione esistente.

Tutto questo non ostante le ripetute esortazioni, pervenute dalle più alte sfere della diplomazia europea e americana (e perfino dal Consiglio di Sicurezza ONU) a concludere l’accordo sulla ZSO con la massima urgenza e ignorando le preoccupazioni, sollevate da più parti, sull’imminente scadenza per l’insediamento dei nuovi sindaci, ritenuto, a buona ragione, il fattore scatenante dal quale avrebbe potuto dipanarsi una nuova spirale di incidenti. Avvertimenti evidentemente inascoltati da Pristina.

Perché? Come è possibile che un Paese grande quanto l’Abruzzo, totalmente dipendente dall’assistenza tecnica e finanziaria dei propri partner esteri (USA e UE) e non dotato di istituzioni ed esercito indipendenti (in quanto sottoposti al complesso schema di supervisione della missione UNMIK), assuma atteggiamenti negoziali tanto spregiudicati da porsi in contrasto perfino con i propri sostenitori? E come è possibile che, di fronte a un disconoscimento tanto evidente di accordi già accettati e in presenza di una grave e conclamata minaccia per la sicurezza dell’area balcanica, i paesi membri dell’UE e gli USA non abbiano utilizzato tutti (e in tal caso potenti) mezzi a propria disposizione per ricondurre il governo di Pristina a più miti consigli?

Perché se è chiaro che un’escalation dei disordini nel nord del Kosovo potrebbe anche risultare “comoda” alle autorità di Pristina, offrendo loro un ottimo pretesto per sospendere i negoziati ed evitare quindi la formazione della ZSO, è altrettanto evidente che l’unica forza in grado di impedire tale deriva è il blocco politico occidentale, inteso come insieme di interessi in campo e istituzioni coinvolte. Come è stato possibile, quindi, arrivare alla situazione attuale?

In effetti, riavvolgendo il nastro e scorrendo dall’inizio le dichiarazioni della diplomazia occidentale da un lato e le azioni del governo di Pristina dall’altro, la sensazione che si trae è quella di una sorta di “commedia internazionale” in cui i paesi occidentali raccomandano “ex cathedra” ma non esercitano pressioni concrete mentre i rappresentanti del governo Pristina si atteggiano come una sorta di figlioletto spocchioso ma benvoluto - che nulla ha da adempiere e che elogia se stesso come “paese più democratico della regione” e “fattore di pace e libertà nei Balcani". E se sul piano diplomatico, da un paio di mesi a questa parte il governo di Belgrado si è trovato di fronte una sorta di cortesissimo muro di gomma, sul versante squisitamente pratico le cose si sono mosse - e si sono mosse certamente in una direzione non favorevole alla popolazione serba.

Il boicottaggio delle elezioni amministrative del 23 Aprile rappresenta infatti, solo la punta dell’iceberg: un’occasione per dare visibilità e portare sul piano della discussione politica tutta una serie di difficoltà (o veri e propri soprusi) subiti dalla popolazione serba residente in Kosovo. In questa sede vale la pena menzionare la riforma della legge in tema di espropri – portata avanti dal governo di Pristina - che mira ad agevolare le confische di terreni per la costruzione di strutture militari e/o di polizia e tutte le infrastrutture a esse collegate, con un’estensione non ben definita alle aree circostanti. La riforma arriva peraltro nel mezzo di quello che sembra essere un processo di militarizzazione dell’area nord del Kosovo, attraverso la costruzione di nuove basi militari avviata già a partire dallo scorso anno. Lo scenario che si intravede è appunto quello di espropri forzati di terre ereditate dai serbi da generazioni e, in più, con la finalità di occupazione militare del territorio. Si tratta di terre storiche (incluse quelle di chiese e cimiteri) che la popolazione serba “superstite” (50.000 individui su circa 200.000 all’inizio degli anni ‘90) è assolutamente determinata a non abbandonare. Considerando che le discussioni relative agli espropri vanno avanti da mesi, si può comprendere quale sia il livello di esasperazione raggiunto dalla popolazione serba del Kosovo.

Per quanto riguarda UE e USA invece, possiamo sicuramente affermare che l’equidistanza ostentata sul piano formale è molto meno praticata a livello concreto. E’ del 30 Aprile la notizia, pubblicata sulla pagina Facebook ufficiale delle forze di sicurezza del Kosovo (KBS), secondo la quale i carabinieri italiani stanno addestrando alcune unità del KBS nell’ambito di un accordo bilaterale tra Italia e Kosovo; le esercitazioni fanno seguito a quelle già condotte in Italia nel 2022 e sono focalizzate sulla gestione e repressione dei raduni di massa. Mai tempismo fu più appropriato. Ma il controllo di rivolte non è l’unico punto sul quale il KBS sarà istruito dai propri partner occidentali. Per lo stesso KBS, infatti, era prevista la partecipazione all’esercitazione congiunta NATO nei Balcani, denominata "Defender of Europe 23", nell'ambito della quale, fino al 23 giugno, verrà testata la capacità di difesa nell’area balcanica contro un possibile attacco russo. E’ importante notare come la partecipazione del KBS alle esercitazioni congiunte del blocco NATO avesse una valenza molto più ampia della pura ed esplicita preparazione tecnica e militare, mirando, in realtà, alla trasformazione di tali forze di sicurezza in un vero e proprio esercito, legittimato anche da un alto livello di relazioni politico-militari con i propri principali alleati, USA e NATO. Vale la pena ricordare che la costituzione di forze armate sul territorio del Kosovo è contraria alla risoluzione ONU 1244, secondo la quale l'unica formazione armata legittimata ad operare in quel territorio è la KFOR.

E’ evidente quindi come le relazioni politiche, economiche e militari tra il Kosovo da un lato e UE, USA e NATO dall’altro si muovano verso una direzione sicuramente meno neutrale rispetto a quanto emerge dalle interlocuzioni formali, che vorrebbero il blocco occidentale come arbitro solo parzialmente coinvolto nelle vicende balcaniche. Motivo per cui si può affermare che la crisi attualmente in corso non era solamente ampiamente prevedibile ma anche gestibile. Da questa osservazione è facile comprendere quindi come il coinvolgimento diretto - o se vogliamo le ingerenze - del blocco occidentale nelle dinamiche dell’area balcanica possano essere spiegate anche in funzione anti-russa. Come del resto della guerra alla Russia fanno parte le enormi pressioni su Belgrado affinché aderisca alle sanzioni applicate da UE e USA. In aggiunta a quanto da noi già riportato (https://www.lantidiplomatico.it/dettnews-vertice_serbiakosovo_a_bruxelles_belgrado_tra_ue_e_tutela_degli_interessi_nazionali/5694_49534/) segnaliamo che a maggio 2023 il Parlamento Europeo ha adottato una risoluzione sulla Serbia, deplorando la mancata introduzione di sanzioni contro la Russia (inclusa la mancata sospensione delle attività di trasmissione di Sputnik e Russia Today) e condannando gli stretti rapporti tra i due paesi. Questo non ostante il governo serbo abbia chiarito in più occasioni di non poter adottare misure che si porrebbero in grave contrasto con i propri interessi nazionali e garantito, al contempo, piena cooperazione tecnica con le istituzioni UE affinché la Serbia non diventi una piattaforma per l’elusione delle sanzioni da parte di altri paesi.

E non è un caso se una delle dichiarazioni pubbliche più incisive della portavoce del Ministero degli Affari Esteri russo abbia riguardato, in tempi recenti, proprio le pressioni ricevute dalla Serbia in tema di sanzioni. In un commento del 24 Maggio, M. Zacharova ha affermato: “Sappiamo quanti sforzi sta facendo l'Occidente per costringere i nostri amici serbi a rinunciare alla cooperazione con la Russia. La pressione esercitata su di loro è senza precedenti […]. Viene utilizzato tutto lo spettro di ricatti, sanzioni, minacce, il tutto secondo le peggiori tradizioni europee" – concludendo che: “nessuno in Occidente - che attui una politica neocoloniale - impedirà a Russia, Serbia […]di sviluppare una cooperazione reciprocamente vantaggiosa e di contribuire al rafforzamento della pace e della stabilità nei Balcani”.

Dichiarazioni che potrebbero risultare entusiasmanti per chi abbia a cuore un mondo regolato da rapporti multilaterali paritari ma che in realtà puntano un riflettore, assolutamente non necessario, su un paese, la Serbia, completamente circondato da alleati NATO.

Per chi volesse immaginare una probabile evoluzione della attuale crisi, forse, è proprio questo il punto nodale da tenere in considerazione: la posizione geografica della Serbia, tecnicamente irraggiungibile dai propri alleati e quindi indifendibile. Applicando il buonsenso, potremmo pensare che un confronto armato, in tale contesto, sarebbe non solo tragico ma anche totalmente inutile. Il che potrebbe farci propendere, più realisticamente, per l’ipotesi di un lento “assorbimento” della Serbia nella sfera degli interessi occidentali - a partire da quelli economici - da attuarsi con “bastone e carota”: pressioni, favori e magari qualche manovra di destabilizzazione interna. Una strategia ampia, in cui il Kosovo e la protezione dei suoi territori a maggioranza serba potrebbero rappresentare una preziosa merce di scambio.

Alla chiusura del presente articolo (31 Maggio) si registrano gli ulteriori, violenti scontri, avvenuti la mattina del 30 Maggio - che hanno causato il ferimento di circa 30 militari della KFOR, tra cui 11 soldati italiani. In conseguenza di tali sviluppi, nel tardo pomeriggio del 30 Maggio il segretario generale della NATO J. Stoltenberg ha annunciato l’invio di ulteriori 700 militari a protezione della stabilità dell’area e l’esclusione delle forze di sicurezza kosovare (KBS) dall’esercitazione congiunta “Defender of Europe ’23”, come sanzione nei confronti del Kosovo per aver provocato un’inutile escalation di tensioni.

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